Come “western
all'italiana” o “spaghetti western” si designa la produzione
cinematografica italiana degli anni Sessanta e Settanta del 900, il
cui inizio è fatto risalire a Per un pugno di dollari di
Sergio Leone e che ebbe come registi-autori, oltre allo stesso Leone,
Massari, Corbucci e molti altri, dato il successo del genere. Si
trattava di film ambientati nel West, ma con una particolare aura
“italiana”, che è stata oggetto di molti studi. La mia
impressione è che si trratti di una produzione tutt'altro che omogenea, non solo per
qualità (ci sono pochi ottimi film, diversi buoni film e tanta
robaccia), ma anche per le scelte tematiche e stilistiche; forse non
sbagliano quanti vi hanno visto riflessi alcuni aspetti
dell'ideologia e dell'immaginazione italiana.
L'operazione
che Pietro Germi osò molti anni prima, nel 1949 con In nome della legge, era in qualche
modo inversa: consisteva nell'utilizzazione sistematica dei moduli
espressivi tipici del western Usa per il racconto di una storia
italiana (o, più precisamente, siciliana). Il risultato è
apprezzabile: un film di buona qualità, che però non ebbe successo
e seguaci, anche se citazioni dal western non
mancarono qua e là nel cinema italiano degli anni Cinquanta, perfino
nei polpettoni sentimentali di Matarazzo. L'articolo qui “postato”
mi pare, in ogni caso, esprimere un giudizio fondato e condivisibile
anche a distanza di diversi decenni.
La
fonte del testo è “Il Cittadino”, un foglio che si definiva
“Settimanale dell'Italia Socialista”, diretto da Aldo Garosci e
condiretto da Paolo Vittorelli, di cui uscirono pochissimi numeri
nella primavera del 1949. Esso esprimeva la posizione di quei
socialisti, spesso di provenienza “azionista”, che rifiutavano
sia il governativismo di Saragat e, successivamente, di Romita, sia
il frontismo di Nenni e Morandi. Tra le firme, oltre a quelle di
Garosci e Vittorelli, si trovano quelle di Ignazio Silone, Ernesto
Rossi, Carlo Levi, Enzo Forcella, Bruno Zevi, Ludovico Quaroni. Se ne
può desumere che la qualità media degli articoli sia alta.
Dell'autore
dell'articolo qui postato, Lauro Venturi, non ho trovato notizie in
rete (c'è un omonimo - chissà, un nipote- nato nel 1956, autore di
un romanzo sulla “crisi” e di saggi di sociologia economica, in
particolare sui manager);
io lo immagino strettamente imparentato con lo storico Franco
Venturi, che era dello stesso milieu politico-culturale.
Non so quale mestiere Lauro Venturi senior facesse nella vita, ma da
questo articolo su Germi, acuto e profondo, mi pare che avesse i
numeri per riuscire un eccellente critico cinematografico. (S.L.L.)
Alcuni mesi prima di
iniziare la lavorazione del suo film In nome della Legge
Pietro Germi ci diceva della sua intenzione di fare con questo film
un western italiano, un film d'avventura che avrebbe seguito, per
quanto riguarda l'impostazione e la narrazione della trama, le norme
del film western americano. Germi è del parere che ci vuole molta
storia per fare un film, e che la storia ne è forse il fattore
principale. Ciò che attraeva particolarmente Germi verso
l'impostazione western era la possibilità di creare una narrazione
rapida, drammatica, che trovasse la sua ragione d'essere in sé
stessa.
A tutto ciò Germi è
riuscito, e ha persino sorpassato il proprio scopo. In nome della
legge è un eccellente film d'avventura ma è sopratutto un
eccellente film. Dello stampo americano rimangono varie tracce, quasi
tutte rinnovate dalla visione e dalla sensibilità di Germi. L'arrivo
del pretore al villaggio è degno di qualsiasi tradizionale arrivo
del stagecoach; il barroom del West lo ritroviamo sotto
forma di “Caffè e Tabacchi”; i cavalieri della mafia si
profilano all'orizzonte di una collina come i loro prototipi
pellirossa, e certi tipi siciliani sono stati scelti senza dubbio per
la loro somiglianza con gli indiani d'America. La musica stessa del
film, scritta da Carlo Rustichelli, ricorda le sue origini western,
calcando l'azione con dei temi larghi come le praterie e persino un
accenno alla chitarra, tradizionale in Sicilia come nel West.
Più profondamente
western è il personaggio stesso del pretore, il quale deve essere
coraggioso, nobile, puro in anima e in corpo come un boy-scout
per aderire alle regole del gioco: come Wyatt Earp, eroe di Sfida
infernale, questo pretore si dèdica alla missione pericolosa di
fare rispettare la legge. Americano anche il maresciallo della
polizia, aiuto e amico dello scheriff-pretore, personaggio al quale
viene di solito affidato in America il comic-rrelief, le
battute comiche. Ma anche questo è stato rinnovato da Germi, e
diviene un personaggio umano, forse il più riuscito psicologicamente
di tutto il film.
