È
il momento della memorialistica, dei diari, delle indiscrezioni
carpite ai testimoni del passato. Non c'è discendente che, scovando
nei cassetti qualche inedito d'un suo antenato, non si affretti a
pubblicarlo: anche in assenza di notizie rilevanti o di pensieri
peregrini, basterà la patina del tempo a dare a questi repechages
un sufficiente diritto di cittadinanza nell'editoria di consumo. Ogni
avvenimento storico si infiora così di aneddotica; e i personaggi
più statuari sembrano rimpicciolirsi, diventare affabili o
addirittura pedestri. La smitizzazione è infatti il primo risultato,
in genere benefico, che ottengono simili operazioni. Qualche volta ci
si trova a disporre di carte che correggono addirittura
l'inquadramento di una figura storica e l'opinione che di essa si
tramandava. Ma si tratta di eventi rari e quasi rivoluzionari, come
soltanto le vere scoperte riescono ad essere. Non direi che di fronte
a questo volume di Paolo Paulucci, Alla corte di re Umberto
- Diario segreto, a cura di
Giorgio Calcagno (Rusconi, pagg. 182, lire 22.000), sia il caso di
gridare alla scoperta. Ma un suo sapore genuino il libro ce l'ha.
Il
marchese e tenente colonnello Paulucci delle Roncole, discendente da
sette generazioni di militari piemontesi, fu al servizio di re
Umberto I come aiutante di campo fra il 1892 e il 1896. E' stato suo
figlio Enrico, pittore, oggi ottantacinquenne, a riesumare il diario
di quei quattro anni una sorta di agenda commentata della vita di
Corte tirandolo fuori dalla polvere di vecchi quaderni in origine non
destinati alla pubblicazione. Grande prova di amor filiale, o piccolo
tradimento? Sarebbe ozioso indugiare sul dilemma. Resta il fatto che
un cortigiano cauto e fedele, come Paulucci padre, avrebbe usato ben
altro tono se avesse pensato che le sue memorie erano destinate ad
esser date in pasto ai lettori della Repubblica italiana. Ciò detto,
a noi posteri non rimane che godere del piacere dell'indiscrezione.
La quale consiste soprattutto in questo: al suo aiutante di campo,
nobile e militare di antica stirpe, il secondo re d'Italia non appare
né una figura austera e raffinata, né uno statista dotato di acume
irresistibile. Dei Savoia, stando alla testimonianza di Paulucci,
Umberto ha il coraggio istintivo, ma anche tracce vistose di
grossolanità. Tanto per cominciare, è incolto: di letteratura ne
mangia poco o addirittura la disprezza, e di arte non si intende.
Parla spesso in dialetto, specie se deve esprimere giudizi su
persone, e in questi casi adopera espressioni robuste, insolite in
una Corte: nel suo eloquio, questo dignitario diventa un cujùn,
quell' altro è una ciula
(cioè un imbecille, detto un po' alla plebea), questo militare è un
minchione e quell'uomo politico un baloss
(un birbante) o un salop
(sudicione). A tavola, il re non sa stare con bastante signorilità:
Paulucci registra ad esempio, compunto, che col caffè fa ancora lo
zuppino di pane. Non basta. Da alcuni cenni traspare, nei foglietti
dell'aiutante di campo, l'attività svolta da Umberto I nel settore
galante. La duchessa Litta, che fu sua amante per lunghi anni, viene
citata di sfuggita: soltanto per notare il fatto che il sovrano nel
1892 prese il lutto per la morte di un figliolo della nobildonna che
egli, forse con troppa ingenuità, credeva suo: e per registrare una
visita del re alla duchessa, in un pomeriggio del 1894, a Monza. Ma
certamente Umberto non si limitava a questo. Nel diario si parla di
amori furtivi e occasionali, da lui consumati in un appartamentino
della lunga manica del palazzo del Quirinale. Qui il re accoglie le
ospiti, le spoglia; dopo... dorme 1/4 d'ora sulla spalla; poi si rifà
il letto senza voler essere aiutato.
E i
rapporti con la regina? A un cortigiano così intrinseco come il
Paulucci non sfugge la loro freddezza. Quando vi è la Regina, Sua
Maestà è di cattivissimo umore ed a tavola non parla affatto.
Quanto a religione, il sovrano ne pratica quel tanto che gli viene
imposto dal rispetto umano, e ancor di più si suppone dal regnare a
Roma. In fondo al cuore, egli è tuttavia pretofobo. Con me,
riferisce il marchese, ha detto che bisogna castrarli tutti.
Il
forte di Umberto I era la tempra fisica che gli consentiva di
cavalcare per molte ore, di presenziare a cerimonie interminabili, di
partecipare a lunghe battute di caccia compiacendo gli astanti con le
sue doti di meraviglioso tiratore. In questi exploit venatori, a
Castelporziano, venivano abbattuti fino a settanta cinghiali: almeno
come fauna, erano tempi ricchi. Alquanto demistificante è anche il
trattamento che Paulucci riserva alla regina Margherita. L'eterno
femminino regale che Giosuè Carducci celebrò in essa, risulta
sproporzionato alla realtà. Vista da vicino, la regina appare al
diarista bella quanto me la figuravo, ma più piccola e meno
matronale. Per il resto, charmeuse
e piacentissima, la consorte di Umberto affida il proprio mito
mondano a una conversazione elegante e variata (posa a dotta), e più
spregiudicata di quanto il suo rango non comporterebbe: non ha la
nozione esatta di ciò che si può e di ciò che non si può dire.
