29.6.16

Ottocento italiano. Mitologie monarchiche (Filippo Mazzonis)

L'istituzione monarchia è assai poco presente nel dibattito scientifico, malgrado il determinante ruolo esercitato a più riprese nella storia nazionale. Si sa che, regnante casa Savoia, la storiografia nostrana, con poche eccezioni, aveva contribuito non poco a tramandare dei sovrani una immagine oleografica ed entusiasmante: furono così propagandati prima il mito del «Re Galantuomo» (e Padre della Patria) - Vittorio Emanuele II -, poi del «Re Buono» - Umberto I -, infine del «Re Soldato» - Vittorio Emanuele III (a Umberto II, per mancanza di agiografi pronti di fantasia data la durata mensile del suo regno, è toccato passare alla storia come il «Re di Maggio»). La storiografia di epoca repubblicana ha ridimensionato notevolmente l’opera e la statura dei primi re d’Italia. Qui cercheremo di fare alcune riflessioni sui primi due, Vittorio Emanuele II e Umberto I.

Il Gran Re
Vittorio Emanuele II fu il re del trapasso dallo Stato patrimoniale allo Stato nazionale, punto d’arrivo della rivoluzione borghese, un processo già iniziato sotto Carlo Alberto. Egli comprese, cosa che non riuscirono ad afferrare invece gli altri principi italiani, che per salvarsi bisognava assecondare il processo in atto che, come portato dei tempi nuovi, era irreversibile.
Costretta nei limiti angusti di una economia regionale o provinciale e nell’ambito di condizioni politiche anacronistiche, la borghesia già da tempo si stava agitando al fine di raggiungere la completa autonomia e la creazione di un mercato nazionale. Questo processo di autoaffermazione, di presa di coscienza di sé in quanto classe, non avvenne ovunque in maniera omogenea, facendo sì che in talune regioni buona parte della borghesia si schierasse all’opposizione democratica. Nel regno di Sardegna si verificarono invece le condizioni ideali per la riuscita del processo risorgimentale: l’ala più illuminata della classe dominante - «l’aristocrazia imborghesita» secondo la felice espressione di Romeo - intuiva la validità degli obiettivi della borghesia e si alleava con essa.
Vittorio Emanuele ebbe quindi dalla sua la diversa condizione piemontese: la nuova classe dirigente vedeva nella copertura della corona la garanzia di ordine e stabilità che la situazione europea richiedeva e anche la garanzia per se stessa che la rivoluzione non andasse oltre gli obiettivi prefissati, l’indipendenza politica e la formazione di un mercato nazionale. Vittorio Emanuele aiutando l’avvento della prima, avrebbe in cambio regnato sul secondo.
Ma come in ogni accordo di interesse, non tutto poteva filare liscio come l’olio né potevano mancare i contrasti. Impensieriva la borghesia la personalità stessa di Vittorio Emanuele, educato alla luce di «una tradizione che profondava le sue radici nell’età dell’assolutismo monarchico», e il fatto che considerasse la propria dignità di origine divina, più che dovuta alla volontà della nazione. Né poteva essere gradito a ministri e deputati borghesi il principio che «i ministri passano, il Re resta» come ebbe a dichiarare il sovrano medesimo nel ‘75. Si pensò dunque di fare del sovrano un personaggio circonfuso di un’aureola leggendaria, di creargli, ancora vivo, un mito, quello del re che regna ma non governa.
Ma la divisa di Re Galantuomo e monarca costituzionale, ideata da D’Azeglio e fatta indossare da Cavour, per quanto onorifica e splendida, per quanto allettasse il suo desiderio di popolarità, stava stretta a Vittorio Emanuele. Dare il proprio avallo alla rivoluzione non significava infatti da parte sua lasciarsi trascinare passivamente. Due ordini di considerazioni assai realistiche preoccupavano Vittorio Emanuele II. La prima, di indole generale, minava le basi stesse sulle quali poggiava il pactum foederis tra il sovrano e la borghesia: chi poteva assicurare che l’interesse alla garanzia regia, e per di più con quella dinastia e non con un’altra, fosse destinato a durare a lungo? Precedenti nella recente storia d’Italia mancavano; gli avvenimenti francesi insegnavano che la borghesia rivoluzionaria sapeva scegliersi il re secondo i propri interessi e all’occorrenza poteva anche fame a meno.
