«Nell'ondeggiante
oceano, / nell'armonia sonora, / nell'alitante Tutto / del respiro
del mondo /naufragare, / affondare, / senza coscienza, / suprema
voluttà!» («In dem wogenden Schwall, /in dem tönenden Schall, /
in des Weltatems / wehendem All, - / ertrinken, / versinken, -- /
unbewusst, - / höchster Lust!»). Sono le ultime parole del Tristan
und Isolde di Wagner, che ha dato forma indimenticabile alla
leggenda dei due amanti, trasfigurando l’amore impossibile che
conosce l’unione solo nella morte, la negazione finale della
volontà alla vita di Schopenhauer, il suo radicale nichilismo, in
una fascinosa melodia infinita, dolce e terribile. Wagner prende le
mosse dal Tristan (1210 ca.) di Gottfried von Strassburg - lo
legge nell’edizione del 1823 di Friedrich Heinrich von der Hagen e
nella versione condotta nel 1844 da Hermann Kurtz - che a sua volta
si ispira a un Tristano antico-francese, giuntoci solo in
frammenti e opera di un poeta dell’Inghilterra normanna, Thomas
(1150-60 ca.). Gottfried rende palese omaggio al suo predecessore,
che chiama «Thomas von Britanje», così vicino alla lancinante
tensione della sua opera, pervasa d'amore e di morte, al suo «strano
lamento». Ma il Medioevo, così ricco di tensioni, di vertiginosi
esperimenti, ci offre, oltre al Tristano di Thomas, un altro
grande testo, il Tristano di Béroul (1160-80 ca.): un testo
completamente diverso, quasi che Béroul volesse «capovolgere»
l'opera del rivale. Invece della distanza, della lacerazione,
dell'esaltazione e del lutto, viene messa in scena, con colori epici,
quella che potremmo chiamare un'arte dell'incontro amoroso. Il
lettore moderno può ora leggere Béroul nella bella traduzione, con
testo a fronte, di Gioia Paradisi (Tristano e Isotta, Edizioni
dell'Orso), che si confronta anche con i problemi testuali - l'opera
ci è giunta in un unico manoscritto, ma numerosi sono i punti
controversi - e mette in luce, senza temere l'ombra di Thomas, la
grandezza di questo romanzo: la «dismisura amorosa» dei
protagonisti, i tratti epici e potentemente arcaici, il ritmo
travolgente, ricco di suspence e di colpi di scena.
In Béroul l'eros è
«dispensatore di piacere e di medicina del dolore». Anche nella
vita di stenti, davvero selvaggia, che gli amanti, fuggiti dalla
corte, conducono nella foresta del Morrois, Béroul sottolinea come
la simmetria della loro condizione sentimentale cancelli la
sofferenza: «Ciascuno sopporta le privazioni con lo stesso animo, /
perché l'uno per l'altro non sente che bene»
(«Chascun d'eus soffre
paine elgal, / qar l'un por l'autre nesent mal). E nella scena
notturna in cui Tristano, per evitare di lasciare le sue impronte
sulla farina che il nano malefico che li spia ha sparso sul
pavimento, raggiunge con un grande balzo il letto della regina,
l'eroe neppure si accorge di
un'antica ferita che si è riaperta: «La ferita si apre, sanguina
tanto, / il sangue che ne esce lascia il segno sulle lenzuola: / la
ferita sanguina, non la sente, / perché è tutto intento al suo
piacere». («Sa plaie escrive,forment saine, / le sanc qui n'ist les
dras ensaigne: / la plaie saigne, ne la sent, / qar trop a son
delitentent»).
