2.6.15

Salvatore Di Giacomo giornalista (Nello Ajello)

Salvatore Di Giacomo
È possibile leggere trecento pagine di Salvatore Di Giacomo in cui non si parla quasi mai del mare di Napoli, delle bellezze della città, del suo fascino sottile e delle sue cattivanti armonie? Chi voglia entrare in contatto con questo secondo Di Giacomo e con questa Napoli inattesa, così diversa dalla convenzione di maniera che accompagna il nome del suo maggiore poeta, ha a disposizione un'antologia dell'attività giornalistica che lo scrittore svolse in gioventù, fra il 1886 e il 1902, prima come corrispondente di un quotidiano della Capitale, il “Corriere di Roma”, poi come cronista ed elzevirista del “Corriere di Napoli”. Il volume s' intitola La vita a Napoli, ed è edito a cura di Arturo Fratta e Manuela Piancastelli per iniziativa dell' Istituto di Studi Filosofici (Bibliopolis, pagg. 337, lire 30.000).
Quella che qui emerge, sotto lo sguardo di un cronista petulante come lo stesso scrittore si definisce, è una città in penombra o al buio, piena di miasmi e di umidità. E' la Napoli dei bassi, delle tane, delle caverne asfittiche, con i suoi balconcini angusti e cadenti, le scalette in bilico, i gradoni consunti, i selciati sconnessi e lubrichi, solcati da sudici rigagnoli: l' enorme città notturna, nella quale qua e là dei fanali cercano di illuminare le strade e combattono con la grande oscurità che tenta di seppellirle. I personaggi di questa metropoli fine secolo, illusa e sconvolta dal Risanamento che vuole sventrarla, hanno poco di pittoresco a buon mercato: sono giovani pregiudicati (ammoniti è il termine tecnico in uso), facili allo sfregio e avvezzi al carcere, vecchi mendicanti rotti ad ogni vizio, prostitute sformate e mastodontiche (nei vicoli napoletani, annota Di Giacomo, l' estetica femminile, come in certi paesi d' Africa, si valuta a peso), capère (pettinatrici) vogliose e rassegnate, contadini affluiti in città per scontare debiti giudiziari e sconvolti da questa inopinata necessità che li mette in relazione con lo Stato.
Per Di Giacomo redattore di nera, gli spunti sono quelli offerti dalla casistica giudiziaria: un delitto di quartiere, uno scippo, qualche idillio che ha bisogno dell'oscurità e si conclude nel sangue, è il momentaneo annebbiamento d'un cervello, dovuto anch'esso a motivi di cronaca locale. Il lettore troverà infatti, tra gli eroi più espressivi del libro, un giovane acquaiuolo che impazzisce a causa della concorrenza professionale che gli fa l'Acquedotto del Serino, entrato in funzione nel maggio 1885. Ecco dunque lo scrittore intento ad esplorare tutti i quartieri bassi di quella che è ancora la città più popolosa e più caratteristica d'Italia: le aule sbrecciate e brulicanti di Castel Capuano (il palazzo di Giustizia), le corsie dell'ospedale degli Incurabili, il lurido pancone di marmo dell'obitorio, i dormitori dell'Albergo dei Poveri, le strade e i fondaci condannati a sparire per ordine del Comune.
Dal Porto alla Marina, dalla Vicaria al Pendino, dal Carmine a San Giovanni a Carbonara, dal Vasto a Porta Capuana, dagli Orefici al Borgo Sant' Antonio Abate, il cuore storico della città è il teatro di gesta umili e oscure di cui è protagonista quella folla ignorante, sterminata, negletta alla quale, a giudicare da pudichi accenni che affiorano tra le righe, Di Giacomo rivolge la sua disarmata simpatia. I colori adoperati dallo scrittore non appartengono alla ricca tavolozza che subito s'immagina quando si parla di Napoli. Comprendono invece tutte le tonalità del grigio, il più adatto a riprodurre la malinconica pace delle stradicciole napoletane, dove ogni cosa nasconde e cova un dolore.
Il dialetto, che domina nel parlato di queste scene digiacomiane, è sobrio e preciso; più moderno, comunque, della stessa prosa italiana dello scrittore, che appare invecchiata, specie in qualche reportage di cronaca bianca in cui si racconta della dignità senatoriale concessa da Umberto I al pittore Domenico Morelli, o della vita dei teatri napoletani prima dell' Unità, o di una visita (1894) fatta dall' autore allo scoglio di Marechiaro, già oggetto di una sua celeberrima canzone. Uomo di mondo o erudito, Di Giacomo può piacere agli intenditori o agli appassionati di remote cronache cultural-mondane; ma dove si rivela giornalista efficace è in quel suo modo di descrivere, senza carità di patria, la capitale del Sud, la quale aspetta, come aspettano tutte le città del Regno (si legge in una nota del 1898) delle vere e serie riforme, de' provvedimenti che assicurino a' suoi cinquecentomila abitanti una vita men disagiata, meno aspra, men combattuta dalle necessità più immediate. Che Di Giacomo sia stato un indagatore pacato e antiretorico della sua Napoli, non è noto a sufficienza. Molti privilegiano, nella sua produzione, il canto spiegato di Ariette e sunette alle dolenti atmosfere di 'O funneco verde o di A San Francisco.
Negli anni del neorealismo era anzi diventato consuetudine il contrapporre il superiore distacco di Di Giacomo, olimpico poeta alto-borghese, ai bardi della vera Napoli popolare, con alla testa Raffaele Viviani. La pensosa consapevolezza che anima questi pezzi di giornale servirà, per quel che conta, a confutare l'addebito. In più di un'occasione il realismo di questo Di Giacomo giornalista militante è tale da sorprendere. Lo vediamo difendere quel povero Francesco Mastriani, romanziere napoletano alquanto discusso per la crudezza con la quale descriveva gli ambienti cittadini, dall'accusa di essere un esageratore antipatriottico di certi costumi e di certi delitti. E ancora: chi riconoscerebbe la mano di Di Giacomo laddove si parla delle donne di Napoli da lui tante volte angelicate in versi memorabili come di esseri che spesso, per colpa degli uomini, perdono il tesoro della loro femminilità e il loro pudore e paiono allora più feroci, più triste dei lor uomini? Chi si aspetterebbe di sentire definire gli scugnizzi ragazzaglia plebea che non rispetta alcuna sventura peripatetica? E chi non resterebbe stupito, per la loro attualità, di fronte a certe denunzie, come quella in cui Di Giacomo descrive le abbandonate vie napoletane che raccolgono e serbano le immondizie fino a settimane, mentre il sindaco e gli assessori mostrano di non vedere questo continuo seppellimento dell' uomo sotto la spazzatura?
Il Di Giacomo vero è anche qui. Come documenta Arturo Fratta nel saggio Di Giacomo giornalista con cui si apre il volume, egli ebbe della sua città una visione poetica ma non edulcorata: che non è la stessa cosa. A ripensarci, i suoi articoli e le sue poesie migliori spesso si somigliano. Li accomuna un modo di guardare alle cose di questo mondo, e di Napoli in particolare (così scrive), con un sentimento commisto di studio e di pietà.


“la Repubblica”, 7 gennaio 1987  

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