Periferia londinese |
In questo finire di 2014
sono le periferie romane e milanesi a riempire le cronache. Storie a
prima vista diverse: da una parte le avvisaglie di pogrom nei
confronti di una struttura di accoglienza per giovani stranieri e di
un campo nomadi; dall’altra scontri ripetuti con le istituzioni
locali e le forze di polizia per difendere le proprie case, occupate
talora da dieci anni e più. Eppure le differenze sono solo apparenti
o, meglio, riguardano solo la superficie. E il problema – aldilà
delle apparenze – non è il razzismo, pur evidentemente presente in
alcune posizioni, e neppure la strumentalizzazione di situazioni di
disagio da parte di mestatori di CasaPound o della criminalità
autoctona infastidita dalla crescita dei controlli (pur esistente e
documentata in alcuni reportages giornalistici). Il problema, vero e
profondo, sono le periferie.
Le periferie, le
banlieues, i ghetti. Luoghi dimenticati che, periodicamente, si
accendono. Anche in paesi ritenuti tranquilli e tolleranti.
Soprattutto nei periodi di crisi economica. Con interscambi di ruolo
tra aggressori e vittime. All’apparenza senza avvisaglie, tanto da
indurre un osservatore attento come Jean Daniel (direttore del
«Nouvel Observateur») a dare a una sua raccolta di scritti al
riguardo il titolo “Ribelli in cerca di una causa”. Eppure è
dalla fine degli anni Settanta che sommosse, riots, esplosioni di
violenza si rincorrono dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Gran
Bretagna alla Germania. L’Italia, sino ad oggi, ne è stata
sostanzialmente risparmiata ma è facile prevedere che anche nelle
periferie del nostro Paese i fuochi si accenderanno ancora. Fuochi di
diverso segno, secondo quanto l’esperienza comparata insegna. A
volte contro i migranti, altre volte appiccati dai migranti (ipotesi
meno frequente in Italia sol perché la struttura prevalente delle
nostre città non prevede, a differenza di quanto accade negli Stati
Uniti o in Francia, quartieri abitati da soli immigrati e cittadini
di origine straniera).
Il fatto è che alcune
periferie, per chi non le abita, esistono solo quando si incendiano.
Il governo delle città guarda sempre più solo alla vetrina del
centro e ai quartieri residenziali. Mentre quelle periferie, un tempo
dormitori, diventano luoghi di abbandono, di degrado, di non vita.
Così la periferia geografica si trasforma in periferia economica,
sociale, culturale. Concentrazione di miseria, disoccupazione,
dispersione scolastica e via seguitando. Mix esplosivo soprattutto
nei momenti di crisi. Quando l’aumento delle situazioni di povertà
e il ridimensionamento degli investimenti pubblici di welfare
attivano le guerre tra ultimi o degli ultimi contro i penultimi. E
quando si misurano gli effetti di politiche abitative di corto
respiro che, lungi dal favorire la convivenza, alimentano
un’illegalità diffusa su cui spesso di innestano gli interessi
della criminalità.
Inevitabili, dunque,
disordini, scontri, sommosse. Anche se, per lo più, si tratta di
esplosioni che, come le jacqueries medioevali, si concludono – come
è stato scritto – «senza un visibile esito politico, eruzioni
saltuarie di un fiume di scontento che scorre sotterraneo, per un
istante prorompe in superficie e poi riprecipita nel sottosuolo
dell’inconscio sociale».
Che fare, in questa
situazione? Nell’immediato, esserci da parte di politici e
amministratori: ricevendo contestazioni e insulti ma, insieme,
marcando un interesse e cominciando a conoscere i problemi. E, oltre
ad esserci, intervenire sugli aspetti più macroscopicamente carenti:
i servizi e i collegamenti, la pulizia e l’illuminazione, il
sostegno scolastico e i luoghi di incontro… Ma la cosa più
importante è la prospettiva. Quelle periferie non possono restare
così. Devono, progressivamente, restringersi e cambiare natura. È
un operazione ciclopica, ma è la vera politica. Lo ha scritto nel
gennaio scorso, in un articolo per «il Sole 24Ore» dal
significativo titolo “Il rammendo delle periferie”, Renzo Piano.
Vi si legge, tra l’altro: «Il destino delle città sono le
periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della
popolazione urbana. […] Le periferie sono la grande scommessa
urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città?
Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? […] La prima
cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le
periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio,
bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si
deve mettere un limite alla crescita […], costruire sul costruito.
[E bisogna] portare in periferia un mix di funzioni. Se si devono
costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le
sale da concerto, i teatri, i musei o le università».
Una strada esiste. Chiara
ed economicamente sostenibile, ché la prevenzione costa meno degli
investimenti imposti dall’esplodere di patologie e conflitti. Non
mancheranno altri disordini e sommosse, ma la strada per invertire la
tendenza esiste. Non c’è, peraltro, molto tempo per evitare che la
situazione degeneri in modo irreversibile.
Narcomafie 12/12/2014
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