Nel quinto anniversario
della morte una lettura più storico-letteraria che filosofica, che
mi pare bella e convincente (S.L.L.)
Giordano Bruno |
La bella biografia del
filosofo nolano scritta da Saverio Ricci (Giordano Bruno
nell'Europa del Cinquecento, Salerno editrice, pp. 652, £.
58.000) invita implicitamente a riflettere sul destino singolare di
un uomo vissuto in un'età singolare. Il volume di Ricci si chiude
infatti in un modo problematico: dopo aver evocato in centinaia di
pagine equilibrate e autorevoli la complessa avventura di un uomo
così fuori dal comune e dopo aver narrato la sua fine drammatica,
Ricci lascia affiorare il sentimento di rimpianto nei confronti della
perdita rappresentata dalla morte di Bruno, attraverso la pura e
semplice rievocazione della simpatia umana di alcuni amici e
ammiratori del nolano, a cominciare da William Shakespeare che in
Pene d'amor perdute aveva rievocato Bruno, mettendo in scena
l'estroso Berowne.
Il rimpianto per la
perdita di un personaggio come Bruno ci fa capire quanto sia
mistificante, miope e sciocca l'immagine che tanti storici, anche
autorevolissimi, ci hanno tramandato del nolano, riemersa con livore
anche nelle recentissimo polemiche sui quotidiani in occasione
dell'anniversario del rogo del filosofo. Bruno non era affatto l'uomo
insopportabile che tanti storici hanno descritto: presuntuoso,
ribelle, ostinato, perfino «squilibrato». A giudicare da
contemporanei come Shakespeare, che sapeva giudicare gli uomini più
degli storici accademici, Bruno era simpatico. Sì, proprio così:
Rnmo era un uomo spiritoso, allegro, anticonformista, che si poteva
permettere di sfottere gli asini che lo circondavano perché non era
asino come loro.
Il fatto è che Bruno era
uno spirito folletto, fantasioso e originale: un grande creatore di
linguaggio, di motti di spirito, di caricature. In una parola un
grande scrittore. Questa sua qualità viene spesso sacrificata
rispetto alle sue doti di filosofo: ma si dimentica così che il
nolano non era un pensatore sistematico, ma piuttosto un intuitivo,
che rivestiva volentieri i ragionamenti di immagini esuberanti e
allegorie rutilanti e che si esprimeva spontaneamente attraverso il
teatro o in forma di dialogo e non in forma di monologo a base di
sillogismi. Egli era un grande prosatore «manierista» che ha rotto
con la forma chiusa del trattato del Cinquecento così come
Michelangelo ha rotto con il classicismo del mondo di Raffaello.
L'intuizione dell'infinità dei mondi e il riconoscimento
dell'infinità di Dio, causa infinita di un universo infinito nasce,
prima che sul terreno metafisico, su quello esistenziale, a partire
da quella vertigine protobarocca che percorre tutta l'Italia
dell'ultimo Cinquecento e in particolare la Napoli di Della Porta.
«Il Nolano... ha disciolto l'animo umano e la cognizione ch'era
rinchiusa nell'artissimo carcere de l'aria turbolento... ha varcato
l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle trapassati i margini
del mondo... ha illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi
e mirar l'imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli
s'opponeno». Questa autocelebrazione nella Cena delle Ceneri è
significativa: come nelle Meninas di Velàzquez la Commedia
Umana si riflette in specchi in cui a malapena distinguiamo la nostra
immagine; e come il San Paolo del Caravaggio, l'uomo è accecato da
una luce violenta che squarcia le tenebre di un carcere d'aria oscura
che ci circonda.
