Giovanni Raboni, poeta di
grande qualità, sul finire del 1986 legge i testi delle canzoni di
Paolo Conte, cercando di individuarne i significati espliciti e
impliciti, di stabilirne il valore poetico con puntuali sondaggi
tematici e stilistici e con qualche attenzione al contesto
(soprattutto musicale e interpretativo) e al rimosso. Ne viene fuori
una lettura convincente e un giudizio a mio avviso definitivo sul
poeta oltre che sul “cantautore”: “un dilettante più bravo di
quasi tutti i professionisti, un piccolo e involontario classico –
nel suo genere – di tutto il Novecento”. (S.L.L.)
Da dove cominciare? Dai
suoi ultimi trionfali concerti a Roma e Milano? O dal suo ultimo
disco intitolato Concerti (venti dei suoi brani più noti registrati
dal vivo)? Cominciamo prima da un'enciclopedia: meglio andare sul
sicuro. Ecco qui, subito, l'ottima Enciclopedia della musica
Garzanti, nuova edizione aggiornata all'aprile del 1983. A pagina
179, fra la voce «contacio» (forma innografica del repertorio
liturgico bizantina) e la voce «Conti Carlo» (compositore e
insegnante al conservatorio di Napoli, autore di 11 melodrammi, 6
messe e 2 requiem), leggiamo le seguenti righe che, al momento, più
direttamente ci riguardano: «Conte Paolo (Asti 1937), compositore di
canzoni, cantante e pianista. Già autore di canzoni di successo
(Azzurro per Adriano Celentano, Tripoli 69 per Patty
Pravo), ha scritto e interpretato personalmente ironici bozzetti di
provincia (Un gelato al limon, Bartali)».
Ironici? Bozzetti di
provincia? Ah no, non ci siamo proprio. La mia fede nella
«Garzantina», per un attimo, vacilla; vado a vedere la voce «Berio
Luciano», la voce «Stockausen Karl-heinz»: sono eccellenti,
chiarissime, si capisce tutto. Evidentemente, è più difficile
cogliere il senso di una canzone che quello delle più grandi, ardite
sperimentazioni formali...
Cercherò, per entrare
davvero in argomento, di spiegare perché quella definizione mi sia
parsa tanto inadeguata; e lo farò proprio a partire dal testo di una
delle canzoni citate, Bartali, che è anche, credo, una delle
più tipiche e famose del nostro autore.
Di che cosa si parla o,
meglio, che cosa succede nella canzone Bartali? La situazione è
molto precisa ma, come si vedrà, nient'affatto ironica e
nient'affatto bozzettistica. Un uomo e una donna stanno, insieme, sul
ciglio d'una strada. Lui è seduto «in cima a un paracarro», e ha
l'aria di non volersi muovere affatto: sta aspettando qualcuno,
qualcosa. Lei è impaziente, annoiata; vorrebbe andare, si capisce,
da qualche altra parte, per esempio al cinema... L'uomo, a un certo
punto, scatta: «E al cinema vacci tu!». A lui piace stare lì,
sulla strada, anzi sullo «stradone» (parola che ci da una chiave,
un riferimento ambientale e forse anche storico, di assoluta
esattezza: chi è vissuto - poco o tanto, da residente o da sfollato
- in un paese, sa che cos'è lo «stradone», che cosa evoca, che
cosa implica). Gli piace stare lì, sullo stradone, in cima a un
paracarro, perché aspetta che passi una corsa ciclistica, perché
vuol vedere Bartali...
Certo, potrebbe anche
essere un «bozzetto»: una scena di genere in cui il maschio
sportivo, anzi tifoso, perde la pazienza con la moglie o la ragazza
che ha voglia di fare qualcos'altro. Ma non è così. Non è così
per la semplicissima ragione che Bartali non passerà mai, non può
passare, ha smesso di correre da chissà quanto tempo; e le
descrizioni che l'uomo, parlando fra sé, ne viene dando - Bartali
con «quel naso triste come una salita... quel naso triste da
italiano allegro», il campione per il quale i francesi «si
incazzano» e «ci rispettano» - non sono descrizioni di una persona
in carne e ossa ma descrizioni di un ricordo, di un rimpianto, di un
mito.
