Scavi di Megara Hyblaea |
Le città di oggi si
sviluppano disordinatamente, senza forma. Questa loro sfigurazione
non è altro che l'aspetto monumentale della rendita capitalistica,
del dominio assoluto della città sulla campagna, della città al
servizio della ricchezza. Sembra così concludersi nel kaos un
modo di vivere che era invece sorto come principio del kosmos,
quando cioè all'origine la città è espressione della campagna ed
appare ordinata e al servizio dell'uomo come i campi di un podere ben
coltivato.
Questa nascita della
città secondo una razionale progettualità è stata dimostrata da
due archeologi francesi, G. Vallet e F. Villard, che scavano da anni
il cuore di Hyblaea, una colonia greca sulla costa orientale della
Sicilia, poco a settentrione di Siracusa.
L'avevano fondata dei
coloni che provenivano dalla Megara di Grecia, la dorica madre-patria
posta a metà strada fra Corinto ed Atene: una metropoli neonata,
visto che da poco vi si era concentrata una popolazione che prima si
trovava sparsa per cinque villaggi e per le campagne.
Siamo nell'VIII secolo
avanti Cristo, quando sorgono le prime città in Etruria, nel Lazio,
in Magna Grecia e nella stessa Grecia. Questa straordinaria
rivoluzione urbana è condotta dai primi proprietari privati della
terra che la storia della umanità abbia conosciuto.
La ricerca degli
archeologi francesi e dei loro collaboratori si è concentrata sul
quartiere della grande piazza (agorà) dell'antica colonia.
Nove ettari saggiati e quasi tre interamente scavati. Una impresa
intentata, il lavoro di una generazione, ora finalmente raccolto in
due grossi volumi (Megara Hyblaea 1. Le quartier de l'agora
archaique, École Française de
Rome, 1976).
Quando i greci sbarcarono
sul sito pianeggiante della futura Megara di Sicilia non vi abitava
nessuno. Gli indigeni vivevano per lo più sulle montagne. Se essi
erano venuti portando con loro un'immagine di città, avrebbero
potuto realizzarla: del tutto liberamente, senza alcun
condizionamento naturale o umano. Le diciassette case, databili agli
ultimi decenni secolo, sono l'espressione materiale tramite la quale
possiamo tentare di ricostruire il modello di insediamento che i
primi coloni avevano importato in terra straniera.
Un modello di
insediamento
L'ipotesi degli scavatori
è che "i primi coloni occuparono gran parte dello spazio che
alla fine del secolo verrà recinto da mura, che risparmiarono fin
dall'origine due importanti aree destinate a funzioni
politico-religiose (area dei due templi del secolo, sotto i quali
sono stati trovati soltanto resti di un villaggio neolitico ed area
dell'agorà, leggermente depressa anch'essa e mai occupata da
abitazioni), che previdero l'articolazione della città in isolati e
grandi assi stradali e che infine costruirono le loro prime case
rispettando, prevedendo, una realtà che si sarebbe concretizzata
monumentalmente soprattutto a partire dalla metà del secolo.
Nulla, infatti, se non la
roccia ed uno strato di terra nera, sta ad indicare in positivo la
presenza di strade e della grande piazza centrale di questa città
che nasce, se non appunto il risparmio del terreno pubblico previsto
in quello che potrebbe definirsi il « piano » della colonia. Di
positivo ci sono le case dei coloni, costituite da un solo ambiente
quadrangolare – (di metri quadri 16), che si apre a sud, costituito
da grosse pietre di fondazione e da muri a secco (non da mattoni
crudi, come avveniva in Grecia). Il pavimento è di terra battuta, il
tetto di strame. La casa era circondata da un «giardino» con silos
per il grano e animali domestici. Si tratta evidentemente della casa
di una coppia, non di una grande famiglia di più generazioni.
Le diverse proprietà
sparse nell'area urbana sembrano fra loro diverse, ma
fondamentalmente equivalenti. I cittadini ci appaiono di conseguenza
pochi, poveri e uguali. Ma quel che più importa dal punto di vista
urbanistico è che le case dei primi coloni sembrano rispettare
quelli che saranno gli spazi pubblici e la stessa organizzazione
interna dei futuri isolati.
Di qui l'idea che un
«piano» esistesse fin da principio.
Nella prima metà del
secolo osserviamo i primi segni di sviluppo. Le casette monocamera
sono ora dotate di uno o due altri ambienti (raggiungendo i 20 i
quadri), il suolo è costituito di arenaria sfranta. La proprietà,
incluso il giardino, è ora misurabile (circa 125 metri quadri). Si
diffonde l'uso dei pozzi. Sono tutti questi i segni di una
popolazione che cresce in numero e prosperità. L'esperimento «
città » funziona.
Nella seconda metà del
secolo la polis di Megara raggiunge il suo momento di massima
fioritura. Essa fonda nel 628 Selinunte. Le case sono ora di due o
tre ambienti (ciascuno di m. 4 per lato), posti in fila
perpendicolarmente alle strade, per la larghezza complessiva di mezzo
isolato (m. 12). Le porte delle stanze si aprono a mezzogiorno (non
vi sono comunicazioni interne) verso una corte (larga m. 6) che ha un
ingresso sulla strada. Le proprietà urbane si restringono (metri
quadri 70 di media). L'abitato si fa dunque più denso ed esteso e la
città perde l'aspetto di una somma di case contadine per assumerne
uno nettamente urbano (è probabile che alla fine del periodo
compaiano i tetti di tegole).