Deviazione importante dal
concetto americano è il personaggio femminile, introdotto per
dimostrare che il dovere è più importante dell'amore, rappresentato
qui dalla moglie del barone. Maltrattata dal marito, si innamora del
pretore ma viene poi abbandonata quando quest'ultimo si decide per il
dovere. La moglie del barone prende il posto della maestrina o della
cantante del western. Ha dovuto dispiacere a Germi non poter, per
restare fedele alla materia, mettere nel suo film una qualche
cantante, magari un can-can. E infatti la parte femminile ne risente.
Le due scene d'amore (amore puro, ideale, come conviene ad un
scheriff-cowboy) rallentano l'azione, la scoloriscono. Il tema non è
stato interpretato qui con altrettanta schiettezza degli altri
elementi del western che, come abbiamo detto, sono stati trasformati
astutamente in elementi umani e validi da Germi.
In certe attitudini di
fedeltà per il western, Germi è stato « plus royaliste que le roi
». Di recente, con Ford e Vidor come registi, il film western si era
permesso delle innovazioni, ad esempio la creazione dell'atmosfera e
dell'ambiente con elementi visivi estranei alla storia: basta
ricordare i mille giochi di luce di Sfida Infernale, nel quale
l'operatore Toland non si lasciava mai sfuggire l'occasione di
compiacersi sulle superfici, sia del deserto che della pelle degli
attori (ad esempio Linda Darnell ferita). Ed era diventato
tradizionale il cantante seduto sugli scalini di legno del postoffice
che ci dava un trenta secondi melodici prima che l'azione
riprendesse. Tutto ciò Germi non si permette, per non fare deviare
la narrazione, e questa sarebbe l'unica vera critica che gli si
potrebbe fare. Eppure, se egli non ha trovato una poesia, l'atmosfera
penetra nel film lo stesso e ne allarga lo scopo. I paesaggi
bianchissimi che si direbbero ricoperti di neve (opera esperta
dell'operatore Leonida Barboni), il villaggio denudato che appare
pesantemente ostile al pretore, come i suoi abitanti seduti immobili
su scalini di pietra, e sopratutto quelle straordinarie facce della
popolazione locale, danno a tutto il film quel suo carattere di
verità e di vita intensa.
Malgrado la sua intima
parentela col western, In nome della legge riesce italiano.
Italiana sopratutto è la soluzione finale del film: invece del
duello all'alba, la sparatoria che fa tremare la ragazza e elimina il
nemico, In nome della legge risolve l'azione con un discorso,
drammatico quanto si vuole, ma un discorso, una lettera aperta ai
banditi, alla quale i banditi rispondono con un gesto nobile che li
salva agli occhi della legge. Italiano anche tutto l'elemento della
gelosia di una donna per uno dei banditi, e l'amore dei due bambini
nella cascina, il tutto risolto con delicatezza e senza l'esuberanza
siciliana. Basta confrontare una battuta come «bacio le mani», in
Anni Difficili di Zampa con un «bacio le mani», di Germi per
rendersi conto della superficialità di Anni Difficili e
dell'energia veristica e umana di In nome della legge.
*
Tutto ciò mostra che
Germi ha una visione immediata e schietta e cinematografica, che sa
risolvere i problemi di messa in scena e di inquadratura non soltanto
dal punto di vista della narrazione dei fatti, ciò che lui considera
cosi importante, ma bensì di una personale maniera di narrare questi
fatti, non in sottomissione alla trama, ma piegando la storia
all'arte cinematografica.
*
Contemporaneamente è
uscito un libro appunto sul film western (Antonio
Chiattone, Il film western,
Poligono Editore,1949) nel quale l'autore tenta di tracciare
una storia del « genere ». Questo libro non è un'analisi della
formula ormai stereotipata del tipo western, è una storia vera e
propria del genere (arbitraria la scelta dei film menzionati, e
grosse le omissioni, ad esempio Texas Rangers e Dastry
Rides Again). E' un saggio sulle trasformazioni avvenute al
personaggio tipico del cowboy attraverso le sue varie
interpretazioni, da quella «originale» di Broncho Billy nel Great
Train Robbery del 1908 a quella del cantante Roy Rogers nel tipo
western musicale di oggi.
Risultato concreto di
lunghe ricerche di materiale fotografico e storico, e di una vera
passione del Chiattone per il genere western, il libro non ci
risparmia certe confusioni (come a pagina 113: Make-up non ha
mai significato costume o decorazione ma soltanto trucco), e non ci
da veramente mai la sensazione che, come lo mantiene l'autore, il
film western sia una forma spontanea di divertimento popolare
comparabile alla Commedia dell'Arte. Migliore degli altri capitoli è
quello sul cavallo, accenno quasi poetico sull'importanza
rappresentativa del cavallo come compagno fedele dell'eroe.
Impuntatosi nell'essere il più completo possibile storicamente, il
Chiattone non accenna neppure a quelle leggi di pubblico che
governano il film western, seguendo le quali un mezzo scandalo fu
causato di recente in America. Un cowboy (Rogers o Autry) osò alla
fine di un film baciare la protagonista. Le masse di giovani
spettatori protestarono, e il finale fu cambiato: ora il cowboy alla
fine del film bacia il suo cavallo.
“Il Cittadino.
Settimanale dell'Italia Socialista”, Anno I n.1 20 aprile 1949
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