Un amico mi ha recapitato
fotocopia di un documento della polizia fascista, datato 1939. E' la
lettera con la quale M.M., un coetaneo della mia città, iniziava la
sua collaborazione, credo retribuita, con la polizia locale, prima di
passare alle dirette dipendenze dei servizi di Bocchini. La lettera
denuncia in termini verbosi, volgari e violenti le mene antifasciste
di Giacomo Ca' Zorzi, ossia Giacomo Noventa, il poeta e scrittore
veneziano, che allora viveva a Firenze e vi pubblicava una rivista
dal titolo "La Riforma Letteraria". Descrive alcune delle
vittime della sua personalità e della sua insinuante propaganda (io
fra queste) tuttavia distribuendo ingiurie e commiserazione; o elogi
che dovrebbero far arrossire i destinatari.
Il documento di questo
pentito di cinquant'anni fa, (o piuttosto, delatore) avrebbe
scarsissimo interesse, rientrando in una tipologia assai nota e che
la grande letteratura russa ha più volte raffigurato. Semmai sarebbe
interessante capire come mai gente di esperienza del mondo, come
Noventa era, avessero accolto in casa propria e fatto partecipe del
proprio lavoro e degli altri suoi giovani amici quel ragazzotto con
una tanto decisa vocazione al mestiere di spia.
Ma l'amico di cui parlavo
mi ha fatto avere anche il verbale di un lungo interrogatorio cui fui
sottoposto (come, allora, a mia insaputa, tanti altri miei conoscenti
o amici) dalla cosiddetta Ovra ossia della "Repressione
Antifascismo" (l'ho letto con comprensibile sollievo. Non si può
mai ricordare esattamente, cinquant'anni dopo, che cosa si è
dichiarato in cinque ore di interrogatorio). E così mi sono
ricordato che, negli anni della guerra, qualcuno doveva avermi
raccontato che M.M., in preda ai rimorsi per quella e altre,
probabilmente assai più gravi, delazioni, e forse per togliersi
dalla tutela dei servizi del regime, se n'era andato da volontario in
guerra, nei Balcani, dov'era scomparso.
Nel 1946, quand'ero
redattore del "Politecnico" mi era arduo rimediare, come si
dice, il pranzo con la cena. E così scrissi un racconto, dove
immaginavo che un tenente, con precedenti simili a quelli di M.M.,
sorpreso in Montenegro dall'armistizio e volendosi opporre alla
fusione del suo reparto con uno di partigiani di Tito, venisse ucciso
dai suoi stessi soldati. Lo detti, nella speranza di ricavarne
qualche lira, a Franco Calamandrei, anch'egli redattore del
settimanale di Vittorini, e che insieme ad Alfonso Gatto si occupava
di una rivista di fuggevole vita e di scarsi lettori. Calamandrei
corse a dirmi: «Sei matto? Chiunque capisce che hai parlato di M.M..
Costui, dopo l'armistizio, ha preso parte alla resistenza, ora è un
compagno ecc.».
E pensi ora il lettore
quale fu il mio stupore quando, pochi giorni dopo, Vittorini mi
comunicò che M.M. sarebbe entrato a far parte della redazione del
settimanale. Cercai, naturalmente, di evitarlo. Finché un giorno la
moglie di colui, che avevo conosciuta ragazza a Firenze, venne a
scongiurarmi di avere un colloquio con M. Stavano in una specie di
sottoscala proletario, in periferia; con un bambino piccolo, in
miseria.
Conversazione
dostojevskiana. Pace fatta in nome dell'avvenire. Ma — mi dico —
alla larga. Poi Vittorini lo manda in missione non so dove. Lo
intravvedo qualche volta. Scompare.
Passa un anno. Mi dicono
che è coinvolto in qualcosa di poco bello connesso col periodo
resistenziale; e che il Pci lo ha "mollato". Tempo dopo so
che è entrato in ambienti industriali. Un giorno incontro, ma senza
farmi riconoscere, la moglie, lussuosamente vestita e con un bizzarro
aspri sul cappello. Una autorevole testimonianza a stampa lo definì,
allora, "uomo di fiducia" di uno dei massimi dirigenti
industriali italiani. Da più di trent'anni non ne so più nulla.
Non c'è proprio
nessuna morale per queste favole normali, nessun giudizio da
pronunciare. Valga semmai per analoghe favole dei tempi vigenti che
«la cosa più inaspettata che accade a chi entra nella vita sociale,
e spessissimo a chi v'è invecchiato, è di trovare il mondo quale
gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già lo crede in
teoria» (Leopardi, Firenze, 1832).
L'ESPRESSO - 28 MAGGIO
1988
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