Il sistema di produzione
fondato sulla città consente dunque un notevole sviluppo della
produzione e dell'accumulazione. Ne è una prova vistosa i grandi
lavori pubblici che si concentrano fra il 650 e il 620. Il primo
edificio a sorgere all'incrocio delle due maggiori arterie stradali è
un heroon (probabile luogo di culto dell'eroe fondatore della
colonia), cui segue una stoà (loggiato), un edificio
amministrativo (non dissimile dalla regia nel foro romano e
dall'edificio dell'agorà ateniese). La grande piazza di
Megara non è più uno spazio libero ma è ormai un centro
monumentale della vita comune religiosa, civile, politica,
giudiziaria della città. Gli edifici religiosi e civili seguono le
regole dell'architettura greca.
Ci stupisce la mancanza
di ogni aspetto commerciale e artigianale, perché le nostre città
sono figlie delle città medievali, dove questi aspetti erano
centrali. Nella città antica invece “lo Stato deve esercitare il
commercio per il suo proprio interesse e non per interesse di altri.
Quelli che aprono il loro mercato a tutti lo fanno in vista del
guadagno: ma lo Stato non deve partecipate a tale forma di
arricchimento” (Aristotele, Politica). Dove la ricchezza è al
servizio della città e non viceversa, la piazza sarà libera da
mercanti e mercanzie, cui si destineranno aree marginali. Al tempo di
Aristotele questa realtà vive più nella teoria che nella pratica,
mentre il contrario doveva succedere nella città arcaica.
Si tratta ora di vedere
cosa significa questo sviluppo urbano sul piano dei rapporti fra gli
uomini. Quando una società si basa sulla proprietà privata di tutti
i mezzi di produzione e di sostentamento, presuppone automaticamente
la possibilità di accrescere o di perdere questa condizione di
proprietà. Sorgono allora i ricchi e i poveri e con essi gli
antagonismi fra le diverse parti sociali. La «lotta di classe» fra
pacheis (grassi) e il demos (popolo) avrà non solo
riflessi interni, quali il passaggio dall'oligarchia alla tirannide,
ma anche esterni, quali i conflitti fra le diverse poleis (ad
esempio fra Megara e Leontinoi).
Con il VI secolo non si
conoscono costruzioni di case nel quartiere dell'agorà. Si
tratta di una specializzazione in senso pubblico di questa parte
della città — si domandano gli archeologi — o di una crisi della
polis nel suo insieme. Forse di ambedue le cose (ma per essere
più precisi occorrerebbe scavare anche i quartieri periferici di
Megara). Il conflitto con Siracusa darà il colpo di grazia a questa
piccola ormai e fragile città che si era inutilmente circondata di
mura: Gelone distruggerà Megara nel 483 a.C. La città risorgerà,
più piccola, nel IV secolo e sarà distrutta nel 213 dal romano
Marcello. La campagna si riprenderà allora e per sempre quel che i
coloni greci le avevano tolto. Le uniche costruzioni che fino all'età
bizantina sorgeranno sulle rovine della città ellenistica saranno
appunto delle fattorie.
Una indagine di
valore
Da quanto si è detto si
intende facilmente il grande valore delle indagini di F. Villard e di
G. Vallet. Esso consiste certamente anche nella grande estensione
dello scavo che ha permesso di conoscere un intiero quartiere. Ma
proprio in relazione all'estensione dello scavo nasce il problema più
drammatico per ogni archeologo. Come assicurare il più stretto
rigore stratigrafico, facilmente ottenibile in saggi limitati, entro
grandi estensioni? È questo un problema in larga misura non risolto
e che quindi neppure i due archeologi francesi potevano risolvere. Ma
il problema resta. Nuovi esperimenti fanno tuttavia presentire una
rivoluzione nella tecnica di scavo e nei metodi di pubblicazione.
Verrà dunque forse un
giorno in cui si presterà altrettanta attenzione alle parti molli
(gli strati) che alla struttura ossea (i muri) di un insediamento. Le
une verranno scavate ed edite in organica connessione con la seconda
senza privilegiare fasi storiche particolari, ma di seguito, secondo
l'ordine di tutte le azioni umane e naturali che hanno appunto
composto la città nel suo sviluppo, dall'inizio alla fine. Allora
gli “sconvolgimenti” delle successive azioni edilizie e di vita
appariranno come qualcosa di razionale e conoscibile e non più come
una disordinata opera di distruzione che una generazione opera su
quanto la precedente ha costruito.
La cura stratigrafica
(penso agli esperimenti di M. Gras e H. Tréziny a Megara) diventerà
il costume abituale, imprescindibile etica dello scavatore. Allora
anche le più fragili strutture, in argilla e legno, e i più modesti
aspetti della vita materiale verranno rivelati ai nostri occhi (come
ha imparato a fare l'archeologia europea). I risultati dello scavo
comporranno allora una narrazione continua nella quale anche il più
piccolo fatto contribuisce, come un mattone, alla ricostruzione
storica di quell'organismo che è una città.
Allora lo scavo
archeologico apparirà come una operazione chirurgica sulla terra e
la terra apparirà non più come un serbatoio di documenti ma come
una realtà vivente. Ma per ragioni storiche siamo ancora assai
lontani da tutto ciò, specialmente sulle sponde del Mediterraneo.
Ciò non toglie che entro i limiti posti da una certa fase dei nostri
metodi scientifici del lavoro di alta qualità possa esser fatto. Ed
è il caso di proprio davanti ai migliori risultati viene la voglia
di andare ancora avanti.
“l'Unità”, 20
novembre 1997
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