26.2.16

Il “fantastico” e i libri delle meraviglie (Italo Calvino)

Comincerò con una citazione: "Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perchè gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant' è: con tutte la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l' uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro".
Questa si direbbe una perfetta situazione di racconto fantastico. Invece è Leopardi: il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Federico Ruysch era stato uno scienziato olandese, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, famoso in tutta Europa perché inventore d' un sistema di mummificazione dei cavaderi che dava loro l'apparenza della vita. Leopardi, che aveva letto un Elogio di Ruysch scritto da Fontenelle, immagina che l'olandese sorprenda una notte i morti che cantano e conversano. (E qui Leopardi s'appoggia anche su una tradizione classica: le meraviglie che accompagnano il compiersi dell' annus magnus o ciclo cosmico, di cui parla Cicerone nel De natura deorum). Dato che i morti hanno per un quarto d' ora la facoltà di parlare, Ruysch li interroga sulle sensazioni che hanno provato al momento del trapasso: dolore? paura? Conformemente alla filosofia di Leopardi, le mummie spiegano che la morte è la cessazione d' ogni facoltà di sentire, dunque d' ogni dolore, dunque è ciò che si può definire un piacere. Eppure, tutti i morti dicono che fino all' ultimo hanno continuato a sperare di poter vivere ancora, non fosse che per un' ora o due. Ruysch chiede: "Ma come, vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo? Dite: come conosceste d' essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a letto". Così si chiude il dialogo.
La data in cui Leopardi lo scrisse ci rimanda agli anni in cui il romanticismo tedesco stava diffondendo in Europa il gusto per le storie in cui la paura del macabro e del soprannaturale si colora d' ironia. E' improbabile che questa voga avesse raggiunto Leopardi, che non amava i romantici e non leggeva romanzi o racconti. Pure, il dialogo di Ruysch e le mummie annuncia alcuni dei temi che torneranno più spesso nella narrativa fantastica del secolo XIX: il tema dello scienziato che sfida le leggi della natura finché una notte la sua audacia non viene messa a dura prova; il tema del mito antico che si rivela veritiero; il tema del mondo soprannaturale che s'apre per un fugace momento e subito si richiude. Tutto il resto è tipicamente leopardiano, dunque orientato in una direzione ben diversa: il rifiuto d' ogni illusione terrena o ultraterrena, la realtà della vita vista come dolore senza riscatto.
Ma Leopardi non sarebbe Leopardi senza la leggerezza dell'ironia sempre presente, senza la constatazione che la speranza, anche se vana, è l'unico momento positivo della vita umana, e che l'unico conforto si trova nei tesori dell'immaginazione e nella dolcezza del linguaggio poetico. Caratteristiche queste che accomunano Leopardi allo spirito di quei suoi contemporanei che fondarono la letteratura fantastica: Chamisso, Hoffmann, Arnim, Eichendorff. E se pensiamo che il pensiero cui attingevano i narratori fantastici del romanticismo era la nascente filosofia idealistica tedesca, e che questa aveva come sfondo la crisi della fiducia di Rousseau nella bontà della natura e la crisi della fiducia di Voltaire nel progresso della civiltà, vediamo che Leopardi nasce dalla stessa situazione, anche se la sua risposta è diversa.
C'è dunque un nodo storico e filosofico, comune ai romantici e all' antiromantico Leopardi, che sta alle origini del fantastico moderno, ed è il nodo che allaccia e insieme contrappone il racconto fantastico quale nasce in Germania agli inizi del secolo XIX al suo predecessore diretto: il "conte philosophique" del Secolo dei Lumi. Come il racconto filosofico era stato l'espressione paradossale della Ragione illuminista, così il racconto fantastico nasce come sogno a occhi aperti dell'idealismo filosofico, con la dichiarata intenzione di rappresentare la realtà del mondo interiore, soggettivo, dando a esso una dignità pari o maggiore a quella del mondo dell' oggettività e dei sensi. Racconto filosofico anch'esso, dunque, e tale resterà fino a oggi, pur attraverso tutti i cambiamenti del paesaggio intellettuale. Mi sono soffermato su questo punto per cercare di capire come mai nella letteratura italiana l'elemento fantastico viene meno (o comunque resta un elemento marginale, senza esempi di grande rilievo) proprio nell'epoca in cui trionfa nelle altre letterature europee. Il fantastico "nero" s' impone nella letteratura tedesca, francese, inglese, russa, ma in Italia rimane un elemento marginale, non caratterizzato da opere di rilievo; per esempio l' Italia non ha avuto una