14.10.15

Grecia antica. Cucina e sacrificio rituale all'origine del politico (Marcel Detienne)

Il numero 184/185 di “Aut aut” fu dedicato alle Nuove antichità, cioè all’evoluzione degli studi sull’antichità che un tempo si chiamava classica, e curato da Mario Vegetti. Comprendeva studi di Vernant, di Diego Lanzaa, Casagrande e Vecchio, Detienne, Burkert, Le Goff e altri. Il quotidiano “il manifesto” ne pubblicò in anteprima alcuni assaggi (dalla presentazione di Vegetti, dal saggio di Lanza, La paura di Edipo, e da quello di Detienne, Pratiche culinarie e spirito del sacrificio). Riprendo qui il brano di Detienne dedicato alle relazioni, assai strette nell'antichità, tra il sacrificale e il politico. (S.L.L.)

Bisognava essere molto disattenti ai dettagli del racconto di Dionisio divorato dai Titani per leggervi un rituale del mangiare crudo, quando la narrazione insiste sull’unione dell’arrostire e del bollire, così singolare in questo caso, poiché propone di arrostire il bollito, che fornisce la materia e l’enunciato di un «problema» della collezione aristotelica. Sono proprio queste indicazioni sul modo di cucinare che fanno riferimento nel mito ai gesti familiari e rituali del sacrificio cruento.
Lo spiedo e il calderone costituiscono, con il coltello, gli strumenti solidali di un modo di mangiare, che, nei racconti sull’Egitto, Erodoto mette al centro della differenza, dell’alterità in cui i Greci possono pensare sé stessi nei riguardi degli Egiziani. Mostrando ripugnanza a servirsi del coltello di un Greco, dei suoi spiedi o del suo calderone, perché essi sacrificano o si nutrono secondo altre regole, gli abitanti dell’Egitto, di cui Erodoto racconta, rinviano a coloro che ascoltavano le Storie un’immagine di loro stessi all’interno della quale il sacrificio greco, considerato per gli strumenti che vi sono impiegati, si trova delimitato dalla sua funzione alimentare. È questo un primo tratto che giustifica il posto centrale del sacrificio cruento nel pensiero sociale e religioso dei Greci: l’alimentazione carnea coincide completamente con la pratica sacrificale; ogni carne consumata è una vittima animale sgozzata ritualmente, e il macellaio che fa colare il sangue delle bestie porta lo stesso nome funzionale del sacrificatore posto accanto all’altare insanguinato.
Ma il sacrificio trae la sua importanza da un’altra funzione che rafforza la prima: la necessaria relazione con l’esercizio del rapporto sociale, a tutti i livelli del «politico», all’interno del sistema che i Greci chiamano «città». Nessun potere politico può esercitarsi senza pratica sacrificale. L’entrata in guerra, lo scontro col nemico, la conclusione di un trattato, i lavori di una commissione temporanea, l’apertura dell’assemblea, l’entrata in carica di magistrati sono altrettante attività che cominciano con un sacrificio seguito da un pasto. Tutti i cittadini che esercitano una magistratura offrono regolarmente sacrifici; e, fino a epoca tarda, una città come Atene mantiene in carica un Arconte-Re che ha, fra i suoi compiti principali, quello dell’amministrazione di tutti i sacrifici istituiti dagli antenati, dell’insieme cioè dei gesti rituali che garantiscono il funzionamento armonioso della società.
Due esempi consentono di dare la misura della solidarietà fra il politico e il sacrificale. Il primo viene dallo spazio carcerario che i cittadini attraversano temporaneamente quando aspettano la decisione di un tribunale o l’esecuzione di una pena. Tutti i prigionieri condividono il fuoco e la tavola: sacrificio e pasto confermano l’effimera comunità del gruppo incarcerato. Unico escluso dalla celebrazione di questi sacrifici alimentari è l’individuo tipicamente asociale, respinto dai compagni di detenzione, che si rifiutano di accendere il fuoco con lui e di fargli posto nella loro città in miniatura.
Invece il secondo esempio si orienta verso l’estensione dello spazio politico: per fondare una colonia, basta portare con sé dalla madrepatria uno spiedo e una pentola che contiene del fuoco. Il sacrificio, reso così possibile, non è solamente l’atto di fondazione di una nuova comunità politica generata dal fuoco della prima, ma occupa il posto privilegiato nelle relazioni filiali che una colonia intrattiene con la sua terra d’origine. Tucidide ci racconta che se i Corinzi odiavano la gente di Corcira, colonia di Corinto, è perché nelle cerimonie religiose, alla distribuzione delle carni delle vittime, i cittadini di Corcira non si curavano di cominciare da un Corinzio, a cui avrebbe dovuto spettare la parte d’onore. Del resto, quando due città stringono un patto di alleanza, la divisione del potere si fa secondo il tracciato della loro rispettiva partecipazione ai sacrifici. Così, per due città di diversa importanza, come Myania e Hypnia nella Locride occidentale, i loro contributi in giudici, in ambasciatori all’estero, in soldati, in magistrati della comunità sono fissati proporzionalmente ai sacrifìci, cioè in funzione del numero delle vittime fornite da ciascuno dei partner nelle cerimonie che li riuniscono per le attività di culto comuni. Al contrario, chi non ha il diritto di fare sacrifici, né a titolo individuale, né in nome di una città, sì vede spogliato dei diritti corrispondenti, sia che si tratti di prendere parte a concorsi prestigiosi, come quelli di Olimpia, che di partecipare ad assemblee che riuniscono attorno a un santuario diverse città. È una delle caratteristiche dello straniero quella dì essere tenuto lontano dagli altari e di non poter fare sacrifici senza la mediazione ufficiale di un cittadino che risponde di lui davanti agli dèi e alla comunità locale.


“il manifesto”, 24 settembre 1981

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