25.9.16

Cibo e letterarura. D'Arrigo, la fera alla ghiotta (Anna Malerba)

Sulla estrema costa tirrenica della Calabria, a pochi chilometri dalla mitica Scilla, si possono incontrare ancora le ultime rappresentanti della antica e fiera dinastia delle «bagnarote» che hanno molte e non superficiali affinità con le «femminote» di Horcynus Orca, il ponderoso romanzo di Stefano D’Arrigo, ristampato ora negli Oscar Mondadori. La loro occupazione e fonte unica di guadagno è il contrabbando del sale: comprano il sale franco in Sicilia, a Messina, e lo portano, nascosto in tasche e sacchette cucite sotto le ampie sottane, fino in Calabria facendo avanti e indietro fra Scilla e Cariddi.
’Ndria Cambria, il giovane marinaio di Cariddi protagonista del romanzo, durante il suo viaggio verso la Sicilia nell’ottobre 1943, arriva al paese delle femminote proprio mentre nelle case le donne stanno cucinando «la fera». Questa, infatti, è un’altra cosa per la quale vanno famose le femminote «non solo per il saliare senza pagare dazio e il sopraregnare sopra l’uomo, anche per il loro gusto appassionato di cervella e di ventresca di fera».
«Fera» sono i pesci selvaggi, abitualmente considerati non commestibili o poco commestibili come il delfino e il verdone (tipo di squalo voracissimo), e la famosa Orca, gigantesco e feroce cetaceo della famiglia dei delfini, che raggiunge in qualche caso la lunghezza di 6 metri. La fera che le femminote usano cucinare «alla ghiotta», però, è certamente il delfino comune, cosmopolita frequentatore di mari e oceani, comunissimo nel Mediterraneo. Il fatto grave e imbarazzante è che mangiare il delfino è un po’ come mangiare il cane: il delfino ha fama di animale simpatico e giocoso, intelligente e amico dell’uomo. Si raccontano storie di bambini presi in groppa e salvati dal delfino, di uomini che hanno mantenuto per anni rapporti di amicizia con il delfino che veniva sulla spiaggia apposta per incontrarsi con loro, e lo scrittore scienziato Leo Szilard attribuisce a questi pesci doti profetiche e saggezza superiore agli uomini.
E adesso chi se la sente di mangiare la fera? Per incoraggiarvi posso dire che probabilmente la forza e l’energia eccezionali delle bagnarote, e quindi delle femminote, sono dovute al loro cibo «forte». Per questo lo servono anche ai loro mariti, perché siano all’altezza delle loro pretese erotiche. E pare proprio che tra le femminote e i loro uomini regni un accordo perfetto. Infatti, dice D’Arrigo, «ai mariti, nemmeno a loro gli schifava la fera. Del resto, non avrebbero altrimenti tenere testa a quel terribilio di femmine, perché in mancanza di ostriche o di aragoste, avevano uno stretto bisogno di quei bocconi forti e pietrosi per addobbarsi la spina dorsale e addobbargli poi i fianchi alle loro mogli».
La ricetta della fera «alla ghiotta» descritta da D’Arrigo corrisponde esattamente al modo in cui, in quella zona della Calabria, si cucina davvero il delfino (il delfino, seccato al sole, si mangia anche in Liguria dove curiosamente viene denominato «musciamme», come in Calabria). Sebbene non venga da tutti apprezzato come dalle femminote, questo pesce ha il vantaggio di essere fra tutti il più economico e quindi abbastanza presente sulla tavola dei calabresi più poveri.
Per fare perdere alla fera l’odore e il «sapore di bestino», dopo averlo lavato sarà bene lasciarlo per una intera nottata a bagno nell’aceto. Va quindi tagliato a fette come fosse pesce spada o palombo, salato e messo sul fuoco in un tegame di coccio con olio c un trito di cipolla e sedano abbondante. Quando comincerà a rosolare, vanno aggiunti capperi salati e olive nere, pomodori pelati e tagliati a pezzetti, peperoncino piccante. Durante la cottura, se necessario, si può aggiungere un po’ d’acqua.
A confronto con «questo pasto feroce» delle femminote, appare tanto più frugale la merenda offerta a ’Ndria Cambria dalle due «femminelle» sulla spiaggia del Golfo di Santa Eufemia. D’altra parte le due femminelle, madre e figlia, sono anch’esse molto diverse dalle femminote, come si può facilmente desumere dalle rispettive denominazioni.
Le due donne offrono a ’Ndria Cambria pan biscotto, olive infornate e fichi secchi. Da bere: acqua. Questa è una merenda semplice e rustica alla portata di chiunque, che consiglierei tuttavia di accompagnare con vino bianco secco al posto dell’acqua.
Per fare il pan biscotto calabrese bisogna anzitutto fare il pane in casa nel modo tradizionale, usando però farina integrale di grano duro. Si può aggiungere una piccola quantità di farina di granturco. Una volta che le forme saranno lievitate (da preferire il lievito naturale di pasta acida al lievito di birra), si metteranno a cuocere in un forno a legna. Quando il pane avrà raggiunto la classica doratura, si dovrà estrarre dal forno e tagliare a fette che andranno quindi rimesse nel forno e lasciate a seccare.
È un pane che non ha certo un bell’aspetto, ma è di sapore molto gustoso e, per così dire, primitivo. E naturalmente è durissimo. Dice D’Arrigo: «La madre stentava coi suoi denti a sminuzzare il pane duro e allora la figlia spezzettò coi denti davanti, raccogliendolo nel palmo della mano, uno di quei pezzi di pane e così sbriciolato lo passò alla madre». Non avendo a disposizione una figlia così servizievole si consiglia questo pane solo a chi ha buoni denti.
Per semplificare la preparazione del pan biscotto, si può anche comprare del pane integrale di buona qualità, tagliarlo a fette e metterlo nel forno della stufa, a fuoco molto basso finché non sia secco. Non sarà proprio lo stesso, ma reggerà dignitosamente il confronto con quello delle femminelle.
Le olive infornate sono più semplici da preparare. Bisogna cogliere le olive molto mature, cioè quando sono ben nere, quindi, dopo averle incise una ad una come le caldarroste, si getteranno nell’acqua bollente. Si ritireranno dopo una rapida sbollentata per metterle in un apposito recipiente di coccio tutto forellato (si può trovare in un negozio di artigianato calabrese, oppure si potrà usare un semplice scolapasta), coperte di sale fino e condite con aglio, origano e peperoncino piccante. Si lasceranno così a scolare l’amaro per qualche giorno, rimestandole di tanto in tanto. Poi andrebbero esposte al sole per una mattinata e finalmente infornate a calore moderato fino a che saranno ben asciutte.
I suggerimenti gastronomici che si possono trovare nelle fitte 1257 pagine del romanzo di D'Arrigo non sono molto numerosi, ma la ricetta della “fera alla ghiotta” ha certamente il pregio dell'originalità e invano la si cercherebbe nei migliori libri di cucina.


“La Gola”, n.1, ottobre 1982

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