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“Nuotare e godere nel forse”. Intervista a Laura Betti (Roberto Chiesi)

Roma, 5 giugno 2004
Se André Breton ha scritto di lei, tra l’altro, che è “una leonessa che si oppone alla miseria specifica del nostro tempo rispondendogli con la provocazione e la sfida”, le più belle parole su Laura Betti appartengono probabilmente a Pier Paolo Pasolini: “A trionfare è una ragazza bionda, (…), infante, asessuale e provocante; che è evidentemente fuori dal gioco letterario e politico (è un’attrice, mettiamo), e quindi interviene in quel gioco con la più sfrenata libertà, una libertà addirittura blasfema, scatologica, offensiva, ma intelligente”.
Pasolini l’ha assimilata al suo universo ritraendola come personaggio in alcune sceneggiature non realizzate, scrivendo canzoni e teatro per lei, dirigendola in cinque film e nell’unica sua regia scenica, Orgia. Ma esiste anche una Laura Betti attrice di Fellini, Bellocchio, Téchiné, Taviani, Jancsó, Bertolucci, Amelio, Scola, Straub-Huillet, Breillat. Se la sua lunga, generosa e talvolta impetuosa battaglia per difendere l’opera e la figura di Pasolini in Italia e diffonderle nel mondo, deve ancora essere conosciuta in tutta la sua complessità, il talento espressionista e ironico, aggressivo e dolce, di Laura Betti è visibile nelle immagini che mostrano le sue splendide interpretazioni dei testi pasoliniani come nel ventaglio di maschere che ha arricchito di sfumature segrete e della forza viscerale delle contraddizioni.

Gli attori dotati di una forte personalità creano quasi inevitabilmente l’identità di un personaggio che viene identificato con il loro io reale e spesso si sovrappone prepotentemente ad ogni ruolo che interpretano. Quali rapporti hai con il “personaggio Laura Betti”, come lo vedi dall’esterno? Ti corrisponde, è una maschera, oppure è una figura che t’infastidisce?
M’infastidisce. Adesso m’infastidisce. Perché è una pura creazione di me stessa. È mia. Allora l’avevo inventato per non dare al pubblico, alla gente, alla stampa, niente di mio. Avevo deciso io stessa questa tattica (sorride) e fu una decisione molto imprudente perché si finisce per pagarla, in seguito. Infatti sono rimasta condannata da certe etichette e luoghi comuni che mi rompono l’anima e mi fanno venire i nervi, e molto. Certe etichette che non mi appartengono, però, ormai sono entrate a far parte del mio personaggio.
Me le sento tirare in faccia e ogni tanto mi chiedo: “Ma questo che cosa significa?”. Ed è successo proprio da parte di persone che dovrebbero essere i miei comuni amici, ma non sono poi così amici fino in fondo... Chi lo sapeva molto bene questo, era Pier Paolo. L’aveva capito bene. Infatti l’ha scritto in quel testo per “Vogue”, Necrologio su una certa Laura Betti. Io dicevo sempre che non capiva un cazzo, quindi... Questa è una cosa che adesso mi pesa moltissimo, anche perché a volte vorrei veramente uscirne fuori. Ma il marchio si è talmente cristallizzato...

Come la fama di aggressività...
L’aggressività, sì anche... ma io, per la verità, per chi mi conosce davvero profondamente, realmente, sono molto dolce. Scatto spesso, sì, anche con violenza, ma, in fin dei conti, non ho delle aggressività reali, è tutto inventato. Non ho mai avuto pause nell’inventare il mio personaggio, dalla mattina alla sera. Mi sono inventata anche il vestito. Non avendo i soldi, io non avevo vestiti, però me li sono inventati, una specie di uniforme e via che andavo: un vestito nero col colletto bianco, la calzamaglia, il pullover nero per la scena. Ero tutta costruita, ma da me stessa. Nessuno mi aveva mai messo le mani addosso per costruirmi. Non è mai stato possibile. Me lo sono costruita io, da sola.

