2.10.14

Giordano Bruno. Con Shakespeare, compagni di scena (Fabio Troncarelli)

Nel quinto anniversario della morte una lettura più storico-letteraria che filosofica, che mi pare bella e convincente (S.L.L.)
Giordano Bruno
La bella biografia del filosofo nolano scritta da Saverio Ricci (Giordano Bruno nell'Europa del Cinquecento, Salerno editrice, pp. 652, £. 58.000) invita implicitamente a riflettere sul destino singolare di un uomo vissuto in un'età singolare. Il volume di Ricci si chiude infatti in un modo problematico: dopo aver evocato in centinaia di pagine equilibrate e autorevoli la complessa avventura di un uomo così fuori dal comune e dopo aver narrato la sua fine drammatica, Ricci lascia affiorare il sentimento di rimpianto nei confronti della perdita rappresentata dalla morte di Bruno, attraverso la pura e semplice rievocazione della simpatia umana di alcuni amici e ammiratori del nolano, a cominciare da William Shakespeare che in Pene d'amor perdute aveva rievocato Bruno, mettendo in scena l'estroso Berowne.
Il rimpianto per la perdita di un personaggio come Bruno ci fa capire quanto sia mistificante, miope e sciocca l'immagine che tanti storici, anche autorevolissimi, ci hanno tramandato del nolano, riemersa con livore anche nelle recentissimo polemiche sui quotidiani in occasione dell'anniversario del rogo del filosofo. Bruno non era affatto l'uomo insopportabile che tanti storici hanno descritto: presuntuoso, ribelle, ostinato, perfino «squilibrato». A giudicare da contemporanei come Shakespeare, che sapeva giudicare gli uomini più degli storici accademici, Bruno era simpatico. Sì, proprio così: Rnmo era un uomo spiritoso, allegro, anticonformista, che si poteva permettere di sfottere gli asini che lo circondavano perché non era asino come loro.
Il fatto è che Bruno era uno spirito folletto, fantasioso e originale: un grande creatore di linguaggio, di motti di spirito, di caricature. In una parola un grande scrittore. Questa sua qualità viene spesso sacrificata rispetto alle sue doti di filosofo: ma si dimentica così che il nolano non era un pensatore sistematico, ma piuttosto un intuitivo, che rivestiva volentieri i ragionamenti di immagini esuberanti e allegorie rutilanti e che si esprimeva spontaneamente attraverso il teatro o in forma di dialogo e non in forma di monologo a base di sillogismi. Egli era un grande prosatore «manierista» che ha rotto con la forma chiusa del trattato del Cinquecento così come Michelangelo ha rotto con il classicismo del mondo di Raffaello. L'intuizione dell'infinità dei mondi e il riconoscimento dell'infinità di Dio, causa infinita di un universo infinito nasce, prima che sul terreno metafisico, su quello esistenziale, a partire da quella vertigine protobarocca che percorre tutta l'Italia dell'ultimo Cinquecento e in particolare la Napoli di Della Porta. «Il Nolano... ha disciolto l'animo umano e la cognizione ch'era rinchiusa nell'artissimo carcere de l'aria turbolento... ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle trapassati i margini del mondo... ha illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi e mirar l'imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s'opponeno». Questa autocelebrazione nella Cena delle Ceneri è significativa: come nelle Meninas di Velàzquez la Commedia Umana si riflette in specchi in cui a malapena distinguiamo la nostra immagine; e come il San Paolo del Caravaggio, l'uomo è accecato da una luce violenta che squarcia le tenebre di un carcere d'aria oscura che ci circonda.
Bruno era in segreta sintonia coi tempi prima che sul piano filosofico sul piano antropologico. Da vero artista captava e anticipava umori e tendenze che di lì a poco si sarebbero manifestate con una profonda carica dirompente. E scriveva con uno stile inconsueto e provocatorio, che rifletteva una personalità troppo ricca per restare nel solco della tradizione. Per questo era affascinante e per questo era odiato: perché non si limitava a trasmettere una visione del mondo, ma anche una emozione del mondo. E questo mondo, pieno di bagliori e di tenebre, questo mondo insanguinato dalle guerre per la supremazia politica e religiosa d'Europa, non era il mondo adatto ad un figlio del Rinascimento. Non c'era più posto in Italia per chi possedeva un libro con annotazioni di Erasmo. Fu questa, non dimentichiamolo, l'accusa che lo trascinò sulla via dell'esilio. La condanna di Erasmo e degli erasmiani, è alla base di tutta la tragedia dell'età della Controriforma e significa il rifiuto dell'umanesimo, il rifiuto delle critiche di Valla al potere temporale dei papi, il rifiuto della critica filologica alle assurdità dell'agiografia medievale, il rifiuto del dibattito teologico aperto e delle disputationes pubbliche che erano state il nerbo delle università medievali.
Prima di essere condannato dal tribunale dell'Inquisizione Giordano Bruno era condannato in partenza dal trionfalismo di una Chiesa intransigente che rifiutava di fare i conti con se stessa e non accettava aprioristicamente il confronto. Il nolano non divenne un fuoriuscito perché era un ribelle e un ostinato, ma fu costretto ad essere un ribelle e un ostinato perché era un fuoriuscito in patria negli anni stessi della sua formazione, visto che la sola lettura della Scrittura con l'aiuto delle note di Erasmo era reato e indizio di eresia.
Davanti al rifiuto radicale della sua identità di scrittore e di pensatore, colui che deve pronunciare parole nuove per farci comprendere nuovi aspetti dell'esistenza, Bruno fu obbligato, evangelicamente, a scegliere la porta stretta della fuga, della polemica, dell'esilio. Divenne un maledetto del pensiero, a suo agio solo con esseri sbandati come lui o con qualche compagno di strada che apparteneva a minoranze colte, protetto per il suo alto lignaggio dalla violenza del potere.
Siamo ricondotti così al punto di partenza: il rimpianto per la perdita di un uomo che avrebbe potuto avere il destino di Shakespeare o almeno il destino che Shakespeare gli assegna nella commedia Pene d'amor perdute. L'Italia della Controriforma ha perduto l'occasione storica di lasciare esprimere liberamente i geni nati, come direbbe Bruno, «sotto un cielo più benigno» delle cupe nebbie di Macbeth. La domanda che ci si pone, come storici e non come moralisti, è se abbia ancora senso credere a miti storiografici come quello della modernità e «razionalità» della Chiesa postri-dentina o quello della «mitezza» dell'Inquisizione italiana.
C'è un vecchio film di Ronald Neame, Whisky e gloria, in cui uno straordiario Alec Guiness si mette alla testa di un reparto di ufficiali scozzesi per distruggere moralmente il comandante, un uomo aperto e intelligente, ma fragile, troppo fragile. Alla fine l'uomo si suicida e solo allora Guinness scopre l'orrore: lo scherno sistematico, il disprezzo, il rifiuto, l'ostilità hanno ucciso non solo un uomo buono, ma la speranza stessa di una vita migliore. E Guinness, in preda al delirio, chiede per il suo comandante un funerale solenne, l'onore pubblico, l'apoteosi impossibile, ma poi si accascia in preda ai singhiozzi e dice: «Io sono distrutto». Quante volte ho sognato che i miei contemporanei, siano essi i professionisti del perdono o gli uomini di mondo che dicono che non c'è niente da perdonare, avessero il coraggio di mettersi a piangere e confessare al mondo o forse solo a se stessi che la morte di un uomo che regalava allegria li fa sentire distrutti.


“il manifesto”, 17 febbraio 2000

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