1.12.14

Grillo, Petacco e Matteotti (S.L.L.)

Particolare da un busto raffigurante Giacomo Matteotti
Nel blog di Beppe Grillo ha trovato spazio nei giorni scorsi un intervento del giornalista e divulgatore storico Arrigo Petacco (dirigeva “Storia Illustrata”), dedicato al delitto Matteotti, che negava ogni coinvolgimento di Mussolini nella scelta di sequestrare ed uccidere il deputato socialista, che in Parlamento aveva denunciato i brogli e le violenze fasciste nelle elezioni.
Ha ragione Leonardo, un amico che su fb ha proposto e commentato il testo: Grillo e Casaleggio non lo hanno pubblicato a caso; e lo conferma il titolo che invita al passaparola sulla falsificazione della storia e sulla “innocenza” di Mussolini. Essi sono convinti che nel cuore e nel ventre della destra italiana, di cui cercano i voti, trova ancora posto il mito di un Mussolini buono, tradito e calunniato da alcuni dei suoi, per cui sperano che avallarne l'estraneità alla morte di Matteotti attiri simpatie e voti ai pentastellati.
Archiviato Grillo non è inutile discutere l'argomentare di Petacco. Egli esclude che Mussolini, forte di un consenso elettorale e parlamentare amplissimo, potesse volere un assassinio che danneggiava la sua linea di pacificazione nazionale, tant'è che in privato disse che “quel cadavere” gli era stato buttato davanti per farlo inciampare. Il giornalista non nega affatto la svolta dittatoriale e totalitaria che seguì il delitto Matteotti, ma lascia intendere che fu quasi “imposta” dall'ala dura e squadrista del fascismo rappresentata da Farinacci. Prima del delitto e del clima di isolamento dei fascisti che ne seguì – spiega Petacco - il Duce avrebbe addirittura voluto allargare il consenso parlamentare al suo governo, aprendo ai socialisti ed isolando i comunisti.
C'è del vero – ovviamente – in tutto ciò: Petacco è giornalista informato, anche se non precisissimo. Per esempio parla dei socialisti come se alle elezioni del 1924 fossero organizzati in un unico partito. E invece no, la loro situazione era complicatissima. C'era il Psu (Partito socialista unitario, uno dei nomi che i socialisti usano quando si dividono) di Turati e Matteotti, espulsi nel 1922 da Serrati perché propensi alla collaborazione di governo in chiave antifascista con alcuni partiti borghesi. C'era il PSI, il partito ufficiale, il cui leader era ormai Nenni, direttore dell'Avanti!, che nel 1923 aveva espulso Serrati e i suoi cosiddetti “terzini”, perché troppo vicini al comunismo della III Internazionale. E' con Nenni che Mussolini ci aveva provato: i due erano vecchi amici ed erano stati compagni di carcere al tempo della settimana rossa di Romagna nel 1914. Ci fu un incontro semisegreto a Marsiglia, ma Nenni sdegnosamente respinse l'offerta di un ministero.
L'intervento di Petacco non nega la durezza delle accuse di brogli e violenze rivolte da Matteotti ai fascisti, anzi cita un pezzo del discorso parlamentare particolarmente pesante, ma omette la frase che Mussolini infastidito in quell'occasione pronunciò, chiaramente sentita da diversi testimoni: “Come si permette a costui di circolare? che ci sta a fare la ceka?”.
La ceka, guidata da Amerigo Dumini, era una sorta di polizia speciale operante al Viminale alle dipendenze del ministro degli Interni e del capo della polizia, una squadra di fascistissimi da usare per operazioni non ortodosse. Sul fatto che fu codesta ceka a organizzare il rapimento di Matteotti e a compiere l'omicidio quasi nessuno nutre dubbi, come pure sul fatto che una parte del finanziamento dell'impresa venne dalla tesoreria del Partito Nazionale Fascista. La versione dei fascisti è che si trattò di una iniziativa autonoma di Dumini e Cesare Rossi, non avallata dal governo e men che mai da Mussolini in persona. Si lascia intendere che tutt'al più Mussolini auspicava per l'oppositore una “lezione” come quella che alcuni mesi dopo venne data a Giovanni Amendola e a Piero Gobetti (che, peraltro, di quelle lezioni morirono in esilio). L'uccisione di Matteotti in questa lettura (quella a cui credettero i tribunali che condannarono Dumini) fu solo un incidente di percorso, determinato dalla scarsa professionalità degli sgherri e, forse, da reazioni imprevedibili della vittima.
Petacco, invece, ipotizza che il vero movente del delitto si trovasse nella famosa “borsa di documenti” di Matteotti, scomparsa come, più di vent'anni dopo, quella di Mussolini arrestato dai partigiani. Secondo il giornalista i documenti riguardavano l'affarismo ladrone di alcuni esponenti governativi, in combutta con potentati industriali e finanziari, che il parlamentare socialista intendeva smascherare. Petacco, ad avallare questa seconda ipotesi, cita qualche frase di Mussolini che in privato accusava dei “genovesi” di quello che anche a lui sembrava un omicidio premeditato.
Del delitto c'è però un'altra ricostruzione, ritenuta attendibile non solo da storici di vaglia, ma anche da Matteo Matteotti, figlio del deputato socialista ucciso. E' opera di un giornalista, ma di altro (e superiore) livello, Giancarlo Fusco, e fu pubblicata in due puntate dai “Quaderni del MALE”, nel 1977.
L'ipotesi di Fusco, suffragata da diversi indizi, è che i mandanti andavano cercati in un altro palazzo, il Quirinale, tra i Savoia e la loro cerchia più ristretta. I documenti della borsa di Matteotti avrebbero infatti comprovato l'interesse privato della dinastia regnante sul petrolio della Libia, la colonia acquisita nel 1912 e solo nei primi anni '20 “pacificata” dagli italiani con stragi, distruzioni e deportazioni di massa. Al più “alto” livello (forse il re in persona) i Savoia avrebbero fatto lucrosi accordi per una concessione alle compagnie inglesi, che sarebbe diventata operativa dopo alcuni lustri. Secondo Fusco potrebbe essere stato proprio il Non toccate quel petrolio l'interdetto violato che costò la vita, oltre che a Matteotti, anche a Italo Balbo, uno dei quadrumviri fascisti della Marcia su Roma, morto nel 1940 per “fuoco amico” sul suo aereo, in uno dei suoi viaggi tra l'Italia e la Libia, di cui era governatore. L'errore “fatale” della contraerea italiana di Tobruk sarebbe stato in qualche modo propiziato da casa Savoia. 
In attesa che nuovi lavori approfondiscano il tema (negli archivi secondo me c'è ancora roba interessante da tirar fuori), ho voluto far conoscere questo filone interpretativo (suffragato da buona documentazione) e la mia opinione sull'argomento. In ogni caso, se le cose fossero andate come suggeriva Fusco, le responsabilità del “duce” non risulterebbero affatto attenuate: se anche la ceka fosse andata oltre i suoi desideri per ispirazione di altri poteri, a suo carico resterebbe non soltanto l'invito all'azione, ma il complice silenzio sulle malefatte del “degno compare Vittorio”. Gli intrighi affaristici e il coinvolgimento della dinastia nel delitto in effetti spiegherebbero benissimo la sicumera di Mussolini in quel 1924, la certezza che il re avrebbe respinto l'appello a nuove elezioni degli Aventiniani e gli avrebbe dato carta bianca; anche la successiva instaurazione della dittatura e il totalitarismo risulterebbero facilitati dalla ricattabilità del re.

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