È un personaggio che spesso gioca con riferimenti ironici all’infanzia, alla fantasia e alle disinibizioni dell’infanzia, forse perché è l’età in cui traspaiono già le prime forme di sessualità, ma non esistono steccati morali o moralistici...
Forse. La mia infanzia è stata veramente molto drammatica. Ho sempre avuto la tendenza alla risata, a ridere sfacciatamente, alla comicità, a far ridere le persone, ma, anche in quel caso, mentendo. Quando tu fai ridere, c’è qualcosa che nascondi. Quasi sempre. Sì, è vero che esiste in me una dominante anarchica (sorride) molto forte, di cui io non mi sono mai resa veramente conto. Infatti ho perfino ceduto al fanatismo del pugno alzato, PCI PCI PCI... Macché PCI! (sorride). Sì, è vero che traspariva una componente di godimento infantile, senza freni... Insomma, per la verità, c’è sempre stata in me una percentuale di anarchia enorme, ma queste cose non è che le approfondisci, le passi al volo, le vivi così, alla giornata... Per questi motivi, forse, mi è sempre stato così necessario recitare, perché quando reciti, scopri i momenti di abbandono del personaggio, diventi l’altro ed è la cosa più comoda... Perché stare sempre a scavare al fondo di se stessi, a sondare fino in fondo quella che sei, non è facile.

Nel tuo personaggio esisteva sempre una componente maliziosa molto vivace, la trasgressione di rovesciare tutti i luoghi comuni del rapporto uomo-donna...
Sì, il rapporto uomo-donna l’ho rivoltato e squadernato in lungo e in largo, senza scrupoli... sarà forse anche per Pier Paolo, perché mi rendevo conto dell’impossibilità di avere un rapporto normale con chiunque, finché c’era Pier Paolo. Me ne rendevo conto perfettamente. Perché non potevo neanche prendere in considerazione il fatto di avere una reale storia con Pier Paolo, no, mi faceva in qualche modo orrore. La sua omosessualità mi dava un disagio interiore che... un senso di grande disagio. Infatti anche quando andavamo al mare, le nostre corse al mare, io avevo sempre terrore di queste corse al mare... cercavo di non farle, le facevo, ma insomma...

Il tuo personaggio era fuori da ogni schema: non eri una vamp, ma giocavi con alcuni stereotipi della vamp, univi la seduzione e un’ironia che poteva essere giocosa e cattiva, una fantasia follemente carnevalesca, ma, al tempo stesso, rivelavi spesso un temperamento tragico, una malinconia più nascosta...
Sì, non c’era nessuna come me (ride). La prima volta che Pier Paolo è venuto a casa mia, è rimasto allibito, con gli occhi sbarrati dietro gli occhiali neri, non se ne capacitava...

È stato difficile essere quel personaggio nella società dello spettacolo di allora? Mi riferisco all’anomalia che un’attrice fosse anche autrice di se stessa...
A nessuno era dato saperlo. A quei tempi veniva dato così, ero così e così dovevo essere. Anche se non era vero. Di questa doppia immagine, sempre allo specchio, ne ho un po’ risentito dopo. Avrei voluto, non dico fare marcia indietro, ma almeno riposarmi dal rischio di essere un’altra da me stessa, anche perché rischi di perdere il filo. Non voglio arrivare a Pirandello... ma la domanda “chi sono?” finisce per imporsi alla mente, prima o poi. Questa è una domanda perturbante, ma qualche volta viene.

È una domanda che ritorna spesso nel tuo libro, “Teta veleta”, e in alcune interviste televisive...
Io non lo so davvero. Ignoro molte cose di me. Credo che il Fondo Pasolini mi abbia fatto bene perché mi ha dato un’esperienza di consistenza pratica, mi ha impegnata in modo molto forte. Ho dovuto fare tante cose che non avevo mai fatto, per esempio avere a che fare con le istituzioni. A poco a poco l’asse della mia recitazione si è spostato: dal recitare me stessa in spettacoli o esibizioni mondane, qua e là, mi sono trovata a dovere recitare moltissimo con le istituzioni! E credo di essere stata, in questo senso, bravissima... in Italia, nei primi anni, le istituzioni non ne volevano sapere di Pier Paolo: io le aggiravo e le raggiravo grazie ad una sapiente recitazione. Questo l’ho fatto, mi è tornato anche comodo e mi divertiva molto. E il buonumore è essenziale in queste cose... Ma io ho sempre avuto un ottimo umore... è adesso che non ce l’ho più.

Dicevi che il tuo personaggio è stato segnato dall’incontro con Pasolini, ma esisteva già, era già delineato nella sua identità ben prima...
Io l’avevo delineato all’arrivo a Roma (ride). Avevo già capito che i conti non tornavano. Alcune cose che ho scritto nel mio libro, sono verissime... (ride) avevo capito che era meglio mettere tutto al femminile, la “oma” e le “ome”... piombi da un luogo come Bologna nel centro di Roma dove trovi tutte le frocie d’Italia... era un caos! Io non ho mai capito niente della mia sessualità, di quella degli altri, un casino, ma mi sono lasciata andare... niente è certo, tutto è forse, bisogna nuotare e godere nel forse...

