3.12.15

I figli di Confindustria, ovvero il capitalismo immaginario (S.L.L.)


Più di un commentatore, dopo l'implosione dell'Urss e nel marasma di Tangentopoli, definì “sovietica” la Costituzione italiana del 48: trovava intollerabile una Repubblica “fondata sul lavoro”, formula giudicata – con qualche ragione – “cattocomunista”, e del tutto insufficiente il richiamo costituzionale alla libera iniziativa, mentre si sarebbe dovuta sottolineare la “centralità dell'impresa”. L'offensiva ideologica neoliberista frenò sulla Costituzione, viste le difficoltà procedurali e politiche di modifica, mentre affermazioni più o meno enfatiche sul ruolo dell'impresa trovavano posto negli Statuti regionali, ma essa, inarrestabile nonostante la crisi, è proseguita fino ai giorni nostri. Nel senso comune (che non sempre coincide col buon senso) la sua vittoria pare indiscutibile.
Così gli imprenditori capitalisti hanno assunto quel ruolo di “classe generale” che il pensiero marxista attribuiva al proletariato industriale. Se, in quella visione, la classe operaia, liberando se stessa dallo sfruttamento, liberava le forze produttive e l'umanità, nella vulgata odierna è il capitalista che, perseguendo i suoi fini di profitto, “crea ricchezza” utile al progresso generale. È l'impresa pertanto che dev'essere liberata dalle catene, perfino nei suoi “spiriti animali”, se non si vuol soffocare lo sviluppo.
È inevitabile che un racconto siffatto colonizzi gli spazi dell'immaginazione sociale, fino a diventare mito e non stupiscono perciò, all'interno di un Festival dell'Immaginario come quello che si è svolto a Perugia ai primi di novembre, luoghi e momenti deputati alla celebrazione dell'impresa: politicanti che premiano aspiranti imprenditori, la città che si rigenera grazie all'industria culturale e all'impresa creativa e così via.
Uno degli eventi cui il team del festival ha collaborato portava il timbro di Confindustria Umbria, inserito com'era nella “Settimana della cultura d'impresa”, e si è svolto la sera del 6 al teatro Cucinelli di Solomeo: uno spettacolo dal titolo L'impresa va in scena. La voce degli imprenditori. Si leggeva nel programma che alcuni imprenditori avrebbero vestito “il ruolo di attori, accompagnati nel palcoscenico dai loro figli”, e il pubblico era composto in gran parte dalle famiglie di industriali e manager umbri; ma chi sperava in una recita in costume è rimasto deluso e lo spettacolo non aveva il livello da filodrammatica che si poteva temere.
Dopo i predicozzi di Cesaretti e della Colaiacovo, rispettivamente presidente e responsabile cultura di Confindustria, è toccato al padrone di casa Cucinelli, che, ribadite le sue note opinioni sulla magnificenza rinascimentale dei tempi che stiamo vivendo, ha raccontato la trama di un romanzo dell'ultimo Zola, Lavoro, dall'incompiuto ciclo dei Quattro vangeli, e ne ha letto alcune pagine. In esse il protagonista, un industriale filantropo seguace di Fourier, guarda soddisfatto l'isola felice delle sue fabbriche e dei paesi che le circondano, in cui si è realizzata l'alleanza tra capitale, lavoro e intelligenza. Questa utopia, in cui probabilmente Cucinelli intende iscrivere la sua esperienza di “buon padrone”, ha fatto da cornice allo spettacolo vero e proprio, nel quale il maestro Ciammarughi, con il chitarrista D'Oronzo, eseguiva al piano la sua coinvolgente musica, mentre su uno schermo, prevalentemente in bianco e nero, si proiettavano immagini da film.
Si cominciava dal Lumière dell'Uscita degli operai dagli stabilimenti e dal Viaggio sulla Luna di Méliés per arrivare all'effettivo sbarco umano sulla luna e oltre: immagini di fabbricazioni, tecnologie, treni, gallerie e grandi masse in movimento, con un ruolo centrale riservato a Tempi moderni, il capolavoro di Chaplin. Di quando in quando il volume della musica si abbassava e i figli di Confindustria, in due o in tre, leggevano a turno. Immagino che la performance sia stata preparata con cura meticolosa, anche nella dizione, ma addirittura sorprendente è risultata la scelta dei testi: il bellissimo Arturo ed Elide di Calvino, brani dai Tre operai di Bernari, dal Memoriale di Volponi, dalla Nuvola di smog di Calvino e perfino da un libro di Guerrazzi, uno degli scrittori operai degli anni 70. Il tema comune era la condizione del lavoro, l'alienazione e la sofferenza operaia.
I vincitori della lotta di classe prendono per i fondelli gli sconfitti? Non credo. La tardiva autocritica implica la promessa di rimediare ai danni, ma nello stesso tempo contiene una aspirazione totalitaria, da “classe generale”. Sottomessi il lavoro e l'intelligenza alla logica del profitto, il capitale si presume in grado di fare da sé, offrendo agli operai la libertà e la dignità che i loro partiti e sindacati non hanno saputo garantire. “Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà” - cantava l'Inno dei lavoratori, affermandone l'autonomia rispetto al paternalismo filantropico dei capitalisti dell'epoca. È l'autonomia che si vuole cancellare ed è proprio questo il punto che differenzia, per esempio, il progetto comunitario di Adriano Olivetti dall'esperienza di Cucinelli. Olivetti dava importanza e peso al sindacato operaio, anche se lo preferiva aziendale, mentre il mecenate di Solomeo non vuole sindacati tra i piedi dentro la fabbrica. Ci pensa lui, agli operai.
Mi torna in mente la vicenda di Giontella, l'industriale ex podestà fascista che a Bastia organizzava il tempo libero delle tabacchine e le assisteva nel bisogno, fino a pagare l'intervento chirurgico in America per il figlio malato, accompagnandolo nel viaggio. Il mito del “buon padrone” cadde nel fango quando si scoprì che nelle schede dei dipendenti del tabacchificio non erano state applicate per anni le marchette della pensione; ma non mancò chi mise in circolazione la favola di un collaboratore infedele e ladro, autore di un misfatto di cui Giontella era vittima come le "sue" tabacchine.  
Basta comunque guardare alla platea del teatro Cucinelli per capire quanto illusorio e mistificante sia il progetto di un capitalismo umanitario. Si potrà fare il conto di quanti associati di Confindustria, presenti o assenti, hanno delocalizzato, dismesso, precarizzato per ridurre i salari, osservare con quanta cura hanno agito verso gli operai, l'ambiente, il territorio in questi anni di crisi per verificare quanto distante sia la realtà effettuale del capitalismo dalla immaginazione di essa.

micropolis, 27 novembre 2015

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