31.5.16

Riflessioni alla luce della crisi brasiliana (Raúl Zibechi)

Rio de Janeiro, Praja de Ipanema
Le classi dominanti del mondo hanno deciso, in tempi relativamente recenti, di sferrare una guerra contro i popoli, al fine di rimanere al potere in un periodo di acuti cambiamenti.
Hanno deciso che, per scatenare questa guerra, le democrazie sono un ostacolo e hanno la necessità, qualunque sia il modo, di neutralizzarle, metterle al loro servizio, così come i governanti eletti. Su questo punto non ammettono il minimo impedimento.
Per ragionare sul pensiero strategico di quelli che stanno in alto bisogna mettersi al loro posto, visto che non sono soliti formularlo in maniera aperta. Dobbiamo chiederci cosa faremmo se facessimo parte dell’uno per cento che si è assicurato il dominio.
La prima risposta è che nel mondo ci sono troppe persone e che il pianeta non ammette tanta popolazione se tutti volessero vivere non già come quell’uno per cento, ma, per esempio, con un livello di reddito superiore del 20-30 per cento. Il mondo concepito per il dominio dell’uno per cento tollera a malapena la metà dell’attuale popolazione del pianeta. Il resto è di troppo e non serve più neanche per produrre plusvalore, perché il sistema accumula rubando. La questione è: quali politiche derivano da questa constatazione.
La seconda risposta è che l’uno per cento ha abbandonato lo stato sociale (o surrogati simili come quelli che abbiamo avuto in America Latina) e non rientra nei suoi piani farlo rivivere. Pertanto, le democrazie che conosciamo non sono più né necessarie né utili per il tipo di sistemi politici funzionali all’accumulazione per mezzo di esproprio/spoliazione/furto che stiamo subendo. Il loro posto viene occupato dalla crescente militarizzazione delle zone povere, come le periferie urbane, e da tutti quegli spazi che le grandi multinazionali colonizzano, cacciando intere popolazioni.
Naturalmente l’uno per cento giura fedeltà alla democrazia e a i suoi valori, perché ha bisogno di illudere una buona parte de los de abajo sull’importanza del voto e del sistema dei partiti. Tuttavia, esige innanzitutto un’accolita di persone che agiscano come rappresentanti e che fungano da intermediari tra loro e il resto della popolazione. Come sottolinea Immanuel Wallerstein, il dominio è stabile quando si basa su tre parti ed è instabile quando ce ne sono solo due. I settori intermedi sono elemento chiave, per il sistema: dalle classi medie fino al mondo accademico, passando per i politici e per i grandi mezzi di comunicazione.
Di conseguenza, occupare i gradini più alti dell’apparato statale presuppone la gestione dell’attuale modello di accumulazione/guerra contro i popoli. Per inciso, conviene ricordare che questo è uno dei principali insegnamenti che i governi progressisti ci lasciano: dato l’attuale rapporto di forze su scala mondiale, i governi si sono limitati a gestire l’estrattivismo, deviando (nel migliore dei casi) risorse verso i settori popolari senza intaccare le basi del modello stesso.
Il terzo grande obiettivo dell’uno per cento è quello di neutralizzare ogni movimento di resistenza che gli si opponga, dai partiti di sinistra e progressisti fino ai movimenti antisistemici. Anche se nei periodi precedenti dominava la contrattazione con i sindacati e si tollerava che le sinistre socialdemocratiche salissero al governo, nella nuova fase in cui viviamo [a quelli dell’uno per cento] pare necessario serrare le file ed evitare deviazioni dai suoi piani e progetti di tenere a bada quelli de abajo.
Quando arrivano al governo partiti o persone che – per il loro percorso o per gli obiettivi dichiarati – potrebbero uscire dal copione estrattivista, [quelli dell’uno per cento] creano le condizioni per neutralizzarli. Questo avviene in due modi. Uno è l’addomesticamento, mediante l’inserimento dei nuovi governanti nelle élites, cosa che non è molto difficile conseguire, visto che il sistema ha molti modi per cooptare/comprare quelli che gli oppongono resistenza. L’altro è la destituzione dei governanti, possibilmente senza far ricorso ai classici golpe, bensì ricorrendo a forme legali, quantunque illegittime.
In questi giorni, in Brasile, possiamo vedere una combinazione di entrambe le strategie. Prima si è addomesticato, poi si destituisce. Il PT ha governato per dodici anni, alleato con le multinazionali brasiliane impegnate in attività di super sfruttamento (come le grandi imprese di costruzione), che hanno finanziato le sue campagne elettorali, i viaggi dei suoi dirigenti e numerose prebende.
Verso i movimenti vengono applicate politiche sociali che cercano di rabbonire los de abajo con piccoli trasferimenti di denaro che incidono sulla povertà, ma non sulla disuguaglianza, ed evitano la realizzazione di riforme strutturali. Il PT ha distribuito ai contadini meno terre di quanto ha fatto il governo neoliberale di Fernando Henrique Cardoso perché ha dato priorità all’alleanza con l’agrobusiness che ora occupa il Ministero dell’Agricoltura.
Quali dovrebbero essere le strategie dei movimenti antisistemici, vista questa situazione e alla luce delle esperienze degli ultimi 15 anni?
In primo luogo, pensare a lungo termine. Le poche forze che abbiamo devono essere utilizzate in senso strategico, non per vantaggi momentanei e immediati. Se riteniamo che stiamo subendo una guerra contro los abajos, dobbiamo pensare a come logorare il sistema ed evitare che esso ci logori. È evidente che il ciclo progressista,ha indebolito i movimenti.
In secondo luogo, essere convinti che la peggiore strada che possiamo intraprendere è quella di gestire le difficoltà del sistema. Non ho alcun dubbio che a un certo punto bisognerà puntare allo Stato (per conquistarlo o distruggerlo, a seconda delle diverse posizioni esistenti in mezzo a noi), ma fintanto che il sistema è forte, il governo è sinonimo di gestione dell’accumulazione per esproprio o guerra contro i popoli.
Credo che l’urgenza strategica maggiore sia quella di comprendere il modello estrattivo per spoliazione. Su questo abbiamo commesso grossi errori (iniziando da chi scrive), poiché abbiamo evidenziato solo i problemi ambientali derivanti e lo abbiamo affrontato a partire dall’economia e non dalla politica. Se davvero siamo di fronte a una guerra, gestire alcuni aspetti del campo di concentramento non è la strada migliore, perché deve essere distrutto, giacché non è riformabile.

Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Reflexiones al hilo de la crisis brasileña
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo


da “Sinistrainrete”, 23 maggio 2016

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