In un mediometraggio televisivo, parli di Bologna tutta chiusa, protetta, e di Roma “divaricata, scosciata”...
Tutta aperta, tutta sfacciata... sì, è bella Roma... come fai a lasciarla? È unica... Ma mi disgusta dal punto vista politico perché mi pare che la città non reagisca più.

Le tue prime esperienze sono state di cantante jazz con Walter Chiari...
Ma anche prima, a Bologna, ho fatto le jam session, con Nunzio Rotondo, un artista di Bologna, un jazzista molto bravo, bravissimo. Ero cresciuta nella cultura jazz, mi piaceva moltissimo, il jazz bianco, avevo i miei modelli e via che andavo, la Sarah Vaughan... La rivista con Walter, I Saltimbanchi, fu molto divertente, aveva un pubblico enorme, enorme, quattro-cinquemila persone come ridere, e mi impressionava. È stata anche la prima volta che ho cominciato a cantare davanti ad un pubblico così vasto. Dietro le quinte, andò malissimo perché io e Aroldo Tieri, ci siamo tirati dei cazzotti in testa, insomma un putiferio... Però è stato anche molto divertente. Io ero molto legata a Julie Robinson e siamo rimaste molto amiche. Stava per sposare Harry Belafonte, era innamorata pazza. Prima aveva avuto una storia con Marlon Brando. Non lei, Marlon Brando si era innamorato di Belafonte. Arrivò a Roma per dire alla Julie che basta, doveva ritornare a New York. Lei non tornò, ma scappò col mio aiuto e per vari pasticci rischiai di andare in galera... Marlon rimase in Italia e abbiamo avuto una storia molto carina, che però non continuò perché di andare a letto con lui e Christian Marquand non mi andava per nulla! Non è il mio genere. Io raccontavo un sacco di balle sulle mie avventure, ma, in realtà, una situazione di sesso a tre, no, neanche per sogno... A pensarci bene, ero tendenzialmente fredda. Ma io non so nulla di me stessa.

E l’esperienza con Luchino Visconti, fu importante?
Sì, ma non poi così tanto, perché ero affascinata e attirata dal canto più che dalla prosa. Mi attirava il fatto che, secondo me, la canzone fosse più difficoltosa del teatro, i recital erano molto impegnativi, molto difficili. Visconti era durissimo, ed era un attore straordinario, riusciva ad interpretare in maniera sublime tutti i ruoli, tutti i personaggi. Ma soffriva molto in quel periodo per suoi problemi sentimentali ed era sempre ubriaco. Mi trattò malissimo, cosa che non gli perdonai, ma, al tempo stesso, rimanemmo molto amici. Mi consigliò di cambiare il mio cognome da “Trombetti” in “Betti” e lo feci.

Nei testi di “Giro a vuoto”, che ebbe quattro edizioni, si ha l’impressione che, pur essendo coinvolte personalità così diverse, ci fosse come un filo unitario...
Sì, perché provenivano dalla stessa esperienza... Fu un’idea mia quella di cantare testi degli scrittori che amavo. Cominciai a chiedere loro i testi e a pensare a questo spettacolo insieme a Filippo Crivelli. È stato il putiferio perché tutti gli scrittori volevano partecipare. Moravia non capiva nulla di metrica... Io gli avevo anche regalato un pallottoliere, niente, non gli veniva. Pier Paolo invece era bravissimo. Le difficoltà con la metrica di Moravia determinarono il coinvolgimento di musicisti contemporanei perché, se no, non se ne sarebbe venuti a capo. Andai alla biennale di Venezia e incontrai Strawinski che mi regalò alcune pagine di battute musicali. Io non avevo capito quanto fossero importanti e credo addirittura di averle perse...

Gli scrittori si ispiravano alle suggestioni che provenivano dal tuo personaggio e dalla tua persona: per alcuni diventavi uno strumento contro il conformismo piccolo -borghese, per altri eri una voce tragica...
Sì, loro si trovavano bene perché gli davo molto materiale umano mio, che fosse falso o vero o creato. La formula consisteva anche nel parlare sempre di me, che invece non ero affatto io... Fortini era stato travolto da me, collaborai a lungo con Fabio Mauri, che era bravo ed era un amico profondo... Flaiano era al di fuori di quel gruppo e lo presi io.

Nel caso di Moravia recitavi un personaggio che discendeva direttamente e ironicamente dalla sua narrativa...
Sì, è vero. La mogliettina annoiata che vuole buttarsi di sotto. Esisteva un rapporto molto preciso con tutti loro. Gli spettacoli di Giro a vuoto vennero anche tradotti, andai a Parigi e New York. A Parigi, André Breton aveva perso la testa. Abitava attaccato al teatro dove recitavo e veniva tutte le sere, facendo schiamazzi tremendi. Io, che non l’avevo riconosciuto, credevo mi stesse prendendo in giro, invece si divertiva follemente! Era una persona deliziosa, me lo ricordo molto bene.