Vi era poi un altro pericolo, più immediato: la macchina che il re stesso aveva contribuito bene o male a mettere in movimento, lungi dal condurlo a mete ambiziose, poteva portarlo a farsi travolgere dalla realtà dei tempi ancora immaturi. Timori che emersero, ad esempio, in occasione del celebre scontro con Cavour nel ‘59 in occasione dell’armistizio di Villafranca: la prospettiva di un inserimento rivoluzionario della monarchia di fronte all’Europa intera, mediante la guerra ad oltranza all’Austria, metteva in forse la sopravvivenza stessa della dinastia. Da qui l’importanza attribuita da Vittorio Emanuele, nella migliore tradizione della politica assolutistica, all’esercito e alla politica estera, dominio riservato al sovrano.
Nel momento culminante in cui si compiva l’Unità d’Italia, incominciò a venir meno quella certa compattezza di intenti che aveva caratterizzato l’azione della classe dirigente durante le lotte risorgimentali: al suo interno quei gruppi, che avevano accettato con riserve l’idea del trapasso, si rivolsero al re nel quale vedevano la garanzia di una continuità. Vivo ancora Cavour, Vittorio Emanuele, incoronandosi re d’Italia, manteneva la numerazione della dinastia sabauda: segno che qualcosa dell’antica concezione dello Stato patrimoniale era rimasta.
Si può dire che con la morte di Cavour, l’esperimento del «connubio» fosse definitivamente concluso: non pochi elementi delle classi dirigenti dei vecchi Stati preunitari vennero inseriti nella nuova maggioranza moderata del Regno, per evitare sviluppi troppo rivoluzionari del Risorgimento. Era soprattutto sul terreno degli interessi economici che avveniva lo scontro fra le parti. L’Unità poteva essere la condizione preliminare alla formazione di un mercato nazionale: era necessario, tramite oculati provvedimenti e una serie di infrastrutture (per esempio le ferrovie), che si rendessero possibili le altre condizioni richieste dai tempi. In un’economia capitalistica così carente la funzione di formare il capitale, da una parte fu lasciata agli investimenti stranieri (in maggioranza francesi), dall’altra fu attribuita allo Stato, il quale si provvide soprattutto mediante le imposte. Ma per raggiungere tale obiettivo bisognava che lo Stato fosse dotato di basi finanziarie solide e ordinate, anche per garantire la continuità degli investimenti stranieri.
Da una parte la Destra, espressione degli agrari centro-settentrionali (Minghetti, Ricasoli) e dei primi industriali del Nord (Sella), ricercava il pareggio del bilancio mediante un inasprimento della pressione fiscale, voleva uno Stato indipendente dagli interventi stranieri e al di sopra degli interessi regionali, dall’altra, la Sinistra - in cui confluivano gli interessi dei grandi agrari meridionali, colpiti dalla politica tributaria della Destra, con quelli liberisti della piccola e media borghesia - contrapponeva «il pareggio della nazione».
Fu in questo clima agitato e teso seguente l’Unità che a Vittorio Emanuele II, in cambio di quelle garanzie che solo la corona - morto Cavour - poteva dare e che tutti le richiedevano, si offrirono maggiori spazi di manovra, di cui egli si servì con spregiudicatezza, per salvaguardarsi dall’eccessivo potere che questo o quel gruppo cercava di consolidare.
Nel biennio ‘69-’70 il re intravide la possibilità, prima coinvolgendo l’Italia in un’alleanza con Francia e Austria e poi schierandola in guerra a fianco della sola Francia contro la Prussia, di risolvere il prestigio della monarchia e contemporaneamente di impedire i gravi tagli imposti al bilancio dell’esercito. Ma la politica estera filofrancese del re, finora gradita alla borghesia italiana nel suo complesso, trovò dei precisi limiti in quei suoi esponenti che avevano sempre perseguito una politica di indipendenza dal capitale straniero e che sapevano necessaria una politica di pace e di economia per raggiungere il pareggio del bilancio. Se, a sconfitta francese ormai avvenuta, Vittorio Emanuele fu pronto a recepire l’indicazione venutagli dal Parlamento, nel chiamare al governo la Sinistra, egli diede prova di avere compreso che la Destra, esaurito il suo ciclo storico, non era più in grado di esprimere alcune esigenze del paese e agì convinto di trovare tra gli uomini dell’antico partito democratico collaboratori più docili e più malleabili. Non si trattò di un calcolo del tutto errato, poiché la Sinistra aveva bisogno del re per rafforzare al di fuori del Parlamento le basi della propria maggioranza e per trovare un punto di riferimento stabile al quale richiamarsi in momenti di instabilità politica. In cambio, Depretis e soci erano disposti a subire le ingerenze della corona, che speravano comunque di riuscire a contenere.
