5.3.15

Frittata di ossimori. Un bilancio per Zanzotto (Roberto Galaverni)

Andrea Zanzotto
«Siccome un bel tacer non fu mai scritto / un bello scritto non fu mai tacere»: scrive così Andrea Zanzotto al termine del suo ultimo libro di poesia, Conglomerati (2009), con cui adesso si chiude la corposissima edizione di Tutte le poesie, uscita in occasione dei suoi novant’anni a cura di Stefano Dal Bianco (Oscar Mondadori).
Zanzotto è sempre stato un poeta di notevole auto-consapevolezza critica, sempre più che generoso nel proporre definizioni o immagini esatte e molto produttive per la comprensione della sua scrittura poetica. Lo è stato a tal punto non dico da togliere la parola di bocca ai suoi lettori e interpreti – si è anzi scritto sempre molto sulla sua poesia –, ma da metterci la propria in quella bocca. Perché al riguardo ha già detto tutto o quasi tutto lui. E lo ha detto bene. La sua poesia del resto è stata anche questo: una spiegazione e una giustificazione continue, agli altri ma anche a se stesso, della propria fecondità creativa, della ricchezza della sua vegetazione poetica. Come una madre che trovandosi in un presunto, continuo e conclamato rischio di sterilità, a ogni primavera dovesse poi mostrare e rendere ragione, non senza pudore, dei suoi tanti e sanissimi figli nuovi. La spiegazione fondamentale, la prima e ultima questione di poetica di Zanzotto, allora, non riguarda tanto i modi e la natura della poesia, ma il fatto stesso dell’esserci di quella poesia, la familiarità della Musa con la sua cameretta, la confidenza con l’arte del verso, la prosperità costante della sua vena, la sua incredibile salute.
Così, tornando agli endecasillabi di Parola, silenzio che ho ricordato all’inizio, e prendendo questi versi che suggellano l’opera di Zanzotto come un viatico alla sua lettura (anch’io partecipo volentieri al gioco, come si vede), direi che la domanda base posta dalla sua poesia non riguardi né il come né il cosa, ma il perché: perché la poesia, perché in sostanza la parola, e così ininterrotta e «facile», così tanta, così troppa perfino, anziché il silenzio, proprio quando tutto, è Zanzotto stesso a insistere su questo, sembrava motivarlo, dalla natura alla storia, dal patimento fisico al male di vivere e tutto il resto.
C’è poco da fare, ma il silenzio rimane la cattiva coscienza di tutto il percorso poetico di Zanzotto. Che in chiusa alla sua opera, riprendendo un detto che appartiene insieme alla letteratura alta e al repertorio popolare, il poeta abbia messo ancora una volta le mani avanti, cioè indietro, proprio su tale punto, testimonia senz’altro del rovello radicale sulla legittimità della sua poesia, un interrogativo sempre presente che non solo accompagna ma risulta esso stesso un elemento decisivo della sua intrinseca costituzione. Che senso ha avuto questa strepitosa traversata di poesia? Che cos’è stata, che cos’è la poesia per Zanzotto? A mo’ di compendio il poeta è ancora lì a provare a spiegarselo. Fuga, inadempienza, «canta che ti passa», vacanza paradisiaca e non autorizzata rispetto alla verità delle cose e della vita; oppure trasgressione strategica, percorso non allineato e trasversale necessario a sostenere e ad affrontare con più forza la realtà e il suo male, come lo chiamava Leopardi? Poesia come «droga fonica» o poesia come vincolo antropologico; principio del piacere o «principio resistenza», per ricordare due auto-definizioni ormai celeberrime?
Sempre nell’ultimo libro si trova un verso che mette insieme le due opposte possibilità, come tra volontarismo e abbandono: «l’ostinazione di quell’ipnosi chiamata poesia». In Parola, silenzio la modulazione del motivo è più materiale, ma sostanzialmente non cambia: «Dell’ossimoro fatta la frittata», scrive Zanzotto, «si diè inizio a una torbida abbuffata». Se si prende fino in fondo Zanzotto, la sua poetica dell’ossimoro, se cioè ne rispettiamo davvero la lettera, dovremmo concludere che la sua poesia è entrambe le cose, e che, soprattutto, non è l’una senza l’altra. Zanzotto ha deciso comunque di scrivere (è un poeta proprio per questo, aggiungo senza preoccuparmi della tautologia; e ben sapendo, del resto, che tautologia fa spesso rima con poesia), di prendere la strada del «bello scritto» e del «mai tacere», di poetare malgrado l’ossimoro, anzi sopra e dentro l’ossimoro, di farne non solo la premessa ma la condizione stessa della sua poesia. «Divergevano due strade in un bosco, e io… / Io presi la meno battuta, / E di qui tutta la differenza è venuta», ha scritto Robert Frost nella sua La strada non presa (la traduzione è di Giovanni Giudici). Bene, credo che il mattutino del patto-scelta tra parola e silenzio Zanzotto debba averlo rinnovato ogni santo giorno della sua vita, a ogni nuova poesia, girandosi indietro e poi ripartendo sempre daccapo, riprovandoci o ricascandoci ogni volta come fosse la prima. Bisogna dunque prenderne atto, constatando soltanto che quale sia stata la pressione negativa la forza d’espansione e di generazione contraria investita nella poesia, o che grazie alla poesia lo ha investito, è stata non solo equivalente ma maggiore dell’altra. Missione e/o piacere che sia, la voce della poesia è stata più forte. La frittata è fatta. Ed è questa, fortunatamente.