Moravia ti ha definita un’artista che appartiene “alla tradizione dei grandi solitari, dei fantasisti più insoliti”... Ti riconosci in queste parole?
Sì, ero sola. Intanto si è soli perché si è soli e poi ero sola sulle scene. Facemmo un disco con Bruno Maderna dai Sette vizi capitali di Weill/Brecht. Lui creò gli arrangiamenti, bellissimi. Mi affascinava molto il cabaret berlinese e poi le canzoni erano belle, belle. Kurt Weill era un grande musicista. Vittorio De Sica collaborò a Tango Balade. Il rapporto con Bruno era meraviglioso. Eravamo molto amici ed era anche diventato amico di Pier Paolo. Iniziò a scrivere un balletto per Pier Paolo, Vivo e Coscienza, che purtroppo rimase lì, non è andato avanti. Bruno lo conoscevo dai tempi di Milano, era un personaggio molto noto e io andavo da lui di tanto in tanto alla radio. Stava lavorando ad esperimenti di musica dodecafonica. Una persona geniale. Beveva come una spugna e non poteva durare più di quello che è vissuto. Lavorava soltanto di notte. Non ne voleva sapere di lavorare di giorno. Bruno aveva un grande ascendente sui musicisti, lo amavano, lo rispettavano tutti e abbiamo sempre e solo fatto i turni di notte, senza controversie. Il delirio era che queste partiture dovevano essere copiate in fretta e furia e distribuite, così io dovevo galoppare per consegnarle. Era una follia. I musicisti, che erano i migliori sulla piazza, le ricevevano all’ultimo minuto.

Nel 1964 hai recitato e cantato in un altro spettacolo che fece scalpore, “Potentissima signora “...
L’unico difetto di quello spettacolo fu di essere in anticipo sui tempi e sulle mode. Era uno spettacolo molto bello e ci siamo divertiti pazzamente. Avevamo le scene di Lida De Nobili, i pannelli di Schifano, era tutto fuori dal tempo... Non avevamo una lira e si facevano le collette. È rimasta storica la mia richiesta di una sovvenzione a Gianni Agnelli. Gli avevo chiesto, credo, un milione e lui mandò cinquecentomila lire, con tanti auguri ecc. Io gli mandai un foglio a metà: mi hai dato metà di quanto ti avevo chiesto, quindi il testo di ringraziamento è a metà.

Nel teatro di prosa hai recitato con Luca Ronconi nella sua prima messinscena di Giordano Bruno...
Ronconi volle che interpretassi il suo Candelaio e il mio personaggio era molto bello. Ma gli dissi: essendo uno spettacolo con tanti attori, ricordati che pretendo molte prove perché non voglio fare la stella solitaria. L’ho asfissiato, con prove, controprove...
Quando siamo andati in scena, gli ho detto: “Luca, caro, io non ho capito quel che mi hai detto. Scusami, abbi pazienza, ma io stasera cerco di fare quello che posso”. Ho fatto tutt’altra cosa e ho ottenuto un trionfo. Non potevo proprio fare ciò che voleva, non potevo obbedire ad una regia molto tradizionale, d’autorità. Nello stesso periodo interpretavo Orgia perché Pier Paolo diceva che non potevo perdere Ronconi, e io dicevo ma sì lo perdo, è ovvio, come posso fare, hanno le stesse date. Andò a finire che mi divisi tra i due spettacoli.

È vero che, nei primi anni Sessanta, il cinema non ti attraeva?
A me non piaceva un cazzo il cinema, anzi, più che altro non mi interessava. Ero molto presa dal mio teatro, quelle canzoni non erano facili. A me piaceva sempre la battaglia. Per me, il cinema è cominciato con Teorema e dopo non ho più fatto altro.

Ci sono stati tentativi da parte dei registi della commedia italiana di coinvolgerti nei loro film?
No, perché ero sempre stata schedata come l’”intellettuale”, e in quell’ambiente non giocava tanto a favore. Dovevi fare necessariamente ruoli di comica... ma a me non interessava minimamente. La ricotta mi piacque perché era una cosa strana, bizzarra, dove nemmeno una come me poteva ritrovarsi. Però lì ci siamo fermati per anni. Poi sono arrivati gli episodi di Pier Paolo, La terra vista dalla luna, Che cosa sono le nuvole?...

