13.11.16

Nelle carceri di Stalin. Storia di un poeta minore, ebreo e comunista (Luca Fiorentino)

«Berlino oscillava tra le smorfie e le lacrime, danzava sull’orlo dell’abisso, sballottata fra l’eccesso di piacere e l’eccesso di miseria, sferzata da una voluttà assurda e dal terrore che si avvicinava». È la testimonianza più vera di una vita in bilico, di un’esistenza scandita dai sussulti di un’Europa che cambiava volto. Così viveva la Berlino di Weimar Paltiel Kossover, che si presenta e si descrive ne Il testamento di un poeta ebreo assassinato di Elie Wiesel, stampato di recente nella collana “Schulim Vogelmann” della editrice La Giuntina di Firenze.
Paltiel Kossover è un poeta minore tra i russi e tra i poeti ebrei russi, non per mancanza di talento, di ispirazione, ma per mancanza di tempo. Le migliori poesie furono scritte in carcere, nelle carceri senza tempo, senza suoni, delle confessioni e dei torturatori, della Russia di Stalin. Non c’era spazio per le composizioni, si doveva cambiare il mondo.
Gli avvenimenti che si presentano nel corso della lettura danno il senso dei sogni, dei fallimenti, degli alti e dei bassi di persone offerte all’idea della rivoluzione, a un ordine nuovo certo, visibile, nitido al di là delle barricate, dei cadaveri di cui trabocca questo ventesimo secolo.
Come quella di tanti altri ebrei orientali, la storia di Paltiel comincia nello studio, nella yeshivà di Reb Mendel il Taciturno, il sant’uomo che avviava i giovani all’esperienza mistica della conoscenza e dell’esegesi biblica. Comincia con il ricordo di un bambino che conosce il terrore, la morte, che vede sangue, cadaveri, il passaggio della violenza cieca e indiscriminata in un solo giorno. «E, nel bel mezzo, una piccola parola brutale, barbara, che risuona come un urlo di donna o di folla fatta a pezzi, come un corpo sventrato, come un cranio sfondato». È il pogrom. Sensazioni, urla, silenzi pesanti e drammatici non saranno mai dimenticati. Poi cresce l’esperienza mistica, prima nei meandri inesplorati della Bibbia, nei segreti del Talmud, tra le massime dei Padri e il senso ebraico dell’esistenza, poi, con l’amico Efraim, nella cospirazione politica, nella nuova idea rivoluzionaria che invita il giovane studioso al passaggio dalla riflessione all’azione. La tensione mistica non scompare, ma addirittura si rafforza. La certezza dell’arrivo di un’era messianica trova nuova forza nella rinuncia all’attesa, nella scelta di combattere, di tessere con le proprie mani una trama che avvicini il momento sognato, di rinnovarsi e rinnovare il mondo nella nuova forma politica.
La benedizione del padre lo accompagna a Berlino, con la promessa di non dimenticare di mettere i tefillin (i filatteri con i precetti di Dio, da mettere sulla fronte e sul cuore ogni mattina), con la sicurezza di essere compreso dalla famiglia che non avrebbe mai più rivinto, «I tuoi amici comunisti, a eccezione di Efraim; non li conosco», aveva detto suo padre; «so soltanto che aspirano a diminuire l’infelicità nel mondo. Questo conta, questo solo conta».
La famiglia è memoria, Llanov un borgo di ricordi, Berlino la realtà, la lotta, gli ideali, il cuore di un mondo da cambiare, una donna e la rivoluzione. Berlino è la nuova cultura, e il vivere sul filo del rasoio. E la lotta, la speranza e nuove elezioni. «I poveri, i disoccupati, i senza casa... non potevano non eleggerci». Invece eleggono Hitler. È il crollo dei sogni, la fine della fiducia e della speranza, il suicidio dei dirigenti, lo sbando. Una nuova diaspora. Paltiel fugge a Parigi, confortato dal mistico che resiste in lui, accompagnato, lo sarà fino alla fine, dalle parole di David Abulesia, professore ebreo alla continua ricerca del Messia, una figura a metà tra la realtà amica e appagante e la visione.
Parigi si offre diversa, sulla via del socialismo e amica. È la città internazionale, la ville lumière. La durezza del passato prossimo si stempera nell’attività politica, nelle occasioni d’incontro, nelle missioni speciali.
