5.3.15

Cartesio. La morte a Stoccolma (Graziella Pulce)

Quello di Cartesio era il secolo delle lettere, che attraversavano l’Europa e tenevano in costante collegamento gli individui facendo fluire idee, scoperte e riflessioni. La vita intellettuale si alimentava pienamente di quegli scritti organizzati e stilati con perizia tecnica e varietà di registri oggi difficilmente eguagliabili. Cosicché quando Raffaele Simone ha messo mano alla stesura del suo primo romanzo (Le passioni dell’anima, Garzanti), ha trovato nell’epistolario cartesiano magnifici tasselli da incastonare in una storia che fa luce sugli ultimi mesi di vita dell’autore del Discorso sul metodo, e lo fa con un linguaggio finemente lavorato, in grado di restituire tanto l’ampiezza delle campate del pensiero cartesiano quanto la sottigliezza ammirabile delle sue analisi.
Dopo essere stato lungamente blandito dalla regina Cristina, il 1° settembre del 1649 Cartesio lascia l’Olanda diretto in Svezia, dove l’11 febbraio successivo troverà la morte. La storia si costruisce per
intreccio di documenti e invenzione: lettere autentiche interpolate con testo che l’autore forgia in forma di pagine di diario, minute di lettere o relazioni, espediente che vale a rendere più esplicito ciò che accadde in quei mesi in una Stoccolma assediata da uno dei suoi inverni più rigidi. Nella finzione narrativa il filosofo acconsente a quel viaggio che si rivelerà fatale per un atto di vanità. Ma come in un quadro eseguito con la tecnica del pointillisme, l’occhio di chi si avvicina è sorpreso da una fitta rete di sgranature. La corte svedese appare dapprima (e da lontano) come un angolo di paradiso, nel quale si coltivano la dottrina e l’amore per la cultura, le lingue antiche e moderne, la filosofia, l’arte. Tuttavia man mano che l’occhio dell’osservatore si approssima, il castello reale si rivela luogo della doppiezza e dell’insidia, dove tutto viene ascoltato, duplicato, falsificato, e la regina che appare dotta e amante della filosofia svela un profilo imprevedibile: non tratta Cartesio come un precettore, ma come una preda catturata da esibire. Sullo sfondo la Guerra dei Trent’anni, la Guerra Interminabile, in cui spicca il ricordo del saccheggio di Praga e della Wunderkammer appartenuta a Rodolfo II.
Nel romanzo l’episodio assume un significato emblematico: la regina ha ordinato e pianificato quella spoliazione per adornare di quei cimeli e di quei capolavori la propria reggia. I Correggio assumono anch’essi lo statuto di prede esemplari e le loro velature un elaborato artificio efficace in pittura e in politica. Questa la scoperta sconcertante che amareggia il filosofo che aveva fatto proprio l’ovidiano bene vixit qui bene latuit: aver lasciato la tranquillità dei propri studi per finire nel novero delle meraviglie esibite da un sovrano con il penchant e i furori del collezionista.
Raffaele Simone come un ebanista ha collocato le varie tarsie in modo da costruire un testo sfaccettato sul quale la luce andasse a rifrangersi così da rilevare le diverse angolature che l’intreccio delle relazioni umane va a configurare. Queste tarsie concorrono a realizzare un oggetto complesso che si comporta come un meccanismo nel quale agisce un elaborato sistema di ingranaggi. Prima di partire Cartesio aveva consegnato al tipografo Le passioni dell’anima, un trattato dedicato alla sua più fine interlocutrice, la principessa Elisabetta di Boemia; egli lascia gli studi per affrontare un viaggio lungo e disagevole che lo porta in un paese dal clima artico, dove gli uccelli cadono stecchiti sui davanzali delle finestre, dove le più morbide pellicce non impediscono l’insinuarsi astuto del freddo e dove aprire una finestra vuol dire farsi trafiggere da una lama di gelo. Il viaggio mette in moto una serie di conseguenze, rappresentate dall’autore sotto forma appunto di passioni. Passioni varie che vengono a insorgere, oltre che nel filosofo stesso (che deve modificare alcune precedenti asserzioni sull’anima), nella famiglia che lo ospita (la moglie dell’ambasciatore francese si innamora di lui), nei cortigiani di Cristina (assaliti da invidia e gelosia, in primis l’infido Saumaise). Nel romanzo aleggia il sospetto che Cartesio sia stato assassinato perché la sua fama oscurava gli uomini dell’entourage regale. Quattro anni dopo quella morte, Cristina abdica e intraprende un viaggio la cui meta finale sarà la Roma di Alessandro VII.