Nella “famiglia” di non attori che appartenevano al cinema di Pasolini come Franco Citti, Mario Cipriani e altri, tu, oltre ad essere l’unica attrice professionista, fin dai primi film hai continuamente cambiato identità e aspetto da una pellicola all’altra. Mentre Ninetto Davoli è sempre Ninetto, il ragazzo furbetto, allegro e innocente; il Franco Citti di “Accattone” e “Mamma Roma”, rimane anch’egli, più o meno, sempre una variante di se stesso, - quando interpreta un diavolo in Canterbury e un demone nel “Fiore delle Mille e una notte” si tratta di variazioni di un’unica identità - e lo stesso discorso vale anche per attori professionisti come Massimo Girotti - che ha sempre impersonato il padre - e Silvana Mangano - la madre/Madonna - invece i tuoi personaggi cambiano continuamente...
È vero, sì, è vero. La verità è che lui non voleva magari ammetterlo, ma di riffa o di raffa, la sola attrice per lui ero io. E giù scenate se per caso io dicevo di no ad una sua proposta. Come è stato per Teorema. Ogni volta, da parte sua, mi giungeva un’idea diversa, una proposta differente dall’altra. Ogni volta mi vedeva in un modo, o in un altro, o in un altro ancora.

Nei testi scritti da Pasolini per le canzoni di “Giro a vuoto”, troviamo la “Ballata del suicidio”, dove la voce femminile, l’io femminile è quella di una “diversa”, è la tragedia della diversità di una donna che ha deciso di uccidersi. In “Cristo al Mandrione”, interpreti un’altra voce di morta, la voce d’oltretomba del cadavere nudo, sporco e abbandonato, di una povera donna; in “Marilyn” sei un io femminile fragile, sfruttato dalla società dello spettacolo; le due prostitute di “Valzer della toppa” e “Macrì Teresa detta Pazzia” potrebbero essere sorelle di “Mamma Roma”: in alcuni testi, i versi derivano o anticipano altre opere pasoliniane, in altri si può avvertire una forma di identificazione tra la tua voce e quella del poeta. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. La cosa che gli piaceva di più era il fatto che non fossi un’attrice di birignao. Non lo sopportava. La mia voce e la mia pronuncia hanno sempre mantenuto delle inflessioni bolognesi, non è che l’ho perso in omaggio all’accademia... Invece in Italie magique diventavo il suo strumento di aggressione contro il colonialismo, il fascismo, Mussolini, Hitler che beffeggiavo in lungo e in largo. Una sera i fascisti si organizzarono per menarmi: quando scesi in platea con una coppa di champagne per recitare uno degli ultimi monologhi, come prevedeva il copione, vidi che mi aspettavano al varco e corsi come una lepre dietro al sipario per sfuggirli.

Aveva un rapporto molto complesso con te come attrice...
Io me ne sono accorta in Teorema. Era molto complesso. Molto denso. Ho anche capito che non era vero, come io pensavo, che lui non facesse dei veri e propri scavi all’interno delle persone. Invece li faceva. Aveva capito come e perché Teorema dovevo farlo soltanto io. Perché c’era un rapporto molto preciso tra me e la terra, che io ignoravo. Io gli dissi di no. Siamo andati avanti a litigare quasi un mese. Lui era incazzato duro. Avrebbe rinunciato al film. Era furioso. Era così convinto. Non lo potevi schiodare da quell’idea. Poi era molto riottoso nel dare spiegazioni. Non voleva spiegarmi. Io gli chiedevo che cazzo c’entrassi con questa serva, con la fronte bassa e le sopracciglia folte... Esistevano delle idee molto chiare al di sotto, nitide e profonde. È stata un’esperienza molto strana. Mi ha molto turbata.

Ad Antonio Bestini, hai detto che Pasolini prendeva gli attori per la loro natura, per la loro realtà...
Sì, Pier Paolo non era affatto un regista. Prova ne sia che in Salò, dove domina un distacco assoluto dalla materia e dai personaggi, per la prima volta affrontava la distanza di una regia vera. Non è mai stato un regista, ma è stato qualcosa di più. Quel di più andava conosciuto...

Nel libro aggiungi anche che negli attori professionisti che hanno recitato con Pasolini, nasceva una forma di resistenza che si traduceva in qualcosa di stridente...
Sì, c’era questa resistenza. C’era perché uno non riusciva a capire quello che voleva. Visto che lui voleva solo ciò che eri dentro, all’interno di te stesso, non era un’esigenza che venisse compresa. Loro non riuscivano a capirlo. Invece era così. Era molto affascinante lavorare con lui, perché si lavorava sull’intelligenza.

