5.6.16

Prostituzione nigeriana. Il ratto di Vivian intrappolata nel juju (Giuliana De Vivo)

A Vivian non piace ricordare. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, si sveglia alle 6.30 e cammina spedita verso la metro che la porterà al lavoro, nella mensa di una scuola elementare di Roma. Non si volta indietro. Ma a volte il passato calpesta il suo sonno: si rivede con indosso un vestito bianco macchiato di sangue, rivede papa, sua moglie e lo sciamano. Nell’incubo non hanno volto, però ripetono nei suoi confronti quel rituale di quasi quattro anni fa. Tanto è trascorso dal giorno del juju, variante locale del rito voodoo con cui è cominciato il suo viaggio verso l’Italia.
«Mi spogliarono, mi fecero indossare un vestito bianco e inginocchiare sull’acqua. Papa sgozzò un gallo che aveva portato, ne prese le interiora e le poggiò sulla mia testa, schiacciando forte perché il sangue mi colasse sul corpo. Lo sciamano cominciò la preghiera, diceva: “Se onorerai il tuo debito la tua vita proseguirà liscia come l’acqua di questo mare. Se non paghi finirai in un vortice. Io promisi. Anche se non ci credevo... Non so se ci credevo, in quel momento sentivo che il juju era più forte, che mi soggiogava», racconta Vivian (nome di fantasia), adesso che è abbastanza libera da sfidare se stessa nello sforzo di voltarsi indietro, solo per qualche ora.
Iniziano sempre così le storie delle donne vittime di tratta dalla Nigeria. Destinate allo sfruttamento sessuale in Europa, in tre anni quelle arrivate via mare nel nostro Paese sono più che decuplicate: 433 nel 2013, 1.454 nel 2014, 5.633 nel 2015, denuncia l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Un aumento spropositato anche rispetto alla crescita generale di persone sbarcate sulle coste italiane nello stesso periodo.
L’approdo di Vivian a Lampedusa si colloca all’inizio di questa curva crescente, nel settembre del 2013. La sua è una vicenda che si discosta, nella prima parte, dal copione classico. «Quasi sempre i parenti sanno che le ragazze andranno a prostituirsi: è un’attività accompagnata dallo stigma solo se non ti arricchisci; se invece fai i soldi è tollerata. Purtroppo, in un Paese dove indigenza estrema e corruzione sono diffusissime, la ricchezza è un valore enorme», osserva Simona Moscarelli, esperta legale dell’Oim. Quello che spesso non si conosce è la portata reale del debito contratto: «Prima era attorno ai 50 mila euro, adesso è sceso a 30 mila. Si tratta in ogni caso di somme che pensano di poter restituire con qualche mese di lavoro in strada. Non è così».
Vivian non è stata venduta da familiari consenzienti, spinti dalla povertà, in cerca di una chance di sopravvivenza se non di riscatto sociale. È finita nella rete di trafficanti e maman per mancanza di appigli.
Il fratello maggiore scomparso in circostanze ignote. La seconda moglie del padre musulmano che, rimasta vedova, si appropria di tutto il poco che hanno e la taglia fuori dalla nuova famiglia. La madre, cattolica pentecostale, uccisa poco dopo da un’infezione da diabete che non aveva potuto curare. Uno zio che le lascia le prime violazioni sul corpo. Sola, a 22 anni, incontra l’uomo che ancora oggi chiama papa – «probabilmente un trafficante improvvisato», ricostruisce Chiara Spampinati dell’associazione Differenza donna, la prima a parlare con Vivian quando arrivò nel Cie di Ponte Galeria a Roma, convincendola a sporgere denuncia. È lui a prometterle il passaporto e un lavoro in un ristorante in Niger. «Mi spiegò che non mi conosceva, e che quindi prima di andare a Benin City per fare i documenti dovevamo fare il rito, altrimenti non si sarebbe potuto fidare di me», ricorda. Il juju si svolge in una delle piccole località dove il Niger incontra l’oceano. Quello subìto da Vivian non è tra i più violenti, «il rito canonico prevede che alla ragazza si taglino una ciocca di capelli, i peli delle ascelle o quelli pubici, e che le si pratichi un taglio tra le scapole, in mezzo al seno oppure sul braccio. A volte si procede durante le mestruazioni, dando alla vittima nuovi indumenti intimi nel corso della cerimonia», spiega Spampinati. Una cerimonia di espropriazione dell’anima, «un atto in cui non conta tanto la violenza in sé, ma il simbolismo: sancisce la perdita della proprietà di te stessa, è un rito di magia nera, in teoria slegato dalla religione ma percepito come strettamente connesso ad esso, ed è per questo che lo subiscono tutte, musulmane e cristiane», aggiunge Ilaria Boiano, avvocato di Differenza donna.
Il lavoro nel ristorante di Agadez durerà pochi mesi: «Il marito della proprietaria mi violentava. Lei lo scoprì, s’infuriò e mi cacciò via». Vivian finisce nelle mani di una maman: «Appena fuori, sulla strada di fronte al ristorante vidi una donna su un pick up. Disse che andava in Libia e si offrì di portarmi con lei. Avrei pagato all’arrivo». Di nuovo senza alternative, spaventata e bisognosa di qualcuno di cui fidarsi, accetta. La rotta è la solita, quella che passa per Dirkou, da anni checkpoint dei trafficanti prima di passare il confine. «C’erano auto cariche di persone, si fermavano tutti lì a prendere le taniche d’acqua». Ma arrivate a Zuwara, dopo qualche settimana come aiutante domestica in una casa, la maman alza la posta: i soldi che guadagna non bastano per ripagare il viaggio. «Mi mise in contatto con un uomo, che mi portò in una connection house». È il ghetto dell’addestramento verso la schiavitù in Europa: a quel punto il destino delle ragazze come Vivian è già deciso, vengono abituate a prostituirsi, stuprate, torturate. L’obiettivo è piegarle psicologicamente, ammaestrarle a non fidarsi dell’uomo bianco.
«L’instabilità politica in Libia e la presenza di Boko Haram nel nord della Nigeria hanno amplificato la capacità di fuoco di queste organizzazioni criminali, che con il traffico di donne hanno trovato un business redditizio e funzionale al controllo del territorio», osserva ancora Simona Moscarelli. Prima si muovevano anche in aereo, con documenti falsi, da Lagos verso gli hub di Parigi, Madrid, Milano. Ora i controlli più rigorosi negli scali europei favoriscono la rotta attraverso il deserto e il Mediterraneo. Questo spiega in parte il forte incremento del flusso via mare. Oltre a una domanda, evidentemente, alta. E che negli ultimi tempi si caratterizza per un aumento delle minorenni – l’anno scorso circa un migliaio, istruite a dichiarare la maggiore età – e di donne in stato di gravidanza perché, si legge nell’ultima relazione dell’Oim, i trafficanti sanno che «la presenza di un bambino favorisce spesso la permanenza legale delle donne nei Paesi di destinazione, lasciandole più libere di prostituirsi ed essere sfruttate».
«Dopo circa due mesi l’uomo mi disse: ti porto in Europa con la barca, non so dove finirai ma se ti va bene qualcuno all’arrivo ti aiuterà. Tu non hai nessuno, non ti conviene restare qui». La partenza avviene da Tripoli, passando per altre violenze in un’altra connection house. Vivian, nella tragedia, è stata fortunata: il barcone con cui ha fatto la traversata è andato in avaria, nei soccorsi è stata separata dal trafficante che era a bordo con lei, 24 ore dopo l’attracco a Lampedusa era al Cie di Ponte Galeria.
Ma non va sempre così. Spesso le ragazze viaggiano con in tasca un pizzino con il numero di telefono di un’altra maman che le aspetta a destinazione, e sono loro a chiamarle. Perché, per contraddittorio che sembri, guardano ai loro aguzzini con un sentimento di gratitudine, «come a qualcuno che ha comunque permesso loro di arrivare in Europa; e allo sfruttamento stesso come a un prezzo da pagare per raggiungere una situazione di benessere», spiegano dall’Oim. Gli operatori, tra aprile 2014 e ottobre 2015, hanno individuato 3.952 vittime di tratta sbarcate sulle coste sud d’Italia. Se va bene, al porto riescono a parlare con loro, informandole su diritti e vie d’uscita possibili. Nello stesso periodo quelle convinte a denunciare appena arrivate sono state 91, di cui 36 minorenni. Poche: è come svuotare il mare con un cucchiaino.
Per l’informativa ci sono pochi minuti a disposizione, la si fa per gruppi nei quali è spesso presente anche la maman, non c’è privacy. Molte di loro non denunciano perché immaginano maledizioni conseguenti al tradimento del rito, o temono ritorsioni nei confronti dei familiari rimasti in Nigeria. Che non sono rare (si veda l’articolo qui sotto). «Noi pensiamo che le vittime di tratta siano molte di più, oltre il 70%. Per questo è importante anche intervenire lì, lavorando a partire dal fattore culturale», conclude Moscarelli.

