Particolare da un busto raffigurante Giacomo Matteotti |
Nel blog di Beppe Grillo
ha trovato spazio nei giorni scorsi un intervento del giornalista e
divulgatore storico Arrigo Petacco (dirigeva “Storia Illustrata”),
dedicato al delitto Matteotti, che negava ogni coinvolgimento di
Mussolini nella scelta di sequestrare ed uccidere il deputato
socialista, che in Parlamento aveva denunciato i brogli e le violenze
fasciste nelle elezioni.
Ha ragione Leonardo, un
amico che su fb ha proposto e commentato il testo: Grillo e Casaleggio non lo hanno pubblicato a caso; e lo conferma il titolo
che invita al passaparola sulla falsificazione della storia e sulla
“innocenza” di Mussolini. Essi sono convinti che nel cuore e nel
ventre della destra italiana, di cui cercano i voti, trova ancora
posto il mito di un Mussolini buono, tradito e calunniato da alcuni
dei suoi, per cui sperano che avallarne l'estraneità alla morte di
Matteotti attiri simpatie e voti ai pentastellati.
Archiviato Grillo non è
inutile discutere l'argomentare di Petacco. Egli esclude che
Mussolini, forte di un consenso elettorale e parlamentare amplissimo,
potesse volere un assassinio che danneggiava la sua linea di
pacificazione nazionale, tant'è che in privato disse che “quel cadavere”
gli era stato buttato davanti per farlo inciampare. Il giornalista
non nega affatto la svolta dittatoriale e totalitaria che seguì il
delitto Matteotti, ma lascia intendere che fu quasi “imposta”
dall'ala dura e squadrista del fascismo rappresentata da Farinacci.
Prima del delitto e del clima di isolamento dei fascisti che ne seguì
– spiega Petacco - il Duce avrebbe addirittura voluto allargare il consenso
parlamentare al suo governo, aprendo ai socialisti ed isolando i
comunisti.
C'è del vero –
ovviamente – in tutto ciò: Petacco è giornalista informato, anche
se non precisissimo. Per esempio parla dei socialisti come se alle
elezioni del 1924 fossero organizzati in un unico partito. E invece
no, la loro situazione era complicatissima. C'era il Psu (Partito
socialista unitario, uno dei nomi che i socialisti usano quando si
dividono) di Turati e Matteotti, espulsi nel 1922 da Serrati perché
propensi alla collaborazione di governo in chiave antifascista con
alcuni partiti borghesi. C'era il PSI, il partito ufficiale, il cui
leader era ormai Nenni, direttore dell'Avanti!, che nel 1923
aveva espulso Serrati e i suoi cosiddetti “terzini”, perché
troppo vicini al comunismo della III Internazionale. E' con Nenni che
Mussolini ci aveva provato: i due erano vecchi amici ed erano stati
compagni di carcere al tempo della settimana rossa di Romagna nel
1914. Ci fu un incontro semisegreto a Marsiglia, ma Nenni
sdegnosamente respinse l'offerta di un ministero.
L'intervento di Petacco
non nega la durezza delle accuse di brogli e violenze rivolte da
Matteotti ai fascisti, anzi cita un pezzo del discorso parlamentare
particolarmente pesante, ma omette la frase che Mussolini infastidito
in quell'occasione pronunciò, chiaramente sentita da diversi
testimoni: “Come si permette a costui di circolare? che ci sta a
fare la ceka?”.
La ceka, guidata da
Amerigo Dumini, era una sorta di polizia speciale operante al
Viminale alle dipendenze del ministro degli Interni e del capo della
polizia, una squadra di fascistissimi da usare per operazioni non
ortodosse. Sul fatto che fu codesta ceka a organizzare il rapimento
di Matteotti e a compiere l'omicidio quasi nessuno nutre dubbi, come
pure sul fatto che una parte del finanziamento dell'impresa venne
dalla tesoreria del Partito Nazionale Fascista. La versione dei
fascisti è che si trattò di una iniziativa autonoma di Dumini e
Cesare Rossi, non avallata dal governo e men che mai da Mussolini in
persona. Si lascia intendere che tutt'al più Mussolini auspicava per
l'oppositore una “lezione” come quella che alcuni mesi dopo venne
data a Giovanni Amendola e a Piero Gobetti (che, peraltro, di quelle
lezioni morirono in esilio). L'uccisione di Matteotti in questa
lettura (quella a cui credettero i tribunali che condannarono Dumini)
fu solo un incidente di percorso, determinato dalla scarsa
professionalità degli sgherri e, forse, da reazioni imprevedibili
della vittima.