In “Teorema” ha usato la forza del silenzio che può avere il tuo volto e il personaggio di Laura Betti spariva completamente, come era sparito nella strana fisionomia del turista de “La terra vista dalla luna”. Per la donna di Bath de “I racconti di Canterbury”, invece, fece ricorso ad alcuni elementi del tuo personaggio, come l’aggressività e il sarcasmo...
Il personaggio de La terra vista dalla luna nasce dal fatto che io da sempre volevo recitare il ruolo di un uomo e quella volta me l’ha fatto fare. Mi piaceva molto fare l’uomo. Non so quante ore di trucco, i peli della barba da attaccarsi, fu molto faticoso, però mi sono molto divertita... Il personaggio della donna di Bath era molto carino, però non c’è più. Peccato. Era talmente bella la parte del pellegrinaggio, il carrozzone dei pellegrini che viaggiano a Canterbury e si raccontano le storie, si fanno i dispetti, non puoi sapere com’era bella, era veramente un film bellissimo... tutto sparito. Fu Alberto Grimaldi che chiese dei tagli, perché il film era troppo lungo, più di due ore e mezza. La parte inventata, selvaggia, barbara, del viaggio con il carrozzone... è andata persa in un allagamento degli stabilimenti della Technicolor. L’ho fatta cercare, ho fatto rivoltare la Technicolor... niente. Era la parte più bella e questo Pier Paolo lo sapeva. Era l’ossatura del film. A me non piace Canterbury.

Beh, soffre di discontinuità, ma il tuo racconto è divertente, così cinico, e alcuni racconti sono molto belli...quelli del frate e dell’indulgenziere...
Mah, il mio non si può giudicare, durava un’ora, disseminato dall’inizio alla fine, un’enormità. Il personaggio era sempre in scena...

Il personaggio di Hélène Surgère in “Salò” avresti dovuto interpretarlo tu?
Sì, doveva esserci anche Ninetto, nella parte del soldatino fascista che ha poi avuto Claudio Troccoli, ma Pier Paolo aveva paura per noi, aveva ricevuto delle minacce e temeva dei pericoli. Non per se stesso, lui non aveva mai paura di nulla. Per noi.

Oltre a “Vivo e Coscienza” esistono altri progetti che non avete potuto realizzare insieme?
Sì, dovevo fare un ruolo perfido, malvagio nel film che avrebbe dovuto girare nell’inverno 1975-76, Porno-teo-kolossal. Poi mi diceva sempre che avrebbe voluto interpretassi Eichmann, vestita da nazista di tutto punto. Voleva anche che scrivessi il testo. Era ormai diventato un ritornello scherzoso, questo su Eichmann...

Dopo aver recitato ne “La dolce vita”, hai dichiarato spesso di non trovarti in sintonia con il metodo felliniano perché trattava gli attori come oggetti...
Non mi trovavo. Ci usava come degli oggetti, mentre con Pier Paolo si era coinvolti in un processo molto più misterioso. Con Federico, era chiaro che eravamo degli oggetti e lui manipolava l’attore in tutti i modi, ma io non mi lasciavo manipolare. Non andavamo d’accordo, non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Era carino, a me era anche abbastanza simpatico, dico “abbastanza”, ma non del tutto... Non mi piaceva il suo spirito da “Marc’Aurelio”. Non so che cosa non mi piacesse in lui, c’era qualcosa in lui che non mi piaceva. Forse un certo tipo di ironia che usava, ma in realtà non era molto ironico. L’episodio della Dolce vita era nato da un episodio reale, una litigata spaventosa che facemmo io e Marcello a tavola, sotto gli occhi di Federico e Pier Paolo, avvenuta in nome di che, non l’abbiamo mai saputo. Io e Marcello avevamo un ottimo rapporto. Eravamo amici. Scoppiò questa specie di bomba. E a Fellini quella scena piacque pazzamente e la ricreò per il film.

Come fu il rapporto con Rossellini per “Era notte a Roma”?
Rossellini era molto carino. Giovanna Ralli aveva vietato qualsiasi pubblicità sul mio nome. Nella sequenza in cui scendevamo dalla camionetta, io feci una bella mossa: mi sono tirata su tutte le sottane, e così apparvero le cosce. Mi sono guadagnata un applauso a Cannes. Entrai in un magazzino, da cui bisognava uscire di corsa. Arrivata davanti alla porta, Rossellini mi disse: “Laura, prima tu!” La Ralli mi ha dato uno spintone che ancora un po’ mi caccia per terra, ed è uscita prima lei, così si è presa subito il primo piano. (ride) E Sergej Bondarciuk che rideva, rideva. C’è poco da ridere, caro... Rossellini era un uomo molto dolce. Era un regista, un uomo molto paziente.

