«Berlino oscillava tra
le smorfie e le lacrime, danzava sull’orlo dell’abisso,
sballottata fra l’eccesso di piacere e l’eccesso di miseria,
sferzata da una voluttà assurda e dal terrore che si avvicinava». È
la testimonianza più vera di una vita in bilico, di un’esistenza
scandita dai sussulti di un’Europa che cambiava volto. Così viveva
la Berlino di Weimar Paltiel Kossover, che si presenta e si descrive
ne Il testamento di un poeta ebreo assassinato di Elie Wiesel,
stampato di recente nella collana “Schulim Vogelmann” della
editrice La Giuntina di Firenze.
Paltiel Kossover è un
poeta minore tra i russi e tra i poeti ebrei russi, non per mancanza
di talento, di ispirazione, ma per mancanza di tempo. Le migliori
poesie furono scritte in carcere, nelle carceri senza tempo, senza
suoni, delle confessioni e dei torturatori, della Russia di Stalin.
Non c’era spazio per le composizioni, si doveva cambiare il mondo.
Gli avvenimenti che si
presentano nel corso della lettura danno il senso dei sogni, dei
fallimenti, degli alti e dei bassi di persone offerte all’idea
della rivoluzione, a un ordine nuovo certo, visibile, nitido al di là
delle barricate, dei cadaveri di cui trabocca questo ventesimo
secolo.
Come quella di tanti
altri ebrei orientali, la storia di Paltiel comincia nello studio,
nella yeshivà di Reb Mendel il Taciturno, il sant’uomo che avviava
i giovani all’esperienza mistica della conoscenza e dell’esegesi
biblica. Comincia con il ricordo di un bambino che conosce il
terrore, la morte, che vede sangue, cadaveri, il passaggio della
violenza cieca e indiscriminata in un solo giorno. «E, nel bel
mezzo, una piccola parola brutale, barbara, che risuona come un urlo
di donna o di folla fatta a pezzi, come un corpo sventrato, come un
cranio sfondato». È il pogrom. Sensazioni, urla, silenzi pesanti e
drammatici non saranno mai dimenticati. Poi cresce l’esperienza
mistica, prima nei meandri inesplorati della Bibbia, nei segreti del
Talmud, tra le massime dei Padri e il senso ebraico dell’esistenza,
poi, con l’amico Efraim, nella cospirazione politica, nella nuova
idea rivoluzionaria che invita il giovane studioso al passaggio dalla
riflessione all’azione. La tensione mistica non scompare, ma
addirittura si rafforza. La certezza dell’arrivo di un’era
messianica trova nuova forza nella rinuncia all’attesa, nella
scelta di combattere, di tessere con le proprie mani una trama che
avvicini il momento sognato, di rinnovarsi e rinnovare il mondo nella
nuova forma politica.
La benedizione del padre
lo accompagna a Berlino, con la promessa di non dimenticare di
mettere i tefillin (i filatteri con i precetti di Dio, da mettere
sulla fronte e sul cuore ogni mattina), con la sicurezza di essere
compreso dalla famiglia che non avrebbe mai più rivinto, «I tuoi
amici comunisti, a eccezione di Efraim; non li conosco», aveva detto
suo padre; «so soltanto che aspirano a diminuire l’infelicità nel
mondo. Questo conta, questo solo conta».
La famiglia è memoria,
Llanov un borgo di ricordi, Berlino la realtà, la lotta, gli ideali,
il cuore di un mondo da cambiare, una donna e la rivoluzione. Berlino
è la nuova cultura, e il vivere sul filo del rasoio. E la lotta, la
speranza e nuove elezioni. «I poveri, i disoccupati, i senza casa...
non potevano non eleggerci». Invece eleggono Hitler. È il crollo
dei sogni, la fine della fiducia e della speranza, il suicidio dei
dirigenti, lo sbando. Una nuova diaspora. Paltiel fugge a Parigi,
confortato dal mistico che resiste in lui, accompagnato, lo sarà
fino alla fine, dalle parole di David Abulesia, professore ebreo alla
continua ricerca del Messia, una figura a metà tra la realtà amica
e appagante e la visione.
Parigi si offre diversa,
sulla via del socialismo e amica. È la città internazionale, la
ville lumière. La durezza del passato prossimo si stempera
nell’attività politica, nelle occasioni d’incontro, nelle
missioni speciali.