L'uomo - l'uomo che
parla, che canta, insomma lo stesso Conte - sta aspettando, dunque,
il passaggio di un fantasma, il ritorno di un'immagine. Il suo voler
restare lì, solo, ostinatamente immobile sul paracarro, non mi
sembra (e chiedo scusa se mescolo il sacro al profano) tanto diverso
dalle lunghe soste, dall'inspiegabile attardarsi del giovane Marcel
Proust lungo il sentiero di Méséglise alla ricerca del profumo, del
fantasma, della voce dei biancospini...
Sto esagerando? Certo che
sto esagerando; ma bisogna appunto esagerare per farsi capire. E
comunque, a mia parziale discolpa, ecco i due versi - davvero belli,
secondo me, con la loro reticenza un po' brusca, il loro tenero
brontolìo - con cui, nella canzone, l'autore o il suo personaggio
giustifica il suo atteggiamento: «È tutto un complesso di cose/ che
fa sì che io mi fermi qui...».
Niente bozzetto, dunque;
al contrario, una situazione narrativa scarnificata, ridotta a
situazione grammaticale, e tuttavia con un suo retroterra, un suo
antefatto molto circostanziato. E niente ironia, assolutamente: la
voce, il timbro di Conte esprimono una complicità totale: sono
«struggenti» nel senso, anche letterale, che si riferiscono a un
tempo che si strugge, a un'età che si consuma...
Vorrei fare qualche altro
esempio di racconto dato per accenni, risolto in poche frasi
apparentemente sconnesse. In Onda su onda, altra canzone fra
le più note del nostro, la situazione presenta, a prima vista,
qualche elemento comico-surreale. Il personaggio, parlando come
sempre in prima persona, allude al fatto di essere «caduto dalla
nave mentre a bordo c'era il ballo». L'incidente, dal seguito della
canzone, sembra essersi risolto nel migliore dei modi: «Onda su onda
mi sono ambientato ormai/ il naufragio mi ha dato la felicità...».
Potrebbe anche darsi; non sarebbe il primo caso di un involontario,
ma fortunato ritorno alla natura. Senonché, a tendere bene
l'orecchio, dal parlato un po' troppo euforico del naufrago saltano
fuori dettagli alquanto sospetti: la donna amata era, durante il
ballo, e probabilmente è tuttora, fra le braccia di uno sconosciuto,
e la cosa sembra tutt'altro che indifferente all'uomo in mare.
Insomma, nell'ascoltatore non distratto si fa strada un dubbio
inquietante: da dove sta parlando veramente il personaggio scivolato
in mare? Da un paradiso terrestre o da un aldilà vagamente
purgatoriale? E siamo proprio sicuri che ci sia scivolato, in mare, o
che invece non ci si sia buttato per smarrimento, per disperazione,
per gelosia?
Ma i miei pezzi preferiti
- più ancora di Genova per noi o del trascinante, convulso
Via con me (del quale vorrei almeno citare tre versi che a me,
lo confesso, sembrano proprio belli, belli in assoluto: «Non
perderti per niente al mondo / lo spettacolo d'arte varia / di uno
innamorato di te...») - i miei pezzi preferiti, dicevo, sono La
topolino amaranto e il dittico costituito da Sono qui con te
sempre più solo e La ricostruzione del Mocambo.
