11.10.14

Comunista con furore. In morte di Franco Fortini (Rossana Rossanda)

È finito ieri notte il braccio di ferro di Franco Fortini con la morte. Essa non lo ha ghermito con misericordia; gli aveva messo le mani addosso due anni fa e lo ha scrollato e costretto a dibattersi fra ospedali e dolori e miserie sempre più intollerabili e remissioni sempre più brevi — unaa sola vera, quasi una speranza, lo scorso autunno. Non essendo uomo da accettarla in pace, la sua ultima guerra è stata con la fine.
Una fine che è cominciata al culmine della sua controversia con il mondo. Non aveva avuto mai ragione di conciliarsi con il presente, ma la guerra del golfo gli era apparsa l'abominio d'un occidente ilare e bestiale. Nulla di suo è così aspro come le poesie, quasi filastrocche scritte durante quei mesi e raccolte nell'ultimo volume di versi, dato alle stampe l'anno scorso, già malato, col titolo Composita Solvantur, le parole viste come un presagio sulla lapide di Francesco Bacone al Trinity College. Quella razzìa dei ricchi con buona coscienza era stata una caduta al di là del prevedibile, che egli furiosamente aveva irriso. Non sarebbe più tornato nella polemica politica diretta; da allora che io sappia ha lasciato soltanto un'intervista a l'Unità, alcuni mesi fa, impenitente e al limite del sarcasmo.

Compagni di strada
Non che gli riuscisse inabituale essere solo, ma non aveva la vocazione del poeta che scrive per se stesso e sufficiente a se stesso. Non so se la ricerca della forma, che non lo lasciava mai - aveva con sé un quaderno dove annotava versi e epigrammi e osservazioni, con l'irta bellissima scrittura che gli amici riconoscevano sulle buste tempestosamente in arrivo per stigmatizzare questo o quello - lo acquietasse; so che la voglia di trovare compagni, gente con cui andare insieme nelle strade del mondo, ora implacabile. A torto un ex giovane dei Quaderni Piacentini, che egli aveva molto amato, lo ha cipigliosamente deriso come apocalittico, quasi che si dilettasse nella parte del solitario ululante nel deserto. Fortini parlava ma avrebbe voluto che gli si rispondesse: «Batti ma ascolta» aveva scelto in Exergue di Argomenti, e più mansuetamente del silenzio accettava i colpi di ritorno.
Presto nel dopoguerra lui antifascista, comunista, d'una radicalità anche talvolta toscanamente anticlericale e antiborghese, aveva diffidato del Pci, suo eterno interlocutore che di quel che egli andava dicendo non voleva sapere; e l'essersi per un tempo accontentato del Psi era un meno peggio nel quale non stava bene. Avrebbe voluto forse stare, anzi essere chiamato a stare con diritto di parola, accanto o dentro il partito più grande, quello dei proletari; che invece gli rispondeva aspramente e non senza l'arroganza di chi si sentiva vulnerato da sinistra e su un punto scoperto, la libertà - e non quella in genere ma quella dei comunisti. Anticapitalista perché libertario, libertario perché marxista, tentato dall'operaismo e respinto da ogni semplificazione pseudo proletaria - la semplicità gli suonava ipocrita, concessiva a un'idea falsa delle masse, dunque pronta al compromesso, dunque ab origine borghese - con i comunisti non poteva stare ma neanche senza di loro. Era tutto un susseguirsi di lettere, scarsi i reciproci elogi, infinite le polemiche. Non gli importava colpire, e tantomeno menarne vanto quando pure ne avrebbe tratto non pochi consensi: degli altri proprio non gli importava nulla, e nutriva quel tipo di alta considerazione per se stesso che non indulge alla pubblicità. Era un dialogo aspro e spesso personale, rimasto nei carteggi privati. E non senza bizzarrìe: mi accadde, credo nei primissimi anni 60, di ricevere sullo stesso argomento una lettera scritta su due colonne una per Alicata e una per me, con due stili e argomentazioni diversi, come diversi gli pareva che fossimo seppur dello stesso partito, istituzione enorme e che, a chi ne era fuori, apparve sempre più possente di quel che era. Deve essersi anche divertito a quell'esercizio, come doveva divertirsi per i versi, ora di rassegnato affetto ora di furia, che dedicava a quelli come me.

Le strigliate del '56
Nel 1956 ci mandò un telegramma di contumelie: «Spero che gli operai vengano a rompervi la faccia», lui che, credo, non ha mai fatto un gesto di violenza. Poche settimane dopo tornava, non dava tregua ai comunisti, erano i meno peggio, avevano dalla loro, malgrado le insipienze, la ragione storica e su di essi tempestava - non ebbe mai altra casa, non ebbe casa, ospite ingrato dovunque. Il 1956 era parso aprire per un momento una strada simile a quella che avrebbe voluto, fuori dal gelo dei dieci inverni. Non fu così. Non si stracciò le vesti, non aveva il temperamento di un pentito. E rifletteva più ancora che non scrivesse, rissoso ma cauto, badando a non uscire dalla parola poetica che era la sua, raccolta, elaborata, figlia anche del silenzio. Per cui il 68 lo trovò assieme caloroso e in guardia: se ogni sciopero che si concludeva era una resa, come gli avvenne di scrivere, ogni ribellismo lo lasciava freddo. Tradusse Brecht, la sola bella traduzione di Brecht che sia in Italia, ma non credette che «il comunismo fosse la cosa semplice che è difficile da fare».
Ma non lo lasciava dire agli altri, agli anticomunisti dedicava ancora poco tempo fa qualche pressoché irripetibile verso di Teofilo Folengo. Così sperò in alcuni giovani colti e complicati più che essi non siano stati capaci, non dico di sperare in lui, ma di starlo a sentire. E ai semplici ammiratori parlava, ma per quanto lusingato non risparmiava zampate, perturbatore di ogni quiete a cominciare dalla sua. Comunista e antisovietico, dopo l'89 intollerante con i liquidatori della problematica del secolo, ebreo e fin provocatoriamente anti-israeliano, filologicamente imbattibile e contro l'accademia, controcorrente al pensar bene, anche quello della sinistra, e di colpo puritano, biblico. Del suo modo di essere il rapporto con Pasolini è esemplare: un colloquio di tutta la vita, dopo la vita, con uno da cui era dissimile, col quale non condivideva quasi nulla e meno di tutto qualche arcaismo, e dal quale non cessò di sentirsi interpellato. Non ricordo poesia d'amore di Fortini - la sua morte mi coglie lontana dai miei libri - e nella mente mi torna qualche cenno dell'ultima raccolta, più gagliardo che dei sentimenti. L'elegia non è il suo registro. Ma la passione politica ha in lui le stigmate, gli andamenti, gli arruffamenti, i ritorni, le ferite dell'amore e soltanto nella parola trova una sua composizione. Non so se dal tempo conteso alla morte e nel quale si è chiuso in se stesso, per la prima volta interrompendo il dialogo con gli altri - come forse si dovrebbe alla sola vita che abbiamo quando volge alla fine - ci abbia lasciato altre pagine. Quelli che come me lo hanno avuto nel proprio orizzonte per quasi mezzo secolo, e hanno rispettato il suo ultimo dolore e silenzio, le aspettano.


“il manifesto”, 29 novembre 1994

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