rivisitazione romantica del mondo leggendario popolare, quale quella che la Spagna ha avuto con Gustavo Adolfo Bècquer. E mi sono soffermato soprattutto su Leopardi perché in questo grande lirico e prosatore, il più nutrito di cultura classica e forse per questo il più moderno allora e oggi, il Leopardi che disprezzava tutti i romanzi tranne il Don Quijote, esiste un nucleo fantastico che intravediamo in alcuni dei suoi dialoghi, o in quel frammento poetico che descrive un sogno in cui la luna si stacca dal cielo e si posa su un prato. Lo stile è quello degli idilli greci di Teocrito, ma l'invenzione leopardiana - quella luna che brucia l'erba del prato, e la nicchia vuota che rimane in cielo - è d'una suggestione visiva straordinaria. È quello il vero seme da cui poteva nascere il fantastico italiano. Perché il fantastico, contrariamente a quel che si può credere, richiede mente lucida, controllo della ragione sull'ispirazione istintiva o inconscia, disciplina stilistica; richiede di saper nello stesso tempo distinguere e mescolare finzione e verità, gioco e spavento, fascinazione e distacco, cioè leggere il mondo su molteplici livelli e in molteplici linguaggi simultaneamente. Forse occorre risalire più lontano nella storia della letteratura e vedere come già durante il secolo XVIII erano stati esplorati tutti i continenti dell' immaginario, dalle fèeries della Corte del Re Sole alla traduzione di Galland delle Mille e una notte, alla "gothic novel" inglese. In Italia le fiabe teatrali di Carlo Gozzi non segnano un inizio, ma una fine: la fine della tradizione del meraviglioso che era stata per secoli la linfa più generosa della letteratura italiana.
Adotto qui la distinzione propria della critica francese tra il "meraviglioso", che sarebbe quello dei "contes de fèes" e delle Mille e una notte, e il "fantastico", che implica una dimensione interiore, un dubbio sul vedere e sul credere. Ma non sempre la distinzione è possibile, e in Italia il termine "fantastico" ha un significato molto più esteso, che include il meraviglioso, il favoloso, il mitologico. Così i poemi cavallereschi rivisitati dai poeti del Rinascimento: Pulci, Boiardo, Ariosto, Tasso, e il poema mitologico barocco del Cavalier Marino. Così i novellieri che hanno dato forma letteraria alla fiaba popolare: Masuccio Salernitano, Straparola, e il barocco napoletano Giambattista Basile; così il Bandello, nel cui sterminato repertorio di storie a effetto Shakespeare trovò spunto per molti dei suoi drammi.
Possiamo dire che il meraviglioso è sempre stato presente nella tradizione italiana: il libro dell' antichità latina la cui lettura non si è mai interrotta, neanche durante il Medio Evo, è Le metamorfosi di Ovidio. Questa corrente si direbbe che si fermi nel secolo XVIII, e che tanto il classicismo quanto il romanticismo italiani nascano troppo preoccupati di dimostrarsi seri e responsabili per abbandonarsi alla fantasia.
Quale può essere stato l'ostacolo? Una eccessiva devozione alla ragione? Al contrario: forse ce n'era troppo poca. La letteratura fantastica si sostiene sempre - o quasi - su un disegno razionale, una costruzione di idee, un pensiero portato alle ultime conseguenze seguendo la sua logica interna. Oppure l'ostacolo sarà stato una preoccupazione morale troppo viva? No, per chi esplora la propria coscienza il solo mezzo d'espressione è quello dei simboli; ed è nella dimensione simbolica che vive la letteratura fantastica. Il simbolo come immagine d' una realtà interiore non altrimenti definibile: l'ombra perduta del Peter Schlemil di Chamisso in quello che è forse il più bel racconto fantastico che sia mai stato scritto, o le miniere di Falun nello stupendo racconto di Hoffmann, che fu poi rielaborato per il teatro da Hofmannsthal.
Potrei citare un solo libro italiano dell'Ottocento che possa figurare accanto alle più grandi riuscite del fantastico "nero" internazionale: "Allora si affacciò alla finestra una bella bambina coi capelli turchini e il viso bianco come un' immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall' altro mondo: "In questa casa non c' è nessuno. Sono tutti morti." "Aprimi almeno tu!" "Sono morta anch' io." "Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?" "Aspetto la bara che venga a portarmi via"". Si tratta d' uno dei libri più famosi della letteratura italiana, un libro famoso in tutto il mondo, forse il libro che più ha influenzato il mio mondo immaginario e il mio stile, perchè - e la stessa cosa credo possano dire la maggior parte dei miei compatrioti - è il primo libro che ho letto (anzi è il libro che già conoscevo capitolo per capitolo prima d' imparare a leggere): Pinocchio.


“la Repubblica”, 30 settembre 1984

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