È finito ieri notte il
braccio di ferro di Franco Fortini con la morte. Essa non lo ha
ghermito con misericordia; gli aveva messo le mani addosso due anni
fa e lo ha scrollato e costretto a dibattersi fra ospedali e dolori e
miserie sempre più intollerabili e remissioni sempre più brevi —
unaa sola vera, quasi una speranza, lo scorso autunno. Non essendo
uomo da accettarla in pace, la sua ultima guerra è stata con la
fine.
Una fine che è
cominciata al culmine della sua controversia con il mondo. Non aveva
avuto mai ragione di conciliarsi con il presente, ma la guerra del
golfo gli era apparsa l'abominio d'un occidente ilare e bestiale.
Nulla di suo è così aspro come le poesie, quasi filastrocche
scritte durante quei mesi e raccolte nell'ultimo volume di versi,
dato alle stampe l'anno scorso, già malato, col titolo Composita
Solvantur, le parole viste come un presagio sulla lapide di
Francesco Bacone al Trinity College. Quella razzìa dei ricchi con
buona coscienza era stata una caduta al di là del prevedibile, che
egli furiosamente aveva irriso. Non sarebbe più tornato nella
polemica politica diretta; da allora che io sappia ha lasciato
soltanto un'intervista a l'Unità, alcuni mesi fa, impenitente e al
limite del sarcasmo.
Compagni di strada
Non che gli riuscisse
inabituale essere solo, ma non aveva la vocazione del poeta che
scrive per se stesso e sufficiente a se stesso. Non so se la ricerca
della forma, che non lo lasciava mai - aveva con sé un quaderno dove
annotava versi e epigrammi e osservazioni, con l'irta bellissima
scrittura che gli amici riconoscevano sulle buste tempestosamente in
arrivo per stigmatizzare questo o quello - lo acquietasse; so che la
voglia di trovare compagni, gente con cui andare insieme nelle strade
del mondo, ora implacabile. A torto un ex giovane dei Quaderni
Piacentini, che egli aveva molto amato, lo ha cipigliosamente deriso
come apocalittico, quasi che si dilettasse nella parte del solitario
ululante nel deserto. Fortini parlava ma avrebbe voluto che gli si
rispondesse: «Batti ma ascolta» aveva scelto in Exergue di
Argomenti, e più mansuetamente del silenzio accettava i colpi
di ritorno.
Presto nel dopoguerra lui
antifascista, comunista, d'una radicalità anche talvolta
toscanamente anticlericale e antiborghese, aveva diffidato del Pci,
suo eterno interlocutore che di quel che egli andava dicendo non
voleva sapere; e l'essersi per un tempo accontentato del Psi era un
meno peggio nel quale non stava bene. Avrebbe voluto forse stare,
anzi essere chiamato a stare con diritto di parola, accanto o dentro
il partito più grande, quello dei proletari; che invece gli
rispondeva aspramente e non senza l'arroganza di chi si sentiva
vulnerato da sinistra e su un punto scoperto, la libertà - e non
quella in genere ma quella dei comunisti. Anticapitalista perché
libertario, libertario perché marxista, tentato dall'operaismo e
respinto da ogni semplificazione pseudo proletaria - la semplicità
gli suonava ipocrita, concessiva a un'idea falsa delle masse, dunque
pronta al compromesso, dunque ab origine borghese - con i
comunisti non poteva stare ma neanche senza di loro. Era tutto un
susseguirsi di lettere, scarsi i reciproci elogi, infinite le
polemiche. Non gli importava colpire, e tantomeno menarne vanto
quando pure ne avrebbe tratto non pochi consensi: degli altri proprio
non gli importava nulla, e nutriva quel tipo di alta considerazione
per se stesso che non indulge alla pubblicità. Era un dialogo aspro
e spesso personale, rimasto nei carteggi privati. E non senza
bizzarrìe: mi accadde, credo nei primissimi anni 60, di ricevere
sullo stesso argomento una lettera scritta su due colonne una per
Alicata e una per me, con due stili e argomentazioni diversi, come
diversi gli pareva che fossimo seppur dello stesso partito,
istituzione enorme e che, a chi ne era fuori, apparve sempre più
possente di quel che era. Deve essersi anche divertito a
quell'esercizio, come doveva divertirsi per i versi, ora di
rassegnato affetto ora di furia, che dedicava a quelli come me.
Le strigliate del
'56
Nel 1956 ci mandò un
telegramma di contumelie: «Spero che gli operai vengano a rompervi
la faccia», lui che, credo, non ha mai fatto un gesto di violenza.
Poche settimane dopo tornava, non dava tregua ai comunisti, erano i
meno peggio, avevano dalla loro, malgrado le insipienze, la ragione
storica e su di essi tempestava - non ebbe mai altra casa, non ebbe
casa, ospite ingrato dovunque. Il 1956 era parso aprire per un
momento una strada simile a quella che avrebbe voluto, fuori dal gelo
dei dieci inverni. Non fu così. Non si stracciò le vesti, non aveva
il temperamento di un pentito. E rifletteva più ancora che non
scrivesse, rissoso ma cauto, badando a non uscire dalla parola
poetica che era la sua, raccolta, elaborata, figlia anche del
silenzio. Per cui il 68 lo trovò assieme caloroso e in guardia: se
ogni sciopero che si concludeva era una resa, come gli avvenne di
scrivere, ogni ribellismo lo lasciava freddo. Tradusse Brecht, la
sola bella traduzione di Brecht che sia in Italia, ma non credette
che «il comunismo fosse la cosa semplice che è difficile da fare».
Ma non lo lasciava dire
agli altri, agli anticomunisti dedicava ancora poco tempo fa qualche
pressoché irripetibile verso di Teofilo Folengo. Così sperò in
alcuni giovani colti e complicati più che essi non siano stati
capaci, non dico di sperare in lui, ma di starlo a sentire. E ai
semplici ammiratori parlava, ma per quanto lusingato non risparmiava
zampate, perturbatore di ogni quiete a cominciare dalla sua.
Comunista e antisovietico, dopo l'89 intollerante con i liquidatori
della problematica del secolo, ebreo e fin provocatoriamente
anti-israeliano, filologicamente imbattibile e contro l'accademia,
controcorrente al pensar bene, anche quello della sinistra, e di
colpo puritano, biblico. Del suo modo di essere il rapporto con
Pasolini è esemplare: un colloquio di tutta la vita, dopo la vita,
con uno da cui era dissimile, col quale non condivideva quasi nulla e
meno di tutto qualche arcaismo, e dal quale non cessò di sentirsi
interpellato. Non ricordo poesia d'amore di Fortini - la sua morte mi
coglie lontana dai miei libri - e nella mente mi torna qualche cenno
dell'ultima raccolta, più gagliardo che dei sentimenti. L'elegia non
è il suo registro. Ma la passione politica ha in lui le stigmate,
gli andamenti, gli arruffamenti, i ritorni, le ferite dell'amore e
soltanto nella parola trova una sua composizione. Non so se dal tempo
conteso alla morte e nel quale si è chiuso in se stesso, per la
prima volta interrompendo il dialogo con gli altri - come forse si
dovrebbe alla sola vita che abbiamo quando volge alla fine - ci abbia
lasciato altre pagine. Quelli che come me lo hanno avuto nel proprio
orizzonte per quasi mezzo secolo, e hanno rispettato il suo ultimo
dolore e silenzio, le aspettano.
“il manifesto”, 29
novembre 1994
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