26.10.15

Il viaggio di Pigafetta. Quando il mondo era meraviglioso (Franco Marcoaldi)

Il busto di Antonio Pigafetta al Museo civico di Vicenza
Isole abitate da uomini e donne alti non più di un braccio, e con orecchie delle medesime dimensioni utilizzate una come giaciglio e l'altra come coperta. Altre isole, popolate stavolta solo da donne, ingravidate dal vento; se partoriscono un maschio lo sopprimono: allevano unicamente le femmine. Alberi enormi su cui vivono gli uccelli garuda, talmente imponenti e forti da riuscire a trasportare bufali ed elefanti.
Così come Marco Polo, accanto allo sbalordimento per le cose vere che aveva visto, si era abbandonato al racconto di ancor più sbalorditive aquile che cacciano diamanti e di pesci che si fanno pescare solo di Quaresima, due secoli dopo l'autore di un altro straordinario viaggio, Antonio Pigafetta, sembra rispettare la medesima tradizione che vuole l'Oriente terra leggendaria, ricca di prodigi. Come nei bestiari fantastici medioevali e nei Livres des Merveilles, i mostri, esseri stravaganti e mirabili, sono solo una prova ulteriore della prolificità della natura, parte integrante della sua occulta, arcana trama che definisce l'ordine mitico-simbolico del mondo.
Ma tra Marco Polo e Antonio Pigafetta sono trascorsi, per l' appunto, due secoli. E all' arcaica idea del viaggio, legata a una conoscenza che si sostiene nel mito, se ne va ora aggiungendo e sostituendo un'altra. La realtà del nuovo mondo può essere utilizzata; a questo intento va quindi finalizzata anche la sua osservazione. E Pigafetta si trova proprio nel bel mezzo del passaggio verso questa nuova prospettiva. Appartenente a una delle più illustri famiglie vicentine, di lui non si sa granché fino al 1519, anno in cui si trova in Spagna al seguito del nunzio apostolico Francesco Chiericati. È allora che matura l'idea di avventurarsi verso quanto di grande e meraviglioso l'Oceano offriva, per ricavarne insieme ad una personale soddisfazione, anche qualche rinomanza presso la posterità.
Detto e fatto. Ferdinando Magellano, che già nel 1505 aveva veleggiato lungo le coste d' Africa e doppiato il Capo di Buona Speranza, da tempo è convinto dell' esistenza di un passaggio a Sud dell'America meridionale; utile per aprire una nuova rotta verso le Molucche (le isole delle spezie), oltre ad essere, en passant, controprova della sfericità della terra. E visto che il suo progetto viene respinto dalla corte portoghese, offre i suoi servigi a Carlo V, il quale si dichiara subito pronto ad accettare la proposta. La spedizione salpa dal molo di Siviglia il 10 agosto 1519, e al fianco di Magellano c'è proprio Pigafetta, nel ruolo di criado, ossia di addetto al comandante.
Superato lo stretto di Gibilterra e raggiunte le coste brasiliane, la flotta abbandona finalmente il mondo conosciuto per avventurarsi nell'Oceano Pacifico: oltre quel capo vi era il mare aperto. Il capitano pianse di gioia e lo chiamò capo Deseado, perché tanto a lungo lo avevamo desiderato. Ora sarà la volta delle Filippine e successivamente delle Molucche; poi, una volta doppiato il capo di Buona Speranza, l'equipaggio rientrerà a Siviglia il 6 settembre 1522, dopo aver compiuto la circumnavigazione del mondo da levante a ponente.
In verità a rientrare sono pochi, pochissimi. Dei duecentosettanta uomini partiti tre anni prima, i sopravvissuti sono solo diciotto. Tra questi il nostro Pigafetta, che è scampato a ogni genere di pericolo. Allo scontro con gli indigeni dell'isola di Mactan in cui sono morti lo stesso Magellano e sette membri dell'equipaggio; ai ripetuti naufragi, alle terribili malattie e alla fame che hanno decimato i marinai. Quanto alla desiderata fama verso i posteri, gli sarà assicurata dalla relazione che su tutto questo va stendendo: Il primo viaggio intorno al mondo (Edizioni Associate), pubblicato ora per la prima volta in italiano moderno (nella traduzione di Michela Amendolea, arricchita da utili note) e con una densa introduzione di Nicola Bottiglieri.
Pigafetta dunque come figura di passaggio dal vecchio al nuovo mondo: se c'è infatti una cosa che balza subito all'occhio nella lettura di questo diario di viaggio è proprio la sua natura ibrida, in cui si mescolano debiti evidenti alla cultura medievale, osservazioni minuziose cui chiamano i doveri della committenza, stupore incontrollato di fronte al nuovo che si presenta. Come nelle relazioni coeve, anche qui ci si dibatte infatti, scrive Bottiglieri, tra l'urgenza di verità della nuova esperienza che violenta tutte le conoscenze precedenti e la fiducia nelle risorse della retorica per raccontare ciò che si vede. Nascono così testi narrativi che possiedono insieme la forza di un vivace realismo e i ricorsi più imprevisti ad un linguaggio iperbolico, simbolico, analogico o solo disperatamente fantasioso. Anche se nel caso di Pigafetta, va aggiunto, egli fa sempre precedere le sue annotazioni più immaginose da un diligente mi si dice che..., tali cose mi furono raccontate da....
E poi, comunque, questo è solo un aspetto del suo testo. Perché il diario deve rispondere anche ad altre esigenze. Deve fornire informazioni precise sulle rotte compiute, la conformazione delle coste, le abitudini delle popolazioni contattate e le merci di cui dispongono. Ecco allora l'autore assumere le vesti del naturalista che descrive scrupolosamente le piante che gli si parano dinanzi (lo zenzero, il garofano, il pepe), o quelle del linguista che compila veri e propri vocabolarietti relativi alle svariate lingue che via via ha potuto ascoltare. Dare nome a cose nuove può però, a volte, sortire effetti altrettanto fantasiosi quanto il render conto delle leggende del luogo. Un esempio che vale per tutti è la descrizione del guanaco, animale simile al lama: “Questo animale ha la testa e le orecchie grandi come quelle di una mula, il collo e il corpo da cammello, le gambe di un cervo, la coda di cavallo, e come quello nitrisce”.
Sono, del resto, le stesse tremende vicende patite a dare un ulteriore tocco allucinatorio al racconto: “Per tre mesi e venti giorni non toccammo cibo fresco. Mangiavamo a manciate il biscotto, che non poteva dirsi tale essendo polvere pullulante di vermi (...) Mangiavamo molto spesso anche la segatura delle assi. I topi si vendevano a mezzo ducato l'uno, ed erano rarissimi”. Realtà? Irrealtà? Visione? Leggenda? Tutto nel racconto del primo uomo che ha visto il mondo intero si mescola, nel desiderio febbrile di fissare sulla carta quanto il suo occhio va vedendo. Quanto poi al problema della veridicità delle sue parole, la cosa è presto risolta. Semplicemente, non è possibile tradire la fiducia di una persona come quella cui la relazione è dedicata, il Gran Maestro di Rodi Filippo Villiers de l'Isle Adam: “Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, vi sono molti curiosi ai quali non basta conoscere e ascoltare le cose grandi e meravigliose che Iddio mi ha concesso di vedere e soffrire durante la mia lunga e pericolosa navigazione che qui ho descritto, ma vogliono anche sapere con quali mezzi, in che modo e per quali vie mi sono cimentato nell' impresa; i dovuti chiarimenti all'inizio, comunque, mi assicureranno la loro fede fino alla fine della narrazione”.


“la Repubblica”,18 agosto 1989

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