Petacco, invece, ipotizza
che il vero movente del delitto si trovasse nella famosa “borsa di
documenti” di Matteotti, scomparsa come, più di vent'anni dopo,
quella di Mussolini arrestato dai partigiani. Secondo il giornalista
i documenti riguardavano l'affarismo ladrone di alcuni esponenti
governativi, in combutta con potentati industriali e finanziari, che
il parlamentare socialista intendeva smascherare. Petacco, ad
avallare questa seconda ipotesi, cita qualche frase di Mussolini che
in privato accusava dei “genovesi” di quello che anche a lui
sembrava un omicidio premeditato.
Del delitto c'è però
un'altra ricostruzione, ritenuta attendibile non solo da storici di
vaglia, ma anche da Matteo Matteotti, figlio del deputato socialista
ucciso. E' opera di un giornalista, ma di altro (e superiore)
livello, Giancarlo Fusco, e fu pubblicata in due puntate dai
“Quaderni del MALE”, nel 1977.
L'ipotesi di Fusco,
suffragata da diversi indizi, è che i mandanti andavano cercati in
un altro palazzo, il Quirinale, tra i Savoia e la loro cerchia più
ristretta. I documenti della borsa di Matteotti avrebbero infatti
comprovato l'interesse privato della dinastia regnante sul petrolio
della Libia, la colonia acquisita nel 1912 e solo nei primi anni '20
“pacificata” dagli italiani con stragi, distruzioni e
deportazioni di massa. Al più “alto” livello (forse il re in
persona) i Savoia avrebbero fatto lucrosi accordi per una concessione
alle compagnie inglesi, che sarebbe diventata operativa dopo alcuni
lustri. Secondo Fusco potrebbe essere stato
proprio il Non toccate quel petrolio
l'interdetto violato che costò la vita, oltre che a Matteotti, anche
a Italo Balbo, uno dei quadrumviri fascisti della Marcia su Roma,
morto nel 1940 per “fuoco amico” sul suo aereo, in uno dei suoi
viaggi tra l'Italia e la Libia, di cui era governatore. L'errore
“fatale” della contraerea italiana di Tobruk sarebbe stato in
qualche modo propiziato da casa Savoia.
In attesa che nuovi lavori approfondiscano il tema (negli archivi secondo me c'è ancora roba interessante da tirar fuori), ho voluto far conoscere questo filone interpretativo (suffragato da buona documentazione) e la mia opinione sull'argomento. In ogni caso, se le cose fossero andate come suggeriva Fusco, le responsabilità del “duce” non risulterebbero affatto attenuate: se anche la ceka fosse andata oltre i suoi desideri per ispirazione di altri poteri, a suo carico resterebbe non soltanto l'invito all'azione, ma il complice silenzio sulle malefatte del “degno compare Vittorio”. Gli intrighi affaristici e il coinvolgimento della dinastia nel delitto in effetti spiegherebbero benissimo la sicumera di Mussolini in quel 1924, la certezza che il re avrebbe respinto l'appello a nuove elezioni degli Aventiniani e gli avrebbe dato carta bianca; anche la successiva instaurazione della dittatura e il totalitarismo risulterebbero facilitati dalla ricattabilità del re.
In attesa che nuovi lavori approfondiscano il tema (negli archivi secondo me c'è ancora roba interessante da tirar fuori), ho voluto far conoscere questo filone interpretativo (suffragato da buona documentazione) e la mia opinione sull'argomento. In ogni caso, se le cose fossero andate come suggeriva Fusco, le responsabilità del “duce” non risulterebbero affatto attenuate: se anche la ceka fosse andata oltre i suoi desideri per ispirazione di altri poteri, a suo carico resterebbe non soltanto l'invito all'azione, ma il complice silenzio sulle malefatte del “degno compare Vittorio”. Gli intrighi affaristici e il coinvolgimento della dinastia nel delitto in effetti spiegherebbero benissimo la sicumera di Mussolini in quel 1924, la certezza che il re avrebbe respinto l'appello a nuove elezioni degli Aventiniani e gli avrebbe dato carta bianca; anche la successiva instaurazione della dittatura e il totalitarismo risulterebbero facilitati dalla ricattabilità del re.
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