2.6.15

Com'è rozza la Maestà. Un marchese alla corte di re Umberto (Nello Ajello)

È il momento della memorialistica, dei diari, delle indiscrezioni carpite ai testimoni del passato. Non c'è discendente che, scovando nei cassetti qualche inedito d'un suo antenato, non si affretti a pubblicarlo: anche in assenza di notizie rilevanti o di pensieri peregrini, basterà la patina del tempo a dare a questi repechages un sufficiente diritto di cittadinanza nell'editoria di consumo. Ogni avvenimento storico si infiora così di aneddotica; e i personaggi più statuari sembrano rimpicciolirsi, diventare affabili o addirittura pedestri. La smitizzazione è infatti il primo risultato, in genere benefico, che ottengono simili operazioni. Qualche volta ci si trova a disporre di carte che correggono addirittura l'inquadramento di una figura storica e l'opinione che di essa si tramandava. Ma si tratta di eventi rari e quasi rivoluzionari, come soltanto le vere scoperte riescono ad essere. Non direi che di fronte a questo volume di Paolo Paulucci, Alla corte di re Umberto - Diario segreto, a cura di Giorgio Calcagno (Rusconi, pagg. 182, lire 22.000), sia il caso di gridare alla scoperta. Ma un suo sapore genuino il libro ce l'ha.
Il marchese e tenente colonnello Paulucci delle Roncole, discendente da sette generazioni di militari piemontesi, fu al servizio di re Umberto I come aiutante di campo fra il 1892 e il 1896. E' stato suo figlio Enrico, pittore, oggi ottantacinquenne, a riesumare il diario di quei quattro anni una sorta di agenda commentata della vita di Corte tirandolo fuori dalla polvere di vecchi quaderni in origine non destinati alla pubblicazione. Grande prova di amor filiale, o piccolo tradimento? Sarebbe ozioso indugiare sul dilemma. Resta il fatto che un cortigiano cauto e fedele, come Paulucci padre, avrebbe usato ben altro tono se avesse pensato che le sue memorie erano destinate ad esser date in pasto ai lettori della Repubblica italiana. Ciò detto, a noi posteri non rimane che godere del piacere dell'indiscrezione. La quale consiste soprattutto in questo: al suo aiutante di campo, nobile e militare di antica stirpe, il secondo re d'Italia non appare né una figura austera e raffinata, né uno statista dotato di acume irresistibile. Dei Savoia, stando alla testimonianza di Paulucci, Umberto ha il coraggio istintivo, ma anche tracce vistose di grossolanità. Tanto per cominciare, è incolto: di letteratura ne mangia poco o addirittura la disprezza, e di arte non si intende. Parla spesso in dialetto, specie se deve esprimere giudizi su persone, e in questi casi adopera espressioni robuste, insolite in una Corte: nel suo eloquio, questo dignitario diventa un cujùn, quell' altro è una ciula (cioè un imbecille, detto un po' alla plebea), questo militare è un minchione e quell'uomo politico un baloss (un birbante) o un salop (sudicione). A tavola, il re non sa stare con bastante signorilità: Paulucci registra ad esempio, compunto, che col caffè fa ancora lo zuppino di pane. Non basta. Da alcuni cenni traspare, nei foglietti dell'aiutante di campo, l'attività svolta da Umberto I nel settore galante. La duchessa Litta, che fu sua amante per lunghi anni, viene citata di sfuggita: soltanto per notare il fatto che il sovrano nel 1892 prese il lutto per la morte di un figliolo della nobildonna che egli, forse con troppa ingenuità, credeva suo: e per registrare una visita del re alla duchessa, in un pomeriggio del 1894, a Monza. Ma certamente Umberto non si limitava a questo. Nel diario si parla di amori furtivi e occasionali, da lui consumati in un appartamentino della lunga manica del palazzo del Quirinale. Qui il re accoglie le ospiti, le spoglia; dopo... dorme 1/4 d'ora sulla spalla; poi si rifà il letto senza voler essere aiutato.
E i rapporti con la regina? A un cortigiano così intrinseco come il Paulucci non sfugge la loro freddezza. Quando vi è la Regina, Sua Maestà è di cattivissimo umore ed a tavola non parla affatto. Quanto a religione, il sovrano ne pratica quel tanto che gli viene imposto dal rispetto umano, e ancor di più si suppone dal regnare a Roma. In fondo al cuore, egli è tuttavia pretofobo. Con me, riferisce il marchese, ha detto che bisogna castrarli tutti.