Per Béroul Tristano è
un marginale, irrimediabilmente, perché il «folle amore» che lo
domina, e che lo lega alla regina, non è compatibile con l'ordine
feudale della corte. Questo è difeso dai baroni, che spiano gli
amanti, che non si stancano, mossi anche dall'invidia, di denunciarli
al re. Su di loro, a più riprese, si scatena l'ira omicida di
Tristano. All'audacia dell'eroe risponde, specularmente, l'astuzia di
Isotta, capace di dissimulare, di superare, mentendo, le situazioni
più drammatiche. Come nella grande scena del Mal Pas. Qui Isotta
davanti alla corte diArtù, che sarà garante del suo giuramento e
che la difenderà da ogni ulteriore sospetto, affronta il iudicium
Dei, per allontanare da sé l'accusa di aver commesso adulterio
con Tristano. Travestito da lebbroso, coperto di stracci, Tristano la
prende in groppa per farle attraversare la palude del Mal Pas, e così
Isotta può pronunciare, trionfalmente, la sua «verità»: «Ora
ascoltate il mio giuramento, / del quale il re Artù qui presente è
garante: / in nome di Dio e di sant'Ilario, / su queste reliquie, sul
reliquiario, / su tutte le reliquie che non sono qui / e su tutte
quelle sparse per il mondo, / mai tra le mie cosce entrò uomo /
eccetto il lebbroso che si fece bestia da soma / e che mi portò
oltre il guado, / e il re Marco, mio sposo». In questa grandiosa
recita dell'ordalia, Isotta è maestosa regina, splendida nelle sue
vesti foderate di bianco ermellino, con un cerchio d'oro nei capelli,
e insieme, piantata sul dorso del falso lebbroso, un'impavida virago,
una sfrontata i baccante: «Li guardano tutti, re e conti. / Isotta
monta sulla stampella, / sale con le gambe a cavalcioni. / Tristano
un po' di volte fa finta di cadere, / fa la faccia come se soffrisse.
/ Isotta la bella lo cavalcò, / una gamba di qua, una di là»(«Yseut
la bele chevaucha, / janbe dega, janbe dela»).
La storia ci trasporta in
un mondo arcaico. Tristano non impugna la spada come un cavaliere
cortese, ma scocca frecce micidiali dal suo arco che non sbaglia
mai, dall'«Arc qui ne faut». Nel filtro amoroso converge anche un
motivo ben attestato nel folklore celtico, quello del «vin de
royauté», della bevanda magica che viene offerta al re la sera
delle nozze, a garantire il potere regale nei miti in cui un umano
sposa una divinità femminile legata al territorio e garante della
sovranità. Dio non è un giudice che condanna l'adulterio della
coppia e il molteplice gioco dei loro inganni, è piuttosto loro
complice, un tratto decisivo e deviante che Gioia Paradisi mette bene
in luce: «Aldilà dell'irresponsabilità oggettiva determinata dalla
bevanda magica, la partigianeria del Dio cristiano verso Tristano e
Isotta credo possa rinviare a un'estraneità (o a un'alterità) del
concetto di “Dio” rispetto ai significati più profondi della
vicenda». L'arcana coercizione esercitata dal filtro, neutralizzando
la volontà degli amanti, li colloca in una dimensione dove la
sanzione religiosa e morale non vale più nulla. Quando l'eremita
Ogrino chiede loro di pentirsi e di rinunciare al «pechié»,
al peccato nel senso cristiano del termine, Isotta rifiuta e
ribadisce che il suo attaccamento a Tristano si deve al filtro magico
che hanno entrambi bevuto. L'eremita, sconsolatamente, non può che
prendere atto dell'impossibilità di impartire loro la penitenza: «Il
fallimento di Ogrino mostra che contro il potere straordinario di
Amore nulla può la condanna del peccato e la paura della morte
dell'anima agitata dall'uomo di chiesa».
In questo mondo arcaico,
alternativo alla corte, e alla morale della chiesa, i nostri eroi si
muovono con una selvaggia agilità. Se il Tristano di Thomas,
di Gottfried von Strassburg, di Wagner, ci offre un'iniziazione piena
di pathos alle altezze sublimi della voluttà e del nulla - Gottfried
si rivolge ai «nobili cuori», agli «edelen herzen», «che
insieme portano nel cuore / dolce amarezza, amato dolore, / palpiti
di gioia, tormento del desiderio, / vita felice, triste morte, /
morte felice, triste vita» - Béroul vuole percorrere un'altra
strada. Accompagna i protagonisti e le loro rocambolesche avventure,
innumeri e sempre diabolicamente vitali - agguati, travestimenti,
roghi e fughe, giuramenti blasfemi - con un senso di gioiosa
partecipazione, e invita il lettore, che accetta volentieri, a farlo
con lui.
“la talpalibri alias il
manifesto”, 6 ottobre 2013