Un’altra donna, fedele più al partito che agli uomini che si alternano ospiti in casa sua, e la collaborazione come poeta alla rivista ebraica comunista La Feuille portano soddisfazione e sicurezza. «Paltiel Kossover, ebreo di nascita ma poeta per vocazione aveva abbandonato il Dio dei suoi padri a beneficio della classe operaia, l’antiquata Toràh a beneficio dell’ideale comunista, la contemplazione oziosa a beneficio della lotta di classe». Nemmeno la testimonianza di Paul (amico e guida, povero ebreo galiziano d’origine e rivoluzionario per professione) sulla degenerazione dell’idealizzato sistema sovietico, fa breccia nella fede del poeta. Nemmeno un’intera notte di riflessione e il ricordo dell’opinione che Lev Davidovitch in persona aveva espresso a proposito del nuovi militanti, tutti educazione politica e fede nel partito. «Allora, compagno, dimmi se hai letto un buon romanzo ultimamente!», aveva chiesto. E alla risposta che non c’era tempo aveva continuato: «Noi abbiamo cominciato la nostra carriera con la lettura: non c’è nessuna ragione che su questo punto tu sia differente». Ma non c’è tempo per la lettura, né per la riflessione. Paul sparisce per sempre, inghiottito dalle purghe del 1936. L’anno della Spagna in fiamme, della lotta spietata, di troppi morti.
La Spagna chiama Paltiel, e risveglia i suoi sensi intorpiditi dalla propaganda. Il sangue versato e le violenze viste, anche da parte degli antifascisti, gli eccidi di anarchici da parte comunista e le inspiegabili sparizioni dei compagni di ogni giorno lo scuotono. Capisce Paul, e al ritorno a Parigi non è più lo stesso. Ricorda sempre più le sue origini ebraiche, le preghiere di suo padre di non dimenticare, che prima di morire gli faranno scrivere a suo figlio: «Che ironia, figliolo: ho vissuto da comunista e muoio ebreo».
Vede perciò con l’occhio smaliziato di un’esperienza sofferta il nuovo patto Ribbentrop -Molotov, per il quale, come militante comunista, viene espulso da Parigi. La geografia europea è sconvolta. La sua terra è in parte sovietica, ed è lì che va, in cerca di un luogo dove lasciarsi vivere. Mentre il poeta trova tutta la sua forza espressiva, l’uomo apre definitivamente gli occhi. Il paese del «socialismo reale» è un carcere strisciante. È l’inizio della seconda guerra mondiale. Silone ha già urlato le sue denunce del sistema sovietico. (Passeranno 41 anni perché Berlinguer possa dire, sono parole di questi giorni, che «la spinta di rinnovamento all’est si è esaurita»). Paltiel entra nel nuovo inferno, malato di cuore,come portaferiti. Avanza con l’esercito russo, sempre più verso la vittoria, verso ovest, verso Berlino. Avanza, sempre più, fino al suo paese, fino a Lieanov.
Eccolo il luogo dove è nato, senza più ebrei.
Senza genitori, senza parenti né radici. Una terra desolata e ora un campo profughi. Certamente molto più di un pogrom. È l’olocausto.
Finita la guerra Paltiel è richiamato al senso ebraico del tempo, della storia, delle generazioni. Ha un figlio, che dopo la sua morte porterà l’eredità spirituale del poeta e potrà vedere i funzionari che, dopo il ventesimo congresso del Pcus, annunceranno la riabilitazione di suo padre. Avverte la fine, l’annuncio della sua prossima eliminazione nei giustizieri che lo prelevano in casa. Cominciano gli interrogatori, le richieste di confessione e le minacce. Si esprime fino in fondo la macchina di costrizione psichica che piegherà anche la resistenza di Paltiel. La repressione staliniana
(forse seguita alla calunnia del complotto dei medici ebrei) si concretizza nell’«uomo della quarta cantina». È la fine.

La storia è bruciante per l’attualità, per 1 paralleli immediati che suscita con la Polonia di oggi. È troppo fresca la «normalizzazione» di Jaruzelski, troppo dura la rinnovata ferita dell’antisemitismo, per non collegarli al dramma del rivoluzionarlo ebreo. I processi ai militanti di Solidarnosc sono iniziati. Il gelo decima gli internati e spezza la resistenza. Non si normalizza il paese con la propaganda politica. Piuttosto lo si educa con la lettura, magari con i versi degli assassinati. Ritornano più forti di prima le radici recise, e l’ebreo è un ebreo comunista. Scriveva in yiddish il poeta dell’est, nella lingua dei suoi padri: «Ascolto il vento / che spazza / i continenti inghiottiti / Ascolto la notte / che porta / i bambini nati morti. / Ascolto la preghiera / del condannato / che non sa più pregare. / Ascolto la vita / che abbandona / il moribondo solitario».

"il manifesto", 31 dicembre 1981

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