8.11.14

Era Warhol, aureola e perplessità. Un saggio di Danto (Raffaele Manica)

Dell'uomo che più si è arrovellato sulle Brillo Boxes (non c'è suo libro in cui non le mediti e, meditando, non dia conto del suo inesausto meditare), Arthur C. Danto, filosofo americano, è capitato di scrivere che ogni tanto sembra pestar l'acqua nel mortaio, ma che, anche, ogni tanto, ti lascia con qualcosa di nuovo addosso.
È bene aggiungere che il suo saggio di introduzione all'icona artistica della seconda metà del secolo si legge con profitto in ogni sua parte. E il profitto consiste nella limpidezza dell'esposizione e dell'organizzazione dei fatti, ma anche nel nitore del giudizio con cui i punti della vicenda Warhol vengono ripercorsi. Cose non nuove, ma sistemate al meglio, a partire dalla discendenza di Warhol dalla parte che, nell'arte del Novecento, si assegna a Duchamp (anche se «Andy creò le sue scatole, mentre Duchamp, per principio, non poteva creare i ready-made»); e, così, anche per motivi storici e geografici, oltre che artistici, contro la parte che arriva dall'Espressionismo Astratto; per finire chiave di lettura anche per il dopo: Danto legge attraverso Warhol il grasso e il feltro di Beuys, il Piss Christ di Serrano, il teschio di diamanti di Hirst, il ritratto della principessa Gloria von Thum und Taxis di Clemente.
Il merito del libro (Andy Warhol, Einaudi) sta nel non aggiungere troppe parole ai fiumi di parole corsi dai Sixties in poi su Warhol e nel ridurre all'essenziale la narrazione di una vicenda che ha dato il nome di sé a un'epoca: le Campbell's Soup Cans, le Brillo Boxes, i dipinti della serie Do It Yourself (Flowers), le Marilyn, le Jacky, gli Elvis, le Liz Taylor, le Monna Lisa, i S&H Green Stamps, i Dollar Bills, la serie Death and Disaster, il cinema a immagine ferma o uso puro nastro magnetico a inquadratura fissa, come in Empire, e la televisione, da Nothing Special agli Andy Warhol's Fifteen Minutes, e il brulicante e cangevole popolo delle «talpe», i visi impalliditi dal vivere nel buio che escono solo di notte, rigorosamente con occhiali da sole (poi allontanati quando la Factory diventa industria): è l'Età di Warhol e, Danto sospende la questione in forma interrogativa, è anche l'Età dell'anfetamina.
Se si assume la questione con valore metaforico, l'Età di Warhol è età in continua accelerazione fino alla sbandata negli anni che alcuni considerano il trionfo di Warhol, altri la caricatura di un trionfo. Ma «disinnescare» l'immagine di Mao duemila volte con ombretto e rossetto, indurre Gianni Agnelli ad acquistare un dipinto con falce e martello, identificare un'immagine di tutti nell'Ultima cena furono trovate non da poco nell'uomo, dopo l'attentato che lo fece morire una prima volta nel 1968, sempre più condizionato dai limiti fisici, sempre più attratto dal noioso e dal morboso, sempre più tramutante l'arte in denaro.
Danto svolge il suo discorso col gusto dell'aneddoto, però andando a finire volentieri nel vicolo cieco: non impedendosi di chiedere che cosa distingue una scatola di Warhol da una scatola presa al supermercato. La domanda non prevede risposte sicure. Più sbrigativi hanno aggirato la questione, per Warhol, l'uomo medio americano che trovava da lui riprodotti oggetti confortevoli e familiari, la Coca Cola e il fast food; i galleristi con gli occhi all'erta; i collezionisti che presero quegli oggetti allo stato nascente, compiendo uno dei gesti critici possibili: l'acquisto. Così midcult, denaro, feticcio della merce e desiderio di imitazione vissero inusitatamente insieme decretando: è bello (chissà perché, da ciò, la sinistra europea pensava Warhol dei suoi).
In altri termini la domanda che percorre le pagine di Danto è fuori tempo massimo come l'eventuale risposta, quale che ne sia la qualità. I prodotti di Warhol sono un fatto storico, e il tempo ha decretato che era possibile definirli arte. Occorreva interrogarsi a suo tempo, e ci si interrogò. Le risposte furono infinitamente più deboli del successo; e il successo è diventato una delle qualità di quell'arte.
Ancora più sbrigativamente ha preso di petto tale filosofico interrogarsi Pontus Hultén, poi consulente di una celebre retrospettiva postuma di Warhol, nel 1990; Danto riporta il fatto e non si accorge che è una buona risposta alla sua domanda. Per la mostra di Stoccolma del 1968 Warhol chiede a Hultén «di far fabbricare appositamente una gran quantità di Brillo Boxes, che alla chiusura della mostra intendeva donare al Moderna Museet [...]. Per qualche misteriosa ragione però, Hultén non fece quello che Warhol gli aveva chiesto. Alla mostra di Stoccolma c'erano forse alcune Brillo Boxes del 1964, ma c'erano soprattutto delle scatole di cartone prive di qualsiasi valore artistico. Nel 1990, dopo la morte di Warhol, Hultén fece fabbricare 120 scatole Brillo, dichiarò che erano state fatte nel 1968 e le vendette a cifre astronomiche. Erano dei falsi». Lasciamo stare il probabile regolamento di conti fra warholisti. Il dubbio è se non ci si trovi di fronte a un'arte che rischia di redimere il falso ed è autenticata dal suo prezzo: tanto dice il «forse» di Danto. 
Andy Warhol è destinato a passare di mano in mano per come dice quel che dice e per le perplessità che apre in chi legge. Ad esempio: se oggi entro in un posto dove c'è un venditore affidabile ma fuori di testa e mi viene offerta una scatola Brillo arrivata con sicurezza (truffaldina o no) della cooperativa d'affari che fu Warhol e se il prezzo è stracciato o risibile, devo comprarla o no? Il valore artistico delle opere di Warhol è certificato dal prezzo, dal momento che l'aureola o l'autenticità della reliquia non si vede (già che l'arte contemporanea è anche una questione di fede)? Warhol ha avuto, sull'aura e la riproducibilità tecnica, la stessa intuizione di Benjamin; e l'ha trasposta non in un saggio geniale ma in una serie di manufatti, cogliendo lo spirito del tempo. Un colpo di genio anche questo, perfezionato in business. L'Età di Warhol non è stata l'Età di Warhol finché Warhol non se ne è appropriato.

"alias - il manifesto", 5 luglio 2010

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