Il titolo che ho scelto non è,
quasi certamente, il titolo originario di questo articolo di Leonardo
Sciascia dal “Corsera”; né sono in grado di controllare quale
sia. Il libretto A futura memoria (se la memoria ha un futuro),
Bompiani/RCS, 1989-2012, da cui l'ho tratto, raccoglie interventi
dello scrittore in materia di giustizia e di politica giudiziaria
pubblicati su diversi quotidiani o periodici dal 1980 al 1988:
ciascun pezzo porta, come in apertura, il giornale e la data di
pubblicazione. Il titolo che io ho dato è uno slogan coniato da
Girolamo Li Causi che piaceva molto a Leonardo Sciascia; l'idea che
esso esprime è che la mafia si combatte meglio rispettando ed
usando democrazia e diritto piuttosto che facendone a meno. (S.L.L.)
Corriere della Sera,
23 febbraio 1986
Una constatazione che mi
avviene oggi di fare, piuttosto semplice ed ovvia, ma non priva di
significato, è che la mia infanzia è stata in qualche modo segnata
da tutto quel che sentivo intorno ai grandi processi contro la mafia
che tra Agrigento e Palermo allora si svolgevano; e che oggi, in
vecchiaia, mi trovo a seguirne altri - e soprattutto quello di
Palermo, numerosissimo di imputati - che suscitano le stesse
aspettative, le stesse speranze, gli stessi timori. E sono passati
quasi sessantanni. E con una dittatura di mezzo che proclamava di
volere annientare la mafia e che a tal fine mostrava di operare fino
all'abuso. Ma il fatto è che il fascismo aveva soltanto
anestetizzato la mafia, e spesso facendo più o meno volontaria
confusione tra il dissenso politico e la criminalità associata; ma
in quanto ad estirparla ci voleva altro.
Forse ci voleva anche più
tempo, a far sì che la generazione mafiosa presa nella rete di Mori
naturalmente si spegnesse e non tornasse in auge al crollo della
dittatura; ma soprattutto ci voleva, per dirla semplicisticamente,
più diritto: nel senso che bisognava mettere i siciliani nella
condizione di scegliere, appunto, tra il diritto e il delitto e non
tra il delitto e il delitto. Ma l'istanza del diritto ancora non
appariva: si usciva da un mondo in cui ce n'era ben poco, perché se
ne sentisse la mancanza. Il mondo della democrazia diciamo
giolittiana, che io continuo a vedere attraverso il giudizio di
Salve-mini.
In quelli della mia
infanzia, che lo storico chiama "gli anni del consenso",
tante erano le ragioni per darglielo, al regime fascista: a parte
l'inattuata democrazia, specialmente nelle regioni del Sud, c'erano
quei colpi di testa in politica estera che gli italiani vedevano come
acquisizione di prestigio; c'era la rivalutazione del combattentismo;
c'era la fine degli scioperi (poiché gli scioperi, ieri come oggi,
sono sacrosanti quando li facciamo noi, insopportabili disordini
quando li fanno gli altri); e c'era, soprattutto, il fatto che le
cinquecento lire di stipendio dell'insegnante, dell'impiegato, mai
sono state tante (in rapporto, si capisce, ai bisogni) come allora. E
in Sicilia diventava ragione di consenso anche la lotta alla mafia.
Degli arresti, dei
processi, delle condanne, nelle famiglie o in ristretta cerchia di
amici si parlava con soddisfazione. E a tal punto arrivava la
soddisfazione che delle torture, che si diceva gli arrestati
subissero nelle caserme dei nuclei di polizia giudiziaria, si parlava
con un certo raccapriccio ma senza disapprovazione. Torture da cui
venivano fuori sporadiche confessioni che erano poi regolarmente
ritrattate davanti ai giudici; né c'erano mafiosi pentiti. Più
proficua era la tecnica di investigazione escogitata, pare, da Mori;
e consisteva nel convocare quei "galantuomini" che negli
ultimi anni avevano subito grossi furti, prevalentemente di bestiame,
ed erano poi riusciti - non certo per intervento della polizia - a
riavere la roba che era stata a loro involata. Su questi fatti, le
informazioni gli venivano soprattutto dai "campieri",
specie di guardie giurate del feudo che, prima in amicizia sia coi
carabinieri che coi mafiosi, a quel punto avevano deciso di lasciar
cadere i mafiosi e di tenersi ai carabinieri. Qualcosa di simile ai
pentiti di oggi: e ne ebbero da Mori gratifiche, riconoscimenti e
decorazioni al merito civico. Altra fonte d'informazioni erano i
portieri degli stabili cittadini, che quasi per regolare
precettazione erano tenuti a dare alla polizia notizie sugli
inquilini.
Convocati, dunque, i
"galantuomini" che si sapeva avessero subito dei furti e
poi ottenuta la restituzione, la polizia chiedeva loro a chi si erano
rivolti per ottenere tanto. Non rispondevano volentieri, si capisce:
ci voleva spesso un soggiorno di qualche ora o di qualche giorno in
camera di sicurezza. Ma finivano col dirli, quei nomi: che erano a
volte di "mediatori" (così li chiamava don Pietro Ulloa,
procuratore del re - del re borbone - a Trapani: il primo ad aver
dato una descrizione precisa della "fratellanza" mafiosa),
di "amici degli amici"; a volte di capi veri e propri. Su
questi nomi veniva poi agevole intessere la trama dei collegamenti,
delle dipendenze e interdipendenze; ed anche delle rivalità, non
meno probanti delle amicizie. C'erano anche allora le "cosche"
tra loro nemiche: e quel mio racconto che s'intitola Western di
cose nostre, che qualche anno fa ebbe lunga diluizione
televisiva, ne è esempio veridico, storia vera.
Furono i processi di
allora, quasi tutti indiziari. Ma ricordando quel che se ne diceva,
gli indizi andavano dritti come frecce al giusto bersaglio. In un
paese in cui ci si conosce tutti, quelle imputazioni indiziarie che i
processi sciorinavano erano già da prima certezze. E se ne parlava
liberamente in famiglia e tra amici, ma con molta cautela fuori. Ed è
comprensibile che qualcosa di simile oggi accada in una città come
Palermo, ritagliabile in paesi e ciascuno in cui tutti si conoscono.
Sulla soglia del giudizio, sul punto di dire la propria vera
opinione, di esprimere la propria soddisfazione per gli arresti e i
processi, il cittadino è assalito da un dubbio, da una paura: è
davvero la volta buona, continuerà davvero questa lotta alla mafia
fino a consegnarla, se non al definitivo annientamento,
all'impotenza? Se dopo sessantanni ci si ritrova allo stesso punto, e
anzi peggio; se la mafia ha dato tal prova di vitalità da resistere
alla volontà di annientarla di uno stato tirannico, è possibile ci
riesca invece lo stato democratico, con tutte quelle garanzie che
offre alla libertà del cittadino e che non è difficile mutare in
coefficienti d'impunità?
Ma appunto questo è oggi il vantaggio (o meglio: il dato della speranza): che a muoversi contro la mafia è finalmente lo stato democratico, lo stato di diritto: e principalmente del diritto di non sopportare soprusi, angherie, diretti o indiretti sfruttamenti, torbide intrusioni della delinquenza associata nella cosa pubblica.
Ma appunto questo è oggi il vantaggio (o meglio: il dato della speranza): che a muoversi contro la mafia è finalmente lo stato democratico, lo stato di diritto: e principalmente del diritto di non sopportare soprusi, angherie, diretti o indiretti sfruttamenti, torbide intrusioni della delinquenza associata nella cosa pubblica.
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