Il forte di Umberto I era la tempra fisica che gli consentiva di cavalcare per molte ore, di presenziare a cerimonie interminabili, di partecipare a lunghe battute di caccia compiacendo gli astanti con le sue doti di meraviglioso tiratore. In questi exploit venatori, a Castelporziano, venivano abbattuti fino a settanta cinghiali: almeno come fauna, erano tempi ricchi. Alquanto demistificante è anche il trattamento che Paulucci riserva alla regina Margherita. L'eterno femminino regale che Giosuè Carducci celebrò in essa, risulta sproporzionato alla realtà. Vista da vicino, la regina appare al diarista bella quanto me la figuravo, ma più piccola e meno matronale. Per il resto, charmeuse e piacentissima, la consorte di Umberto affida il proprio mito mondano a una conversazione elegante e variata (posa a dotta), e più spregiudicata di quanto il suo rango non comporterebbe: non ha la nozione esatta di ciò che si può e di ciò che non si può dire. Molte altre signore non direbbero ciò che dice lei. Ha, tuttavia, un acuto spirito di osservazione, è molto donna, ama il lusso, sparla delle altre donne, mangia robustamente, usa cantare con virilità inni patriottici (qualche volta anche la Marsigliese, non ostante i suoi aspri sentimenti antifrancesi) e crede nella jettatura. A differenza di suo marito, che in fondo non è capace di far male ad una mosca, è formalista e risoluta fino alla violenza con i suoi supposti nemici. I giornalisti, per esempio, li metterebbe tutti in un mortaio e li pesterebbe. Fautrice della pena di morte, la invoca appena possibile. Non è, in questo, un buon esempio di magnanimità regale. Si mangia le unghie, fischia e si mette le dita nel naso.
A svolgere simili funzioni è il principe di Napoli, il futuro Vittorio Emanuele III, che ha, all' epoca, fra i 23 e i 27 anni. Assai timido e riservato, di apparenza meschina, mal vestito non ostante gli sforzi di sua madre, egli è, secondo Paulucci, una figura simpatica: peccato che l'esser corto di gambe gli tolga quell'aspetto marziale che sarebbe desiderabile in un principe ereditario. È colto, amantissimo di cose militari e di conversazione noiosa. La sua passione dominante è la numismatica. Fin qui nulla di nuovo. Ma lo sguardo del cortigiano si spinge più a fondo, e scruta certe abitudini che denotano nel giovane principe un vero Savoia: appassionato per le avventure fulminee, ogni quindici giorni cambia, e le signore di Napoli dicono che fan servizio per turno. La parola servizio trabocca di perfidia mondana, quasi si trattasse di una faticosa corvée.
Intorno alla famiglia reale si muove, nelle pagine di Paulucci, un limitato gruppo di uomini politici: due soprattutto, Zanardelli e Crispi. Il primo, considerato da Umberto e Margherita fisicamente sudicio e politicamente inaffidabile. Il secondo, stimato dal re per intelligenza e talento politico anche se, moralmente, poco meno che un mascalzone. Un porco necessario, come Sua Maestà lo definisce. Di Giolitti si parla poco e solo in rapporto allo scandalo della Banca Romana, di cui nelle pagine di Paulucci si avverte l'eco inquietante (così come si profila appena, nel diario, un altro evento non meno sconvolgente per il paese: il disastro di Adua). Un po' più spesso è nominato il senatore Paolo Boselli, confidente del re, che è ministro con Crispi nel 1893 e che, assai vecchio, sarà presidente del Consiglio durante la grande guerra. Fra i cortigiani, spicca Urbanino Rattazzi, nipote dell'ex presidente del Consiglio, che di Umberto è il consigliere principale fra il deus ex machina e l'anima nera finché Crispi, che lo detesta, non ingiungerà al re di disfarsene.
La storia grande, di cui i reali dovrebbero essere protagonisti, scrive Giorgio Calcagno nell'introduzione, entra solo lateralmente fra le pareti damascate del Quirinale, dove si affolla l'entourage di casa Savoia. Un entourage che è sottoposto a una vita di Corte fin troppo attiva, con continui spostamenti fra Roma, Monza e il Piemonte. Una certa instabilità è propria dei Capi di Stato di ogni tempo: non per nulla, di recente, “Le Monde” osservava con arguzia che Mitterrand sogna un week end a Parigi. Ma nel caso di Umberto e Margherita si trattava di qualcosa di più e di diverso: nella Capitale dell'Impero e del Papato essi erano rimasti una specie di ospiti. I sovrani, conferma Paulucci, non amano il soggiorno di Roma. Umberto rimaneva piemontese, si esprimeva in dialetto, preferiva circondarsi di piemontesi. Perfino certe ricorrenze patriottiche come il rito rievocativo del 20 settembre le considerava pagliacciate. Nonostante tutta la retorica nazionale che lo circondava, era un re prestato.
Il regicidio di Monza tre pistolettate esplose contro Umberto dall'anarchico Gaetano Bresci poneva su tutto questo un suggello tragico e amaro. Paulucci, non più aiutante di campo ma invitato dal governo ai funerali di Stato, annota in una postilla al diario, in data 29 luglio 1900: Povero re, così buono, così generoso, così amante del suo popolo... Sento dal più profondo del cuore la perdita che ha fatto l'Italia. La sincerità del marchese è fuori di dubbio. E tuttavia c' è da domandarsi se davvero l' Italia pianse, unanime, la morte di Umberto: risuonava ancora recente il rombo delle cannonate di Bava Beccaris. Tornando a Paulucci, c'era forse più verità nella maldicenza involontaria del diario segreto, che in questo postumo, cavalleresco omaggio di un uomo di Corte.


“la Repubblica”, 2 novembre 1986  

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