Non era facile però contenere Vittorio Emanuele nei limiti che lo statuto e la tradizione parlamentare gli avevano imposto. Egli era troppo importante perché uomini nuovi potessero prendere il sopravvento: lo stesso mito che impacciava tanto il re, pesava anche sull’azione dei suoi ministri. Inoltre, ulteriore motivo di imbarazzo, nel re si personificava la soluzione moderata del Risorgimento dalla quale buona parte della Sinistra era stata esclusa: era insomma il re della Destra, che ora voleva regnare (e governare) con la Sinistra. A risolvere la spinosa e complessa situazione intervenne, provvidenziale quanto improvvisa, una polmonite. Vittorio Emanuele II moriva il 9 gennaio 1878.
Il Re Buono
La storiografia ha sempre presentato re Umberto sotto una luce più scialba e dimessa del suo predecessore. Se ne può generare l’equivoco di contrapporgli Umberto. Ma le apparenze ingannano. Umberto ebbe in comune col padre le medesime convinzioni: la stessa alta considerazione del proprio grado, una profonda sfiducia nelle capacità della borghesia e nella sua onestà di fronte all’alleanza che era stata all’origine dello Stato nazionale. Di conseguenza era portato a considerare, anch’egli, l’esercito e la politica estera come un dominio riservato al sovrano. Eppure qualcosa con Umberto I cambiò, soprattutto in relazione all’evoluzione storica.
La classe dirigente dell’Italia post-Risorgimentale chiedeva alla monarchia di non essere considerata come un fine, bensì un mezzo, uno strumento per «servire gli interessi del popolo italiano». Sulle spalle di Umberto venne gettato un manto di splendore, quel manto che i gusti un po’ rozzi di Vittorio Emanuele II avevano sempre rifiutato: feste e ricevimenti al Quirinale, inserimento dell’aristocrazia degli Stati ormai scomparsi, ripetuti gesti di munificenza, e soprattutto l’aiuto che veniva dalla Regina Margherita, che, in poco tempo, con con la propria eleganza e i suoi salotti mondani e letterari, conquistava al mito monarchico un po’ tutti, dal semplice popolano al politico prestigioso, all’intellettuale di moda.
Ma sotto il manto era però necessaria una divisa che consentisse a lui, il re tanto in alto, di tornare ad essere, rispetto ai comuni mortali, un utile istrumento. Umberto venne presentato come un re democratico: «Non sono io forse un Re democratico? La dinastia sarà democratica o avrà finito di esistere», dichiarava pubblicamente Umberto a Firenze pochi mesi dopo l’avvento al trono: e fu forse per dare espressione concreta a queste parole che acquistò in seguito azioni di cooperative bracciantili e operaie; quindi un sovrano politicamente avanzato. In più si disse che era un esempio di coraggio: non tanto il coraggio militare - benché la leggenda del comportamento eroico a Custoza durò a lungo - quanto quello civile, che lo spinse a recarsi «nel ventre di Napoli», infestata dall’epidemia di colera del 1884.
Ma soprattutto Umberto fu il re «buono», e con questo appellativo passò alla storia. Colui il quale non esitò nel ‘98 a concedere di propria spontanea volontà una alta onorificenza al generale Bava Beccaris per aver ucciso a cannonate quasi cento milanesi, diventò il Re Buono, che preferiva, a suo dire, la canna da passeggio alla sciabola dei suoi corazzieri e che elargiva a ogni piè sospinto generose beneficenze ai bisognosi.