Le organizzazioni
Le più note si chiamano Aye, Black Eye (nato con una scissione del primo gruppo), Vikings. Evoluzione violenta delle Secret Cults (un po’ confraternite e un po’ sindacati degli studenti, nate a metà del secolo scorso), dal 1999 in poi, con l’inasprirsi dei conflitti interreligiosi, «sono state comprate dalla politica e hanno avviato attività criminali», spiega Rosanna Paradiso, ex presidente della onlus Tampep e consulente della Procura di Torino per la tratta di donne dalla Nigeria. Hanno investito nelle attività più redditizie: truffe online, clonazione di carte di credito, traffico di droga e di donne. «A questi gruppi si rivolgono le maman per minacciare le ragazze», e sono loro ad aver conferito ai riti magici l’attuale connotazione coercitiva: «In origine erano una sorta di benedizione per la figlia che partiva».
Per gli stupefacenti si avvalgono della manovalanza dei corrieri dell’Est Europa, «in maggior parte di nazionalità bulgara, per consentire una più sicura circolazione all’interno dell’area Shengen riducendo al minimo il rischio di controlli», ha scritto la Direzione nazionale antimafia nella sua relazione annuale 2014. I viaggi delle ragazze vendute s’intersecano invece con il percorso dei migranti attraverso il deserto e il Mediterraneo: il regno dei trafficanti di uomini, non per forza coinvolti nel successivo sfruttamento della prostituzione, ma in grado di «assicurarsi ingenti incassi dalla sola gestione del trasporto illegale», spiega a “pagina99” Calogero Ferrara, pm della Dda di Palermo titolare delle inchieste Glauco 1 e Glauco 2, avviate dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 in cui morirono 366 migranti a poche miglia dal porto di Lampedusa. Uno degli scafisti, l’eritreo 31enne Nuredin Atta Wehabrebi, ha deciso di collaborare con la giustizia. È il primo pentito tra i trafficanti. Le indagini hanno portato finora a 40 misure cautelari, tutte nei confronti di africani.