Insomma Cartesio, ‘uscito’ da una condizione meridiana che gli ha consentito l’elaborazione di opere in cui vengono contemplate le ragioni dei fenomeni, si avventura in un territorio che gli risulta evidentemente poco familiare, quello ben più concreto della materia, della politica e della pratica. L’impatto è traumatico e l’estrema difficoltà nel fronteggiare le asprezze del clima che lo porteranno alla polmonite e alla morte diventa il segnale eloquente di una drammatica insufficienza a fronteggiare le prove che la materia e la politica pongono al matematico. Come se la limpidezza del suo sguardo si fosse improvvisamente congelata, alla sua mente si ripresentano ricordi lontani, mentre sui suoi pensieri soffia un nuovo alito sentimentale. Di fatto Cartesio a Stoccolma non riesce
ad applicarsi ai suoi studi. Le idee disertano le sue pagine e nelle lettere si affacciano echi di quanto acquisito in precedenza. Su tutto regna una sorta di stupore malinconico.
Della nettezza del suo pensiero è rimasta una struttura vuota, resa percepibile dalla cura e dal decoro con cui mantiene la propria persona. Un profumo floreale e un lindore contraddistinguono la sua figura all’interno della corte, alla quale egli resta profondamente estraneo. Con l’amico Antonio Machado, pittore e poeta, per la prima volta apprezza il Don Chisciotte, eppure da quando ha messo piede in Svezia si è sentito prigioniero. La servitù alla quale si è deliberatamente assoggettato coincide con il suo ingresso nella ‘polpa’ del mondo che gli è alieno, quando si è lasciato alle spalle il suo mondo, sul quale aveva dominato in piena libertà, quello dei punti, delle linee e delle figure geometriche, mondo infinito e infinitamente contemplabile.
Questo viaggio insomma vale come estensione del trattato sulle passioni e la ragione del romanzo consiste nel mettere in evidenza la portata intellettuale di quello che è stato un evento biografico. L’invenzione letteraria di fatto induce a intendere nella scelta del viaggio il passaggio necessario che porta a sviluppo e compimento un procedimento fino ad allora restato sul piano teoretico. Il viaggio dal cuore tiepido dell’Europa cristiana fino alla luteranissima Svezia è allegoria di un processo sperimentale che Cartesio conduce con un intento non meno filosofico che morale. Educare una regnante desiderosa di accostarsi ai principi della filosofia è un’occasione irripetibile per condurre quei principi astratti sul piano della concreta realtà politica. Ciò apre la strada alle eventuali implicazioni di questo testo, il cui autore, linguista e saggista, è intervenuto pubblicamente su questioni attuali e scottanti relative alla trasmissione del sapere e al ruolo della cultura nello stato, nonché sui costumi dell’Italia del pressappoco.
Ma se il romanzo può essere letto secondo questa direttrice, e dunque inteso come il frutto di una riflessione sul ruolo pubblico dell’intellettuale e sulle possibilità che gli studiosi hanno di intervenire positivamente nei confronti della politica, la conclusione disegnata dall’autore sembra essere sostanzialmente pessimistica e priva di speranze concrete. Il sovrano resta lontanissimo, intento com’è al perseguimento di fini puramente particolari e insofferente ai richiami dei filosofi e dei loro ammonimenti volti alla considerazione di prospettive di natura più generale.


ALIAS N. 40 - 22 OTTOBRE 2011

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