19.2.15

Lorenzo l'anarchico (S.L.L.)

E’ noto che in Italia la tradizione anarchica, oltre che in certe isole operaie, specialmente di minatori e cavatori, è stata tenuta viva soprattutto da artigiani, che nel loro lavoro solitario testimoniavano con la fatica e la perizia, con la libertà di pensiero, la dignità e l’intransigenza, il barlume di un’altra vita possibile.
Si trattava per lo più di orologiai e tipografi, di litografi, orafi e liutai, ma nei paesi più piccoli poteva accadere che questo compito di testimonianza venisse affidato a categorie artigiane meno specializzate come fabbri, falegnami, calzolai.
In quel paese, negli anni del fascismo, l’anarchico era un calzolaio. Ho il sospetto che si chiamasse Paolo, ma tutti – amici e nemici – lo chiamavano “l’anarchico”, senza nome.
Il figlio invece aveva come nome Lorenzo e del padre morto – credo nel 45 – aveva ereditato casa e bottega, ma non si poteva definire un vero calzolaio, uno scarparu; al massimo era da considerarsi un ciabattino, un tappinaru. Dichiarava di aver ereditato anche l’ideale politico e sociale, per cui i più in paese lo chiamavano “Lorenzo l’anarchico”, con il nome dunque, forse per distinguerlo dal padre.
Lorenzo non faceva una gran vita: guadagnava poco e punta era nella Sicilia interna la disponibilità delle ragazze alle liberi unioni che lui - da libertario - contrapponeva ai lacci coniugali. Per lui, tuttavia, a lungo rimase un esempio di vita il padre, il qualee per lo stato civile era riuscito a mantenersi celibe nonostante una lunghissima convivenza e nonostante un figlio, lui, che pure aveva cresciuto con tenerezza, fatto studiare fino alla settima e addestrato, in vero senza grandi risultati, all’arte della lesina e del trincetto. Ma il padre, l’anarchico, aveva avuto la fortuna di trovare una donna coraggiosa e anarchica quanto e più di lui, mentre il giovane Lorenzo intorno a sé non ne scorgeva.
Per tutto ciò, non appena si presentò l’occasione, si lasciò corrompere. Il padre aveva sempre rispettato socialisti e comunisti come compagni che sbagliano, e ne era stato sempre rispettato; e anche nei confronti di Lorenzo, benché non avesse la stoffa del padre, essi nutrivano benevolenza e simpatia. Quando, nel 53, i socialcomunisti conquistarono il Comune e il ringhioso Peppinello, che qualcuno aveva soprannominato Ringhio, fu scelto come sindaco, costui andò a cercarlo nella sua bottega e gli offrì un'assunzione in Comune con la qualifica di guardia municipale. Era l’impiego più incongruo che si potesse proporre a un anarchico e un po’ Peppinello lo faceva apposta, ma Vincenzo accettò senza discussioni. E subito dopo si sposò. In Chiesa.
Era un tipo velenoso e quel tossico che un tempo utilizzava per imprecare contro preti, tiranni e potenti d’ogni tipo ora, da vigile, lo spruzzava addosso ai poveretti che gli capitavano tra le grinfie, piccoli bottegai più che altro. Aveva comunque rivelato solerzia e competenza, tant’è che Ringhio, benché come titolo riconosciuto avesse la sola licenza elementare, lo mandò a fare il segretario dell'Istituto Magistrale che il Comune aveva aperto in paese per evitare un pernicioso pendolarismo alle ragazze che volevano studiare: si poteva così diventare maestre sotto l'occhio vigile dei genitori e dei vigili compaesani.
Nel 1959, grazie alla perorazione di un onorevole democristiano, il Ministero approvò la statalizzazione della scuola. I socialcomunisti venivano estromessi dalla gestione, ma venne confermata la laica intitolazione a Garibaldi da loro scelta, anche perché le Elementari si chiamavano “San Giuseppe” e le Medie “Don Sturzo”. A Lorenzo – perché fosse mantenuto nel ruolo di segretario – fu chiesta la licenza media, che egli si affrettò a conseguire in un paese non troppo vicino, per evitare che dei conoscenti lo vedessero a far gli esami.
Adesso si sentiva un’autorità e questa autorità esercitava volentieri, alla faccia dell’anarchia: leccava il giusto il Preside, ma spargeva veleno su studentine e studentini, bidelli, genitori e insegnanti, specie quelle avventizie e alle prime armi che nel Magistrale appena istituito andavano a farsi le ossa.
Fu quello il tempo che il suo soprannome cambiò: da “Lorenzo l’Anarchico” divenne “Culostretto”, termine che indica il sedere che tende a chiudersi in sé, grettamente, senza tendere generosamente a espandersi da ambo i lati. In altri ambienti prevaleva un diverso soprannome, che ricordava il mestiere originario di cui un po' si vergognava: lo chiamavano "Lorenzo lu scarparu". Lui intanto, progressivamente, si trasformava in uomo d’ordine, cominciando a disprezzare i comunisti. Oltre al veleno secerneva boria: diventava tronfio.
Compì la parabola quando la figlia sposò il nipote di un deputato e assessore regionale democristiano: si sentì finalmente realizzato.
Diventò democristiano anche lui fino ad invischiarsi nei giri correntizi, e così continuò anche dopo Tangentopoli, negli strani partiti che perpetuavano la tradizione dello scudo crociato, specialmente in Sicilia. Non amava i soprannomi con cui era chiamato; ne era arrivato un terzo che lo faceva addirittura imbestialire, “Lorenzo l’anarchico”: qualche cultore di archeologia politica aveva dissepolto e rilanciato, a sfottò, il suo peccato originale.

Vecchio, si trovò benissimo nell’Udc di Cuffaro, e morì, dopo una breve malattia, munito di tutti i conforti religiosi, quando costui, da presidente della Sicilia, ancora trionfava mangiando cannoli.     

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