Bruno era in segreta
sintonia coi tempi prima che sul piano filosofico sul piano
antropologico. Da vero artista captava e anticipava umori e tendenze
che di lì a poco si sarebbero manifestate con una profonda carica
dirompente. E scriveva con uno stile inconsueto e provocatorio, che
rifletteva una personalità troppo ricca per restare nel solco della
tradizione. Per questo era affascinante e per questo era odiato: perché
non si limitava a trasmettere una visione del mondo, ma anche una
emozione del mondo. E questo mondo, pieno di bagliori e di tenebre,
questo mondo insanguinato dalle guerre per la supremazia politica e
religiosa d'Europa, non era il mondo adatto ad un figlio del
Rinascimento. Non c'era più posto in Italia per chi possedeva un
libro con annotazioni di Erasmo. Fu questa, non dimentichiamolo,
l'accusa che lo trascinò sulla via dell'esilio. La condanna di
Erasmo e degli erasmiani, è alla base di tutta la tragedia dell'età
della Controriforma e significa il rifiuto dell'umanesimo, il rifiuto
delle critiche di Valla al potere temporale dei papi, il rifiuto
della critica filologica alle assurdità dell'agiografia medievale,
il rifiuto del dibattito teologico aperto e delle disputationes
pubbliche che erano state il nerbo delle università medievali.
Prima di essere
condannato dal tribunale dell'Inquisizione Giordano Bruno era
condannato in partenza dal trionfalismo di una Chiesa intransigente
che rifiutava di fare i conti con se stessa e non accettava
aprioristicamente il confronto. Il nolano non divenne un fuoriuscito
perché era un ribelle e un ostinato, ma fu costretto ad essere un
ribelle e un ostinato perché era un fuoriuscito in patria negli anni
stessi della sua formazione, visto che la sola lettura della
Scrittura con l'aiuto delle note di Erasmo era reato e indizio di
eresia.
Davanti al rifiuto
radicale della sua identità di scrittore e di pensatore, colui che
deve pronunciare parole nuove per farci comprendere nuovi aspetti
dell'esistenza, Bruno fu obbligato, evangelicamente, a scegliere la
porta stretta della fuga, della polemica, dell'esilio. Divenne un
maledetto del pensiero, a suo agio solo con esseri sbandati come lui
o con qualche compagno di strada che apparteneva a minoranze colte,
protetto per il suo alto lignaggio dalla violenza del potere.
Siamo ricondotti così al
punto di partenza: il rimpianto per la perdita di un uomo che avrebbe
potuto avere il destino di Shakespeare o almeno il destino che
Shakespeare gli assegna nella commedia Pene d'amor perdute.
L'Italia della Controriforma ha perduto l'occasione storica di
lasciare esprimere liberamente i geni nati, come direbbe Bruno,
«sotto un cielo più benigno» delle cupe nebbie di Macbeth. La
domanda che ci si pone, come storici e non come moralisti, è se
abbia ancora senso credere a miti storiografici come quello della
modernità e «razionalità» della Chiesa postri-dentina o quello
della «mitezza» dell'Inquisizione italiana.
C'è un vecchio film di
Ronald Neame, Whisky e gloria, in cui uno straordiario Alec
Guiness si mette alla testa di un reparto di ufficiali scozzesi per
distruggere moralmente il comandante, un uomo aperto e intelligente,
ma fragile, troppo fragile. Alla fine l'uomo si suicida e solo allora
Guinness scopre l'orrore: lo scherno sistematico, il disprezzo, il
rifiuto, l'ostilità hanno ucciso non solo un uomo buono, ma la
speranza stessa di una vita migliore. E Guinness, in preda al
delirio, chiede per il suo comandante un funerale solenne, l'onore
pubblico, l'apoteosi impossibile, ma poi si accascia in preda ai
singhiozzi e dice: «Io sono distrutto». Quante volte ho sognato che
i miei contemporanei, siano essi i professionisti del perdono o gli
uomini di mondo che dicono che non c'è niente da perdonare, avessero
il coraggio di mettersi a piangere e confessare al mondo o forse solo
a se stessi che la morte di un uomo che regalava allegria li fa
sentire distrutti.
“il manifesto”, 17
febbraio 2000
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