Dopo “Teorema”, inizia veramente la tua carriera cinematografica. In quello stesso 1968 interpreti “Orgia” e dichiari alla stampa che vuoi lasciare la canzone...
Sì, perché era difficile portare avanti le due cose. La canzone era molto impegnativa. Non ce la facevo. Il teatro non mi interessava tanto, me l’ha fatto fare quel rompicazzo di Luca [Ronconi], perché io volevo fare solo cinema. D’altra parte ero piena di proposte per il cinema, anche perché avevo vinto la Coppa Volpi.

Con Mario Bava hai recitato in due film dell’orrore...
Eravamo molto amici. Ero stata io a pescarlo dopo la Coppa Volpi: “Senta caro, io adesso voglio fare un film con lei”. Lui si è sentito molto lusingato, bene o male. Mi piaceva molto il genere horror e Bava era un uomo molto simpatico. In Reazione a catena, io e Pistilli ci trovavamo nella foresta. Per la verità, della foresta non c’era manco l’ombra, manco n’albero, eravamo su una spiaggia. Mario stava con una frasca in mano e l’agitava davanti alla mdp per simulare, appunto, l’esistenza di una foresta. Noi non riuscivamo a resistere perché scoppiavamo dal ridere... Lui aveva milletrecento espedienti, anche nell’altro film, dove interpretavo il ruolo del fantasma, si era sdraiato per terra, e muoveva la mano velocissima davanti all’obiettivo così sembrava che volassi...

Hai anche accompagnato l’esordio di André Téchiné...
Téchiné è venuto a dormire da me, a Campo de’Fiori, e lì ha finito la sceneggiatura di Paulina s’en va e voleva che la interpretassi. Io avevo i miei dubbi - mi sembrava una gran cagata - però ha tanto e tanto insistito che l’ho interpretata. È stato un insuccesso travolgente... tant’è che alla fine, dopo la presentazione a Venezia, mi ero voltata per sparire quatta quatta, ma c’era Ernesto G. Laura che mi ha impedito di squagliarmela... alla fine della proiezione, un silenzio, un grande silenzio... arrivano dei fiori, delle rose rosse per me e Marie-France Pisier. Il pubblico si volta, ci ha guardato e se n’è andato... Non fu proprio piacevole...

Una forte complicità ti ha unita, in seguito, a Bellocchio per tre film, uno dei quali è una delle tue interpretazioni più belle, più complesse, “Il gabbiano”...
L’incontro con Marco è stato molto importante, mi corrispondeva anche più di Bernardo... quest’anima un po’ russa, che mi stava bene addosso... Il gabbiano è un film bellissimo, ma è stato trattato male da tutti, da Marco per primo, che aveva il problema dell’uscita in Televisione sulla RAI e poi al cinema, e l’ha mollato. Ma senz’altro è uno dei suoi film più belli... il rapporto del mio personaggio col figlio, quando si sbranano, è il cuore del film...

Bertolucci è l’altro autore con cui hai un'intensa complicità...
Totalmente opposto. Marco è un autore che scava dentro, Bernardo ha la necessità di metterti a tuo agio in uno spazio, in una camera. Quando vede che sei a tuo agio, allora può iniziare a girare. Non è una tecnica sbagliata, ma insomma... io mi trovo meglio con Marco, ho più bisogno di andare a fondo... Mi ha tagliato in una breve apparizione in Ultimo tango a Parigi, un cammeo molto carino...

In “Allonsanfan”, i fratelli Taviani hanno valorizzato la dolcezza del tuo temperamento...
Sì, io ero una tata affettuosa, ma anche incestuosa... i Taviani sono due persone squisite. Con Marcello stavo benissimo, mi venivano delle ridarole, mi ricordo che una volta, ridevamo sgangheratamente... ai Taviani non interessava e diedero motore ciak azione: Marcello rimase con tutte le rughe delle risate sulla bocca, tant’è che il truccatore si è avventato sulla scena e gli ha stiracchiato la faccia per fargliela ritornare senza le grinze della risata...

