12.3.16

Ingrao. La poesia vicina alla politica (Walter Cremonte)

La cosa più importante accaduta nella sinistra in questi ultimi mesi è il dibattito sulla non violenza, iniziato con la presa di posizione di Bertinotti al convegno sulle foibe dello scorso dicembre e proseguito poi con molti notevoli interventi su “Liberazione” e su “Il manifesto”. In questo suo discorso veneziano Bertinotti rinunciava alla frase del vecchio Brecht: “Noi che abbiamo voluto il mondo della gentilezza non abbiamo potuto essere gentili”; quindi: per approntare il mondo alla gentilezza occorre essere gentili - qui, ora, da subito. Ed è vero, non sembra possibile prefigurare un mondo più gentile a furia di brutalità, anche se non è per niente facile liberarsi di quell’altra frase, certo meno poetica: chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Ma questa, probabilmente, è una verità menzognera, come tutta la presunta saggezza secolare che ci tiene inchiodati al nostro limite.
Bisognerebbe saper dire: né pecora né lupo, ma umani - per liberare l’uomo. Qui però si entra in un campo difficile (cos’è essere umani?), in cui ci aiuta forse a districarci, per capire la materia di cui siamo fatti, la lettura dei nostri grandi poeti (Montale, Caproni, Luzi, ...); e la lettura, accanto ad essi, della poesia di Pietro Ingrao. Dico propria della sua poesia, saltando qui d’un balzo perfino il suo intervento nel dibattito che si diceva, e che pure ne segna il punto più alto (per spiegare la contraddizione in cui è indotto - in cui tutti noi siamo indotti - ricorda il ritratto di Che Guevara della moglie Laura, “persona mite” ...). Questo perché, di fronte ai grandi temi che in maniera anche drammatica ci attraversano, abbiamo più bisogno, credo, di andare alla radice del messaggio che ci viene dai nostri maestri (dai “compagni maggiori”): all’espressione più radicale, alla (baudelairiana) “anima messa a nudo”, che è la poesia; anche la poesia controllatissima, severa, classica di un poeta come Ingrao che è lontanissimo dall’effusione lirica e da ogni compiacimento dello spargimento di sé. A patto tuttavia che non si pensi che questo Ingrao sia altro dalla persona che più conosciamo: il poeta è la stessa cosa dell’autore di Masse e potere, solo ad un livello diverso, ad un livello di più profonda radicalità. E tanto meno si pensi (ma questo ormai è evidente) alla sua poosia come ad un tardivo espediente consolatorio o,peggio ancora, ad uno snobistico divertissement - il riposo dell’uomo pubblico.
È la poesia di Ingrao a cancellare, fin da una prima lettura, queste riserve: una poesia difficile, mai tentata dal minimalismo (un testo si apre con “Tutto:"), la cui comprensione richiede l’uso di forti strumenti analitici. E una poesia tutta nel segno della contraddizione irrisolta (“Pensammo una torre. / Scavammo nella polvere.”), quella contraddizione che ce ne fa cogliere il nesso profondo con l’esperienza civile, politica: la progettualità perfino eroica di generazioni di combattenti e la consapevolezza (mai doma, mai arresa) della sconfitta. Veramente qui ci persuadiamo che, come scrive il poeta Cesare Viviani nella nota di copertina del primo libro poetico di Ingrao, “la politica è vicina alla poesia” - e viceversa. Ma lo è in un modo speciale, che si intende solo se si sa rinunciare a un’idea “muscolosa e ottimistica” della politica, come direbbe Fortini. Il quale Fortini poi, rintracciando le “verità etico-politiche” della poesia di Ingrao e sue proprie, scrive: “la dimensione tragica della storia, l’ambiguità di ogni scelta morale, la certezza che i vinti sono illuminati da una luce che abbandona i vincitori, il significato del dolore, della malattia, della morte” (in Conversazione su Il dubbio dei vincitori, ed. Cadmo, 2002; ma la “conversazione” tra Olivetti, Fortini, Scalia e lo stesso Ingrao si è svolta nel 1987). E mi preme qui sottolineare un punto, che forse è quello che resta più forte dopo la lettura di Ingrao: la luce che illumina i vinti e che abbandona i vincitori. Penso che quella luce possa essere la poesia. Ingrao intitola una delle due sezioni che compongono il suo primo libro poetico Le sillabe: sillabica è la pronuncia faticosa, insicura, della voce dei vinti, degli oppressi, degli ultimi (“muti”, “senza lingua”); ma sillabica è anche l’unità metrica della lingua poetica italiana, il ritmo della poesia, che sa parlare anche nei tempi dell’afasia (si pensi al montaliano “sì qualche storta sillaba”). Allora la poesia è una forma di risarcimento, un dire al posto di chi non può dire: di nuovo ritroviamo una vicinanza di politica e di poesia.
I libri di poesia di Ingrao, fino ad ora, sono tre: Il dubbio dei vincitori, Mondatori, 1986; L’alta febbre del fare, Mondatori, 1994; Variazioni serali, Il Saggiatore, 2000. Ma attenzione: il primo, decisivo, libro è ora introvabile in libreria, è fuori catalogo, e a Perugia lo si può trovare solo alla biblioteca della Facoltà di Lettere (nemmeno alla Biblioteca Augusta!). Questo fatto induce a tristi pensieri sul destino dei libri di poesia e mi ricorda un episodio piuttosto deprimente: qualche anno fa (era il cinquantesimo della liberazione di Auschwitz) avevo pensato di adottare in una mia classe, accanto a Dante, L’istruttoria di Peter Weiss, come attualizzazione novecentesca, storica e concreta, dell’inferno. Non potei farlo, perché quel libro (edito da Einaudi nel 1965), ormai fuori catalogo, non era in nessun modo reperibile. Non ci si deve tuttavia arrendere all’azzeramento della comunicazione e della memoria: “Da lontano / ci mandiamo segni”, direbbe Ingrao.


“micropolis”, marzo 2004

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