Dell'uomo che più si è
arrovellato sulle Brillo Boxes (non c'è suo libro in cui non le
mediti e, meditando, non dia conto del suo inesausto meditare),
Arthur C. Danto, filosofo americano, è capitato di scrivere che ogni
tanto sembra pestar l'acqua nel mortaio, ma che, anche, ogni tanto,
ti lascia con qualcosa di nuovo addosso.
È bene aggiungere che il
suo saggio di introduzione all'icona artistica della seconda metà
del secolo si legge con profitto in ogni sua parte. E il profitto
consiste nella limpidezza dell'esposizione e dell'organizzazione dei
fatti, ma anche nel nitore del giudizio con cui i punti della vicenda
Warhol vengono ripercorsi. Cose non nuove, ma sistemate al meglio, a
partire dalla discendenza di Warhol dalla parte che, nell'arte del
Novecento, si assegna a Duchamp (anche se «Andy creò le sue
scatole, mentre Duchamp, per principio, non poteva creare i
ready-made»); e, così, anche per motivi storici e
geografici, oltre che artistici, contro la parte che arriva
dall'Espressionismo Astratto; per finire chiave di lettura anche per
il dopo: Danto legge attraverso Warhol il grasso e il feltro di
Beuys, il Piss Christ di Serrano, il teschio di diamanti di Hirst, il
ritratto della principessa Gloria von Thum und Taxis di Clemente.
Il merito del libro (Andy
Warhol, Einaudi) sta nel non aggiungere troppe parole ai fiumi di
parole corsi dai Sixties in poi su Warhol e nel ridurre
all'essenziale la narrazione di una vicenda che ha dato il nome di sé
a un'epoca: le Campbell's Soup
Cans, le Brillo Boxes, i dipinti della serie Do
It Yourself (Flowers), le Marilyn, le Jacky, gli
Elvis, le Liz Taylor, le Monna Lisa, i S&H
Green Stamps, i Dollar Bills, la serie Death and
Disaster, il cinema a immagine ferma o uso puro nastro magnetico
a inquadratura fissa, come in Empire, e la televisione, da
Nothing Special agli Andy Warhol's Fifteen Minutes, e
il brulicante e cangevole popolo delle «talpe», i visi impalliditi
dal vivere nel buio che escono solo di notte, rigorosamente con
occhiali da sole (poi allontanati quando la Factory diventa
industria): è l'Età di Warhol e, Danto sospende la questione in
forma interrogativa, è anche l'Età dell'anfetamina.
Se si assume la questione
con valore metaforico, l'Età di Warhol è età in continua
accelerazione fino alla sbandata negli anni che alcuni considerano il
trionfo di Warhol, altri la caricatura di un trionfo. Ma
«disinnescare» l'immagine di Mao duemila volte con ombretto e
rossetto, indurre Gianni Agnelli ad acquistare un dipinto con falce e
martello, identificare un'immagine di tutti nell'Ultima cena
furono trovate non da poco nell'uomo, dopo l'attentato che lo fece
morire una prima volta nel 1968, sempre più condizionato dai limiti
fisici, sempre più attratto dal noioso e dal morboso, sempre più
tramutante l'arte in denaro.
Danto svolge il suo
discorso col gusto dell'aneddoto, però andando a finire volentieri
nel vicolo cieco: non impedendosi di chiedere che cosa distingue una
scatola di Warhol da una scatola presa al supermercato. La domanda
non prevede risposte sicure. Più sbrigativi hanno aggirato la
questione, per Warhol, l'uomo medio americano che trovava da lui
riprodotti oggetti confortevoli e familiari, la Coca Cola e il fast
food; i galleristi con gli occhi all'erta; i collezionisti che
presero quegli oggetti allo stato nascente, compiendo uno dei gesti
critici possibili: l'acquisto. Così midcult, denaro, feticcio della
merce e desiderio di imitazione vissero inusitatamente insieme
decretando: è bello (chissà perché, da ciò, la sinistra europea
pensava Warhol dei suoi).
In altri termini la
domanda che percorre le pagine di Danto è fuori tempo massimo come
l'eventuale risposta, quale che ne sia la qualità. I prodotti di
Warhol sono un fatto storico, e il tempo ha decretato che era
possibile definirli arte. Occorreva interrogarsi a suo tempo, e ci si
interrogò. Le risposte furono infinitamente più deboli del
successo; e il successo è diventato una delle qualità di
quell'arte.
Ancora più
sbrigativamente ha preso di petto tale filosofico interrogarsi Pontus
Hultén, poi consulente di una celebre retrospettiva postuma di
Warhol, nel 1990; Danto riporta il fatto e non si accorge che è una
buona risposta alla sua domanda. Per la mostra di Stoccolma del 1968
Warhol chiede a Hultén «di far fabbricare appositamente una gran
quantità di Brillo Boxes, che alla chiusura della mostra intendeva
donare al Moderna Museet [...]. Per qualche misteriosa ragione però,
Hultén non fece quello che Warhol gli aveva chiesto. Alla mostra di
Stoccolma c'erano forse alcune Brillo Boxes del 1964, ma c'erano
soprattutto delle scatole di cartone prive di qualsiasi valore
artistico. Nel 1990, dopo la morte di Warhol, Hultén fece fabbricare
120 scatole Brillo, dichiarò che erano state fatte nel 1968 e le
vendette a cifre astronomiche. Erano dei falsi». Lasciamo stare il
probabile regolamento di conti fra warholisti. Il dubbio è se non ci
si trovi di fronte a un'arte che rischia di redimere il falso ed è
autenticata dal suo prezzo: tanto dice il «forse» di Danto.
Andy Warhol è destinato
a passare di mano in mano per come dice quel che dice e per le
perplessità che apre in chi legge. Ad esempio: se oggi entro in un
posto dove c'è un venditore affidabile ma fuori di testa e mi viene
offerta una scatola Brillo arrivata con sicurezza (truffaldina o no)
della cooperativa d'affari che fu Warhol e se il prezzo è stracciato
o risibile, devo comprarla o no? Il valore artistico delle opere di
Warhol è certificato dal prezzo, dal momento che l'aureola o
l'autenticità della reliquia non si vede (già che l'arte
contemporanea è anche una questione di fede)? Warhol ha avuto,
sull'aura e la riproducibilità tecnica, la stessa intuizione di
Benjamin; e l'ha trasposta non in un saggio geniale ma in una serie
di manufatti, cogliendo lo spirito del tempo. Un colpo di genio anche
questo, perfezionato in business. L'Età di Warhol non è stata l'Età
di Warhol finché Warhol non se ne è appropriato.
"alias - il manifesto", 5 luglio 2010
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