Hai sempre avuto, ancora oggi, un rapporto molto forte con il cinema francese. Per esempio, Jacques Deray ti ha diretta in due film e ha parlato di te con grande ammirazione nelle sue memorie...
Era molto simpatico, abbiamo fatto due film, Un papillon sur l’épaule [titolo italiano Morti sospette] era bello. Lino Ventura era un bellissimo attore. Sul set del precedente film che ho fatto con Jacques, Le Gang, stavo malissimo perché Alain Delon e Deray litigavano di continuo. Era Delon che aveva voluto quel film, era Deray che aveva voluto Delon... insomma, una fatica tremenda, c’era una tensione terribile. Ma con me erano tutti e due molto gentili. Anche Delon era molto gentile: il caldo, quell’estate, era asfissiante e lui, che era anche il produttore, sguinzagliò tutte le sue guardie del corpo per cercare dei ventilatori per la troupe. Finalmente ne ha trovati uno o due e li ha fatti mettere nella mia camera d’albergo. Delon è una persona deliziosa. Deray era molto appassionato di letteratura, leggeva molto, era amico di Flaiano, una persona gradevole. Peccato che litigassero sempre... e sì che avevano fatto molti film assieme, ricordo La piscina che era un bel film...

Hai anche interpretato due film con Jean-Claude Biette, che era stato collaboratore di Pasolini...
Era meraviglioso... lo amavo proprio tanto. Se n’è andato e non capisco proprio... com’ha fatto a morì non lo so... aveva un rapporto bellissimo con Pier Paolo che si fidava di lui per le traduzioni francesi e i dialoghi dei suoi film, ma non sul set: sul set di Edipo re, gli diceva di spostare una massa di figuranti e Biette, con la sua vocina, “Messieurs, s'il vous plaît...” Ma come s'il vous plaît, cacciare un urlo doveva!

Catherine Breillat, oltre ad averti dato un ruolo breve, ma molto bello, in “A mia sorella!”, ti rende anche una sorta di omaggio, mostrando nel film una tua intervista alla televisione...
Catherine è molto brava, molto furba come narratrice: il tono del film sembra molto piatto, ti chiedi “ma dove andiamo a finì, ma dove andiamo a finì”, fino a quando arriva la violenza finale... (ride) Soltanto Catherine può arrivare a delle rotture di tono simili. Ho visto altri film suoi, più belli di questo forse, come Parfait amour! magnifico. La protagonista è un’attrice fantastica.

Due incontri significativi sono stati anche quelli con Miklós Jancsó e Gianni Amelio...
Jancsó è un uomo molto interessante, molto dolce, molto poetico. Lo amavo molto. Lo sentivi inquieto perché non aveva le sue radici qui in Italia. Non stava bene. Il piccolo Archimede è davvero bello. Io ho lavorato molto bene con Gianni, solo che dovevamo salvarlo perché lo volevano menare. Non era un uomo facile. Il film era prodotto dalla RAI con una troupe della RAI che per la prima volta usciva fuori dalla sua routine... Gianni non reggeva: i tecnici della troupe erano tremendi, facevano sempre le pause-panino... Erano impiegati RAI che non rappresentano proprio l’ideale per un film... Lui si arrabbiò violentemente e loro lo volevano menare. Io e un’altra del set facevamo scudo con il nostro corpo per salvarlo, però i rapporti rimasero pessimi. E lui aveva torto: sapeva con chi aveva a che fare, sapeva che razza di troupe fosse... Gli dicevamo di stare tranquillo, non puoi competere con un’intera troupe...
Durante quel mio primo piano alla grata della tomba, quando sto lì aggrappata, per girarlo Gianni aveva bisogno, come me, di una certa concentrazione, e sul più bello quegli animali hanno gridato: “Pausa per il panino!!”

Nel 2002 hai recitato in uno spettacolo curioso, “I cosmonauti russi”, un dramma jazz...
Ah, per quello spettacolo mi sono proprio divertita... ho fatto un affondo di nuovo nel jazz. Abbiamo fatto due o tre repliche al Regio di Torino e all’Auditorium di Roma... una grande orchestra, dei solisti bravissimi... io ero la “stella cattiva”, che “brilla a vostro danno” e dice agli astronauti: “il vostro viaggio vi rende saporiti”...

Postilla
Questa intervista è stata realizzata nella casa di Laura Betti, poco più di un mese prima che morisse. Era molto indebolita nel corpo, ma aveva una volontà irriducibile di fare, progettare, preparare, e anche recitare, che andava oltre le sue condizioni fisiche. Una volontà che non l'ha mai abbandonata. Laura Betti era una donna estrema in tutto, negli amori come negli odi. Come tutte le forti personalità, aveva dei risvolti segreti, preziosi. Era di una dolcezza sorprendente, aveva una generosità straordinaria, un'ironia fantasiosa e inesauribile. Nei suoi ultimi mesi, non so per quale fortuna, io ho potuto conoscere questi aspetti della sua personalità, che mi mancano molto. [R.C.]



Da “Cineforum”, n. 437, agosto-settembre 2004, ora nel blog di Angela Molteni., donde l'ho ripreso togliendo le note.

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