1.7.15

Gladiatore (Luciano Canfora)

Kirk Douglas nei panni di Spartaco
Un crollo della «Casa dei Gladiatori» sarebbe stato salutato da loro medesimi con uno scatto di entusiasmo. Essi erano infatti schiavi due volte: schiavi come condizione giuridica e schiavi di quelle armi. Questo stato di cose ne faceva un gruppo a parte, nell’ambito della massa schiavile: una élite alla rovescia. L’uso ripetuto delle armi, di armi non loro ma dei loro datori di morte, li poneva nella condizione atroce di adoperare di continuo degli strumenti — quelle armi appunto - dai quali avrebbe potuto discendere la loro libertà, ma di potersene servire solo per darsi reciprocamente la morte a divertimento di ricchi e poveri di condizione libera assidui frequentatori di tali «giochi» demagógicamente efficacissimi. Di qui le loro due caratteristiche: temibi-lità per i padroni ed esasperazione estrema.
Non bastarono nel 73 a.C. le precauzioni correnti (non mettere assieme gladiatori della stessa etnia) per evitare l’insurrezione di Spartaco, che incominciò, appunto, con un assalto al deposito delle armi. Per tre anni Roma, già vincitrice di ogni genere di conflitto, tremò di fronte a un esercito di gladiatori, capeggiati da Spartaco: cioè di schiavi specializzati (grazie ai loro padroni!) nell’uso delle armi.
Per sconfìggerli, il Senato affidò poteri vastissimi al politico più ricco e più potente, Crasso. Il quale non solo terrorizzò con le decimazioni i suoi soldati ma - conseguita la vittoria - volle terrorizzare l’intero gruppo sociale degli schiavi, e i gladiatori soprattutto, crocefìggendone migliaia e lasciandone i corpi in esposizione lungo tutta la via Appia.
Proprio la peculiarità del «gladiatore» — schiavo del padrone e schiavo delle armi - fece sì che la stessa guerra contro di loro venisse percepita come qualcosa di più che una «guerra servile» quali quelle che avevano insanguinato la Sicilia alla fine del II secolo a.C. Anneo Floro, che scriveva vari secoli dopo, quando deve narrare la guerra contro gli insorti di Spartaco, esordisce dicendo: «Questa guerra non so con quale nome esattamente definirla»; concede che gli schiavi siano pur sempre «un’umanità di seconda classe», ma nel caso di Spartaco - osserva - ci fu una umiliazione in più: in quell’esercito ribelle, infatti, dei gladiatori addirittura avevano il comando, e gli schiavi che li seguivano pretendevano di agire come liberi.
Spartaco, il gladiatore-generale, fu per Roma un incubo di lunga durata. Cicerone, che aveva una trentina d’anni al tempo della rivolta, quando fu console, dieci anni dopo, e schiacciò con la forza i congiurati intorno a Catilina, chiamò Catilina, in Senato, «codesto gladiatore» (e il capo della congiura era un senatore appartenente a un’antica e nobile famiglia). E quando, venti anni più tardi, Cicerone si trovò di fronte al triumviro Antonio, rincarò la dose: «Non sei un Catilina, sei uno Spartaco!». Marx invece, nei primi mesi del 1861, forse irritato da quella che era parsa la capitolazione di Teano, scrivendo in privato a Engels commentava: «Spartaco fu un vero grande generale, non un Garibaldi!».

Corriere della sera, 8 novembre 2010
ora in Il presente come storia, Rizzoli, 2014

Nessun commento:

Posta un commento