Ma nei tribunali italiani non fermiamo i veri boss
Nei tribunali italiani si spezza solo l’ultimo anello della catena del traffico. Arrivare all’altra estremità è più difficile: la natura transnazionale del crimine presuppone una cooperazione che nel caso della Nigeria è spesso infruttuosa. Da noi il numero di processi istruiti per articolo 601 del codice penale, che punisce la tratta di persone con pene da otto a 20 anni, è esiguo rispetto a quelli per articolo 12 comma 3 ter del testo unico del 1998, la norma relativa al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato dalla finalità della prostituzione. La ragione tecnica la spiega bene Paolo Borgna, procuratore aggiunto a Torino dove coordina il gruppo criminalità organizzata e sicurezza urbana, che per anni si è occupato di migranti e criminalità transfrontaliera. «La scelta sulla strada da percorrere dipende spesso da come si presentano i fatti: l’articolo 601 comporta una sforzo accusatorio maggiore, bisogna provare l’assoggettamento fisico della persona – per esempio che la ragazza non può avere contatti telefonici non controllati, che non può spostarsi se non accompagnata – o psicologico». Per farlo servirebbero più intercettazioni ambientali anche dall’altro lato del Mediterraneo, e squadre di interpreti ben assortite per comprendere cosa succede in una federazione di 36 Stati con oltre 500 lingue locali. «Nella mia esperienza, capita di frequente che in primo grado sia riconosciuto anche il reato di tratta e poi in appello solo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», prosegue Borgna. E precisa: «Da un punto di vista delle condanne non è un problema: con l’articolo 12 aggravato si può arrivare in teoria fino a 22 anni di reclusione, quindi pene persino più alte di quelle previste per la tratta». Ciò che in questo modo rimane sommerso è l’estensione territoriale del fenomeno. «Il maggiore punto debole delle indagini è il seguente: se una ragazza che si trova in Italia sporge denuncia, viene portata in una struttura protetta. Ma non abbiamo gli strumenti per tutelare allo stesso modo i suoi familiari lì. Non possiamo prometterle che ai genitori non venga bruciata la casa. Così accade che le giovani che decidono di sottrarsi alla schiavitù poi si vedano recapitare i filmati delle vendette subìte dai parenti». Nel luglio del 2003 in Nigeria è nata la Naptip (National agency for the prohibition of trafficking in persons), con il compito di indagare sui traffici di persone, anche rinforzando le sinergie con altri Paesi. Quattro mesi dopo l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna e il ministro della Giustizia nigeriano Akinlolu Olujinmi firmavano un memorandum of understanding di cooperazione.
«Io ero nella delegazione che, assieme ad associazioni e funzionari del ministero dell’Interno selezionati dall’Unicri (United nations interregional crime and justice research intistute), andò in missione in Nigeria, tenendo corsi di formazione a pm e poliziotti», ricorda Borgna. «Doveva essere un nuovo strumento di protezione ai parenti delle ragazze. Ma negli anni, di fronte a denunce e verbali inviati dall’Italia, l’Agenzia ha risposto che le famiglie erano irreperibili, o che addirittura avevano rifiutato il programma di protezione». I maliziosi dicono che la Naptit sia stata un’operazione di facciata in un Paese dove il traffico di prostitute in Europa fa girare molti soldi. «Questo non lo credo», risponde il magistrato, «non ci sono elementi per sostenerlo. Ma di fatto l’Agenzia non sta funzionando come si sperava». E già due anni fa la Direzione nazionale antimafia scriveva nella sua relazione annuale che «le indagini possono essere sviluppate solo contro i trafficanti individuati in Italia, giacché non si riesce a ottenere alcuna concreta collaborazione giudiziaria dal Paese d’origine per colpire i capi che gestiscono i traffici». Al massimo si prendono i pesci piccoli, gli squali del sistema restano dove sono.


Pagina 99, 7 maggio 2016

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