Per quanto si insistesse sulla sua bontà (e Di Rudinì malignamente aggiungeva che era ritenuto «buono... a nulla») Umberto non era poi così ben disposto ad accettare un ruolo meramente coreografico o strumentale; nell’81 ad esempio tentò di imporre al Parlamento un ministero Sella e determinare una sterzata a Destra. La manovra non riuscì: la borghesia, che stava cercando un proprio difficile assestamento su basi le più «allargate» possibili («trasformismo», riforma elettorale), non poteva accettare un anacronistico ritorno al passato, con una nuova probabile egemonia ristretta, addirittura regionale (Piemonte). Cacciata con rispettosa fermezza dalla porta, la politica personalistica del re rientrò l’anno seguente dalla finestra... della politica estera: caldo sostenitore di un riaccostamento agli Imperi centrali, Umberto vide nellaTriplice Alleanza, un potente elemento di conservazione nei confronti della politica interna. Per sua diretta ispirazione nel preambolo del trattato è esplicitamente dichiarato che la sua natura è «essenzialmente conservatrice» e suo fine precipuo è «di rafforzare il principio monarchico e per mezzo di questo assicurare il mantenimento intatto dell’ordine sociale e politico». La classe dirigente non si oppose questa volta alla manovra del re che veniva a consacrare, in forma di alta politica, il proprio interesse al capitale tedesco, oltre che a riconoscere l’intangibilità del sistema.
Sistemata la politica estera, precluso ogni intervento diretto in politica interna, Umberto era quindi libero di dedicarsi ad attività più direttamente redditizie: potè così prendere anche egli parte all’euforia generale di quegli anni, partecipando alle attività speculative, legandosi sempre più, in prima persona o tramite membri della famiglia ai gruppi affaristici più influenti.

Nel ‘93 ricorreva il 15mo anniversario dell'avvento al trono di Umberto: ma la ricorrenza cadde in un anno particolarmente difficile. Lo scandalo della Banca Romana era al culmine mentre si verificavano i Fasci Siciliani, i moti in Lunigiana e c’era un continuo ripetersi di attentati dinamitardi a Roma.
Al governo Umberto stesso aveva voluto Giolitti, poiché dichiarava di non ritoccare le spese militari. Ma la linea politica di Giolitti - con le sue richieste di maggior giustizia sociale e di ristrutturazione del sistema fiscale, con la volontà di contenere la spesa pubblica entro limiti realistici - era l’espressione di una tendenza più moderna che riuscirà ad imporsi dopo il ‘900, ma che per ora non poteva riuscire gradita ai gruppi di pressione che appoggiavano e condizionavano il re. A quest’ultimo, malgrado l’antipatia personale, non rimase che rivolgersi a Crispi che s’impegnò soprattutto in politica estera. La ripresa e il potenziamento, sull’imitazione e a rimorchio della foga imperialistica delle grandi potenze, dell’espansione coloniale in Africa non rispondevano soltanto all’esigenza di creare un diversivo rispetto alla grave situazione interna, bensì erano stati richiesti da quei gruppi affaristici che avevano voluto e ottenuto l’allontanamento di Giolitti e che ora contavano di ricavarne notevoli vantaggi sia pure indiretti (ordinativi militari, appalti di lavori pubblici, noli marittimi, ecc.).
Nel frattempo, però, la situazione generale veniva nuovamente evolvendosi: per superare definitivamente la crisi, di cui si incominciava a intravedere la fine nel ‘95 e di cui già si avvertivano i primi effetti positivi, era necessaria una politica di pace che abbandonasse l’avventurismo e i sogni di grandezza. L’opposizione industriale si rafforzò ulteriormente; i gruppi affaristici indeboliti notevolmente dal terremoto bancario del ‘93-’94 non erano più in grado di sostenere Crispi e la sua politica estera. La sconfitta di Adua servì ad aprire gli occhi sulla inanità di un simile sforzo, privo di un reale riscontro con le possibilità e le esigenze del paese. Il clamore e la commozione che la disfatta suscitò nell’opinione pubblica, offrirono una facile occasione agli oppositori di Crispi per sbarazzarsi definitivamente di lui.