«Il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe»: così nella sua recensione alla Beltà (1968), senza dubbio uno dei pezzi più sicuri e importanti scritti su Zanzotto (un intervento davvero rabdomantico, servendomi di un aggettivo zanzottiano), Montale aveva colto esattamente la natura composita e fortemente materica del suo dettato poetico. L’immagine è perfetta nel configurare non solo la poesia ma anche il particolare procedimento poetico del mago di Pieve di Soligo tutto preso nel comporre i suoi intrugli poetici nella casetta al margine del bosco. «A lui tutto serve», diceva Montale; ossia: qualsiasi ingrediente può andar bene per una buona frittata poetica, o anche, che è lo stesso, nel grande calderone della poesia tutto fa brodo.
E davvero quello che più colpisce in Zanzotto è l’invenzione, poiché di questo si tratta, di uno stile poetico capace di trangugiare e amalgamare qualsiasi cosa, rendendola un carburante comunque congeniale al grande motore dell’intensità e dell’efficacia espressiva. Poeta onnivoro e inclusivo quant’altri mai, Zanzotto non ha mai voluto precludersi nulla escludendolo dal proprio orizzonte poetico. È anzi posseduto da una specie di patologia della totalità, che potrebbe essere l’altra faccia di quella che dal punto di vista della conoscenza delle cose affiora continuamente nei suoi versi come la condizione-ossimoro, proprio come si è visto per la relazione parola-silenzio. Direi che l’ossimoro rappresenta per lui non solo una specifica situazione storico-esistenziale, ma il dispositivo base del funzionamento della realtà, dunque anche e soprattutto della poesia. Se si volessero elencare le contrapposizioni e contraddizioni, dunque le oscillazioni quasi simultanee e reversibili su cui s’impiantano i suoi versi, si sarebbe costretti a ricalcarli dall’inizio alla fine: lingue minime e massime, latino e dialetto, grammatica e petèl (secondo papà Pascoli, come sempre), profondità telluriche e cosmo, viscere e galassia, i discorsi della nonna e i seminari di Lacan, scienza e visione, malattia e salute, natura e storia, lingua e linguaggio, poesia e poetica, comunicazione e autismo, vita e letteratura, Petrarca e Dante, Mallarmé e Pasolini, codificazione e informale, sorgente e buco nero, poeta actus e poeta agens, onnipotenza e impotenza, naturale e artificiale, senso e nonsenso…
Davvero si potrebbe non finire mai, tanto più che a tutto, a partire dalla poesia stessa, andrebbe aggiunto il prefisso iper- o extra- o super- o anche meta-, tanto l’atmosfera poetica in Zanzotto è carica, sovraeccitata, al quadrato, anche coi relativi rischi di saturazione espressiva (satura: la parola è di Zanzotto almeno quanto dell’ultimo Montale coi suoi ossimori concettualizzati).
La soddisfazione insieme percettiva e intellettuale che deriva dalla lettura di una poesia di Zanzotto, o meglio dall’entrata in una sua poesia, visto che davvero il suo testo è un luogo, deriva proprio da questa pienezza di significazione e di significati in forma di musica, o di canto.
Il discorso poetico di Zanzotto, questo discorso dai mille occhi che ha sempre ragione lui, intriga e cattura, possiede qualcosa come un potere sciamanico di seduzione e d’incantamento, fino a costringerti a giocare un gioco che è il suo, con le sue regole e le sue ragioni. E ad esso, a questa irresistibile forza poetica, ci si abbandona volentieri, talora persino con troppa facilità, tante sono l’autorevolezza e l’intelligenza benevola di quel suo fiume verbale sempre in piena (Zanzotto è un mago buono). Certo è che non pochi suoi risultati sono davvero alti e incontestabili, basti pensare anche solo alla cosiddetta pseudo trilogia – Il Galateo in Bosco, Idioma e Fosfeni – che costituisce un episodio senza dubbio fondamentale del nostro Novecento poetico (tanto più col Galateo, che vale come l’autentico correlativo oggettivo della sua poesia).
Zanzotto è più di altri un poeta della parola; certo anche della lingua, ma della lingua intesa come rilancio ed espansione delle singole cellule verbali. È la parola il primum. La sua poesia nasce come iterazione, proliferazione, come somma e moltiplicazione, ecolalia, balbuzie di fonemi, non come discorso. Allo stesso modo il discorso non appare mai un’unità compiuta, un individuo, diciamo così, adulto e irriducibile, ma resta formato (quando pure è formato) da uno sciame di girini che non rinunciano a essere tali, alla loro libertà e alla loro divertita e un po’ sghemba follia. A imporsi è sempre il flusso verbale costruito da queste particelle in continua auto-rigenerazione. Anche per questo Zanzotto è un poeta di grandi poesie più che di grandi versi memorabili. Nella sua poesia vince la parola, vince la-lingua. Da qui la grande differenza rispetto a suoi compagni di strada come Giudici, Sereni, ma anche Montale.
Poeta per eccellenza della contraddizione e della reversibilità, Zanzotto non può essere per sua intrinseca costituzione un poeta del verso-sentenza, del verso incontrovertibile. Ogni sua parola o soluzione, infatti, contempla sempre l’occorrenza reciproca e opposta. Non progressione, ma oscillazione e alternanza. Nonostante la presenza sostanziosa di Dante, dal testo-bosco della vita, dalla selva del canzoniere, non se ne esce. «Ammessa conversione a U / ovunque», recita una poesia del Galateo, che può valere per noi anche più di una mezza speranza.


ALIAS IL MANIFESTO - 22 OTTOBRE 2011  

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