Un’altra donna, fedele
più al partito che agli uomini che si alternano ospiti in casa sua,
e la collaborazione come poeta alla rivista ebraica comunista La
Feuille portano soddisfazione e sicurezza. «Paltiel Kossover, ebreo
di nascita ma poeta per vocazione aveva abbandonato il Dio dei suoi
padri a beneficio della classe operaia, l’antiquata Toràh a
beneficio dell’ideale comunista, la contemplazione oziosa a
beneficio della lotta di classe». Nemmeno la testimonianza di Paul
(amico e guida, povero ebreo galiziano d’origine e rivoluzionario
per professione) sulla degenerazione dell’idealizzato sistema
sovietico, fa breccia nella fede del poeta. Nemmeno un’intera notte
di riflessione e il ricordo dell’opinione che Lev Davidovitch in
persona aveva espresso a proposito del nuovi militanti, tutti
educazione politica e fede nel partito. «Allora, compagno, dimmi se
hai letto un buon romanzo ultimamente!», aveva chiesto. E alla
risposta che non c’era tempo aveva continuato: «Noi abbiamo
cominciato la nostra carriera con la lettura: non c’è nessuna
ragione che su questo punto tu sia differente». Ma non c’è tempo
per la lettura, né per la riflessione. Paul sparisce per sempre,
inghiottito dalle purghe del 1936. L’anno della Spagna in fiamme,
della lotta spietata, di troppi morti.
La Spagna chiama Paltiel,
e risveglia i suoi sensi intorpiditi dalla propaganda. Il sangue
versato e le violenze viste, anche da parte degli antifascisti, gli
eccidi di anarchici da parte comunista e le inspiegabili sparizioni
dei compagni di ogni giorno lo scuotono. Capisce Paul, e al ritorno a
Parigi non è più lo stesso. Ricorda sempre più le sue origini
ebraiche, le preghiere di suo padre di non dimenticare, che prima di
morire gli faranno scrivere a suo figlio: «Che ironia, figliolo: ho
vissuto da comunista e muoio ebreo».
Vede perciò con l’occhio
smaliziato di un’esperienza sofferta il nuovo patto Ribbentrop
-Molotov, per il quale, come militante comunista, viene espulso da
Parigi. La geografia europea è sconvolta. La sua terra è in parte
sovietica, ed è lì che va, in cerca di un luogo dove lasciarsi
vivere. Mentre il poeta trova tutta la sua forza espressiva, l’uomo
apre definitivamente gli occhi. Il paese del «socialismo reale» è
un carcere strisciante. È l’inizio della seconda guerra mondiale.
Silone ha già urlato le sue denunce del sistema sovietico.
(Passeranno 41 anni perché Berlinguer possa dire, sono parole di
questi giorni, che «la spinta di rinnovamento all’est si è
esaurita»). Paltiel entra nel nuovo inferno, malato di cuore,come
portaferiti. Avanza con l’esercito russo, sempre più verso la
vittoria, verso ovest, verso Berlino. Avanza, sempre più, fino al
suo paese, fino a Lieanov.
Eccolo il luogo dove è
nato, senza più ebrei.
Senza genitori, senza
parenti né radici. Una terra desolata e ora un campo profughi.
Certamente molto più di un pogrom. È l’olocausto.
Finita la guerra Paltiel
è richiamato al senso ebraico del tempo, della storia, delle
generazioni. Ha un figlio, che dopo la sua morte porterà l’eredità
spirituale del poeta e potrà vedere i funzionari che, dopo il
ventesimo congresso del Pcus, annunceranno la riabilitazione di suo
padre. Avverte la fine, l’annuncio della sua prossima eliminazione
nei giustizieri che lo prelevano in casa. Cominciano gli
interrogatori, le richieste di confessione e le minacce. Si esprime
fino in fondo la macchina di costrizione psichica che piegherà anche
la resistenza di Paltiel. La repressione staliniana
(forse seguita alla
calunnia del complotto dei medici ebrei) si concretizza nell’«uomo
della quarta cantina». È la fine.
La storia è bruciante
per l’attualità, per 1 paralleli immediati che suscita con la
Polonia di oggi. È troppo fresca la «normalizzazione» di
Jaruzelski, troppo dura la rinnovata ferita dell’antisemitismo, per
non collegarli al dramma del rivoluzionarlo ebreo. I processi ai
militanti di Solidarnosc sono iniziati. Il gelo decima gli internati
e spezza la resistenza. Non si normalizza il paese con la propaganda
politica. Piuttosto lo si educa con la lettura, magari con i versi
degli assassinati. Ritornano più forti di prima le radici recise, e
l’ebreo è un ebreo comunista. Scriveva in yiddish il poeta
dell’est, nella lingua dei suoi padri: «Ascolto il vento / che
spazza / i continenti inghiottiti / Ascolto la notte / che porta / i
bambini nati morti. / Ascolto la preghiera / del condannato / che non
sa più pregare. / Ascolto la vita / che abbandona / il moribondo
solitario».
"il manifesto", 31 dicembre 1981
Nessun commento:
Posta un commento