La borghesia si mostrava sempre più inquieta: essa avvertiva che l’alleanza cominciava a non rendere più, mentre intatti ne rimanevano il costo e gli obblighi. Voci sempre più consistenti e meno isolate si levavano a richiamare Umberto al suo senso di lealtà e di fedeltà ai propri doveri istituzionali, mettendolo in guardia dai pericoli che potevano venire alla stessa monarchia.
La morale o il succo di queste minacce era semplice: una corona che si rifiuta o non è in grado di farsi istrumento per servire gli interessi del popolo, o per meglio dire della sua classe dirigente, e che non costituisce nemmeno più quell’elemento di lusso a causa del discredito che si è attirato, rappresenta un intralcio grave allo sviluppo armonico del sistema, addirittura ne mette a repentaglio l’esistenza.
A questi elementi inquieti, si contrapponevano, ispirati dall’alto, i conservatori, che proclamavano la propria fedeltà fino all’estremo alla monarchia, la lusingavano con suggestioni e prospettive di rinnovato prestigio e che suggerivano la via del colpo di Stato. Non erano però tempi adatti a simili imprese, dato lo scarso credito e la poca autorità di cui godevano sia la corona che l’esercito. Fu Sonnino a trovare la formula giusta, che ebbe immediatamente successo: «Torniamo allo Statuto». Si trattava cioè di attuare un colpo di Stato legalizzato dal Parlamento, eliminando tutte quelle degenerazioni degli istituti, previsti dalla costituzione, ma deformati irrimediabilmente da un lungo periodo di regime parlamentare.
Spinto dalle suggestioni reazionarie del suo grande amico Guglielmo II, di Margherita e dei più fidi cortigiani, sostenuto politicamente solo dai settori più retrogradi della borghesia italiana, Umberto era pronte a marciare per la via indicata da Sonnino si trattava solo di attendere l’occasione buona, che non tardò a presentarsi l’anno dopo a mezza primavera. Lo spunto, com’è noto, fu dato dai tragici avvenimenti di Milano che provocarono una reazione indiscriminata e violentissima, quale non si era ancora vista nella pur tormentata storia del Regno.
La frenesia repressiva solo in apparenza nasceva da un irrazionale e esagerato fenomeno di paura nei confronti di eventuali sconvolgimenti sociali, in realtà obbedì va a un preciso disegno politico, che da una parte mirava a riunire in un fronte comune antirivoluzionario i diversi gruppi della borghesia, dall’altra intendeva infierire iu colpo definitivo a tutta l’opposizione, particolarmente a quella socialista. Conseguiti ambedue gli obiettivi, il piano proseguiva secondo l’ordine prestabilito: cadut Di Rudinì, Umberto I poté finalmente chiamare un generale, e per giunta piemontese, Luigi Pelloux, col preciso mandato di trasformare, in nome del sovrano e con l’approvazione del Parlamento, il regime parlamentare. Così facendo, Umberto fu costretto a esporsi in prima persona, rinunciando a quelle apparenze democratiche che erano servite a mascherare la sua azione. Ma il processo di evoluzione verso un nuovo e più avanzato assestamento della borghesia italiana iniziatosi nel ‘96, non costituiva un fenomeno transitorio di cui si potesse invertire la tendenza: esso mirava a investire e coinvolgere un sempre maggior numero di settori e infrastrutture ai fini della loro eliminazione o trasformazione, e per quanto Umberto impegnasse nel contrasto tutto il peso e l’autorità della propria persona, ottenne solo di ritardarne le conclusioni e influenzarne i risultati, ma non poté impedirne l’avvento.
Umberto ormai non era più che un sopravvissuto, il rappresentante di una politica battuta nella sua prova estrema e di un’epoca ormai destinata al superamento. Sempre più impellente si avvertiva la necessità di un ricambio al vertice delle istituzioni: non ci fu questa volta una provvidenziale polmonite, né ci fu tempo per pensare a soluzioni di ripiego (abdicazione, luogotenenza, ecc). Il 29 luglio 1900 Umberto I moriva a Monza per mano di Gaetano Bresci, il quale intendeva così vendicare le non dimenticate vittime di Milano e la politica reazionaria.


Da Lezioni di storia. La fine dei Savoia, supplemento al “manifesto” senza indicazione di data, ma primavera 1994.

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