Molte altre signore non direbbero ciò che dice lei. Ha, tuttavia, un
acuto spirito di osservazione, è molto donna, ama il lusso, sparla
delle altre donne, mangia robustamente, usa cantare con virilità
inni patriottici (qualche volta anche la Marsigliese,
non ostante i suoi aspri sentimenti antifrancesi) e crede nella
jettatura. A differenza di suo marito, che in fondo non è capace di
far male ad una mosca, è formalista e risoluta fino alla violenza
con i suoi supposti nemici. I giornalisti, per esempio, li metterebbe
tutti in un mortaio e li pesterebbe. Fautrice della pena di morte, la
invoca appena possibile. Non è, in questo, un buon esempio di
magnanimità regale. Si mangia le unghie, fischia e si mette le dita
nel naso.
A
svolgere simili funzioni è il principe di Napoli, il futuro Vittorio
Emanuele III, che ha, all' epoca, fra i 23 e i 27 anni. Assai timido
e riservato, di apparenza meschina, mal vestito non ostante gli
sforzi di sua madre, egli è, secondo Paulucci, una figura simpatica:
peccato che l'esser corto di gambe gli tolga quell'aspetto marziale
che sarebbe desiderabile in un principe ereditario. È colto,
amantissimo di cose militari e di conversazione noiosa. La sua
passione dominante è la numismatica. Fin qui nulla di nuovo. Ma lo
sguardo del cortigiano si spinge più a fondo, e scruta certe
abitudini che denotano nel giovane principe un vero Savoia:
appassionato per le avventure fulminee, ogni quindici giorni cambia,
e le signore di Napoli dicono che fan servizio per turno. La parola
servizio trabocca di perfidia mondana, quasi si trattasse di una
faticosa corvée.
Intorno
alla famiglia reale si muove, nelle pagine di Paulucci, un limitato
gruppo di uomini politici: due soprattutto, Zanardelli e Crispi. Il
primo, considerato da Umberto e Margherita fisicamente sudicio e
politicamente inaffidabile. Il secondo, stimato dal re per
intelligenza e talento politico anche se, moralmente, poco meno che
un mascalzone. Un porco necessario, come Sua Maestà lo definisce. Di
Giolitti si parla poco e solo in rapporto allo scandalo della Banca
Romana, di cui nelle pagine di Paulucci si avverte l'eco inquietante
(così come si profila appena, nel diario, un altro evento non meno
sconvolgente per il paese: il disastro di Adua). Un po' più spesso è
nominato il senatore Paolo Boselli, confidente del re, che è
ministro con Crispi nel 1893 e che, assai vecchio, sarà presidente
del Consiglio durante la grande guerra. Fra i cortigiani, spicca
Urbanino Rattazzi, nipote dell'ex presidente del Consiglio, che di
Umberto è il consigliere principale fra il deus ex machina e l'anima
nera finché Crispi, che lo detesta, non ingiungerà al re di
disfarsene.
La
storia grande, di cui i reali dovrebbero essere protagonisti, scrive
Giorgio Calcagno nell'introduzione, entra solo lateralmente fra le
pareti damascate del Quirinale, dove si affolla l'entourage
di casa Savoia. Un entourage
che è sottoposto a una vita di Corte fin troppo attiva, con continui
spostamenti fra Roma, Monza e il Piemonte. Una certa instabilità è
propria dei Capi di Stato di ogni tempo: non per nulla, di recente,
“Le Monde” osservava con arguzia che Mitterrand sogna un week end
a Parigi. Ma nel caso di Umberto e Margherita si trattava di qualcosa
di più e di diverso: nella Capitale dell'Impero e del Papato essi
erano rimasti una specie di ospiti. I sovrani, conferma Paulucci, non
amano il soggiorno di Roma. Umberto rimaneva piemontese, si esprimeva
in dialetto, preferiva circondarsi di piemontesi. Perfino certe
ricorrenze patriottiche come il rito rievocativo del 20 settembre le
considerava pagliacciate. Nonostante tutta la retorica nazionale che
lo circondava, era un re prestato.
Il
regicidio di Monza tre pistolettate esplose contro Umberto
dall'anarchico Gaetano Bresci poneva su tutto questo un suggello
tragico e amaro. Paulucci, non più aiutante di campo ma invitato dal
governo ai funerali di Stato, annota in una postilla al diario, in
data 29 luglio 1900: Povero re, così buono, così generoso, così
amante del suo popolo... Sento dal più profondo del cuore la perdita
che ha fatto l'Italia. La sincerità del marchese è fuori di dubbio.
E tuttavia c' è da domandarsi se davvero l' Italia pianse, unanime,
la morte di Umberto: risuonava ancora recente il rombo delle
cannonate di Bava Beccaris. Tornando a Paulucci, c'era forse più
verità nella maldicenza involontaria del diario segreto, che in
questo postumo, cavalleresco omaggio di un uomo di Corte.
“la
Repubblica”, 2 novembre 1986
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