Quanto alla prima, è
presto detto: si tratta, sotto apparenze giocose, nientemeno che di
una piccola fine del mondo. Passeggiando con la ragazza sulla
vecchia, incantevole utilitaria, dopo aver esclamato, in puro stile
anni Trenta, «Ah l'auto che comodità!», e aver osservato (in rima
con «amaranto») che «si va che è un incanto», il parlante (mi si
consenta, considerato anche il particolare modo di cantare del
nostro, di dire «parlante» anziché «cantante»), il parlante,
dunque, butta lì con negligenza qualche particolare agghiacciante
come «c'è un paesaggio che non va» e addirittura «sei case su
dieci sono andate giù». Mi sembra un po' difficile, francamente,
credere ciò che il parlante vuoi far credere alla sua ragazza, e
cioè che c'è stato, semplicemente, un forte temporale...
Nel dittico, che chiamerò
«dittico del Mocambo» (e di cui, francamente non so quale sia il
testo che precede e quale quello che segue), la situazione è invece
realistica. A parlare, stavolta non è un alter ego
dell'autore, ma un personaggio vero e proprio, e fortemente
caratterizzato: il proprietario gestore di un bar (il bar Mocambo
appunto) coinvolto in un fallimento Ma la sua angoscia non è
soltanto eco nomica: a un certo punto, anzi, sembra che il bar sia
stato riaperto, e i rapporti col curatore del fallimemto sono
comunque improntati a una certa umanità («Oggi il curatore mi ha
offerto il caffè»). Più sottilmente de vastanti sono i rapporti
con la partner, identificata, in una delle canzoni, con una ragazza
di maggior levatura sociale e intellettuale che «disprezza il suo
mondo e anche lui» nell'altra con un'austriaca con la quale esistono
insormontabili problemi d comprensione, anzi di comunicazione «tout
court», dal momento, per dirle col personaggio, che «io non parlo
il tedesco... scusa... pardon...».
Non è molto certo, ma è
proprio lì il bello, nella scarsità, nella pochezza delle tracce. E
poi c'è quel «brutto tinello marrone» di cui - con un bell'effetto
di sdoppiamento - il personaggio parla con ribrezzo e l'autore,
invece con affettuosa gozzaniana nostalgia. La cosa che salta
all'occhio comunque, e che più conta, è che nel sue oscillare fra
umiltà e megalomania fra attacchi di depressione e soprassalti di
fierezza («sono sempre elegante, so anche trattare...»), il
protagonista della doppia storia è una sorta d Grande Gatsby
suburbano.
Verrebbe voglia di
continuare, di raccontarle un po' tutte queste microstorie così
delicatamente, pudicamente nascoste nel loro bozzolo di rauchi
bisbigli, di immagini volutamente mutilate o sfuocate. Mi limiterò,
invece, a citare una canzone che mi piace molto meno e che
costituisce tuttavia una chiave in negativo, una controprova della
verità, dell'originalità e del fascino del mondo (non sto a dire,
per non suscitare equivoci, se poetico o musicale o più
genericamente fantastico) di Paolo Conte: Hemingway. Una
canzone nella quale, dopo un accenno all'Harry's Bar e a qualche
località esotica, non si dice praticamente più nulla ed è la
musica - la musica degli strumenti - a prendere la parola e il
sopravvento.
Ma certo, era inevitabile: che cosa poteva dire, che cosa può avere da dire sul conto di Ernest Hemingway il nostro Paolo Conte, lui che assomiglia tanto all'altro, al rivale, a Francis Scott Fitzgerald, lui che è, come Fitzgerald, un dilettante più bravo di quasi tutti i professionisti, un piccolo involontario classico, nel suo genere, non di questo o quel decennio ma, forse, di tutto il Novecento?
Ma certo, era inevitabile: che cosa poteva dire, che cosa può avere da dire sul conto di Ernest Hemingway il nostro Paolo Conte, lui che assomiglia tanto all'altro, al rivale, a Francis Scott Fitzgerald, lui che è, come Fitzgerald, un dilettante più bravo di quasi tutti i professionisti, un piccolo involontario classico, nel suo genere, non di questo o quel decennio ma, forse, di tutto il Novecento?
"L'Europeo", 15 febbraio 1986
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