Hermann Broch |
Il poema strappato
all'imperatore
Nel corso dei secoli la
figura di Virgilio non ha mai cessato di essere oggetto di culto e di
rielaborazioni letterarie. Pochi autori, comunque, hanno saputo
imprimere al personaggio una densità simbolico-concettuale pari a
quella conferitagli nel nostro Novecento dall’ebreo viennese
Hermann Broch, narratore-filosofo notoriamente complesso che in un
momento cruciale per il patrimonio culturale europeo come quello del
nazionalsocialismo, chiamò a un confronto serrato proprio il poeta
di Mantova, febbricitante e ormai morente, e un imperatore del
calibro di Ottaviano Augusto, utilizzando la leggenda medievale
secondo la quale Virgilio avrebbe voluto bruciare il suo capolavoro,
l’Eneide che gli avrebbe assicurato fama perenne: «Era
logico pensare - ha confermato Broch - che uno spirito della
grandezza di Virgilio non fosse stato costretto a un atto così
disperato da futili motivi, ma che a un simile gesto avesse
contribuito tutta la serie di ragioni storiche e metafisiche della
sua epoca».
Quel confronto venne
trasformato in un’occasione per problematizzarsi sulle ambivalenze
della poesia, per scandagliarne grandezze e miserie, dando origine a
un «classico» della letteratura del Novecento, Der Tod des
Virgil, riedito ora da Feltrinelli nella ariosa traduzione di
Aurelio Ciacchi e apparso originariamente in edizione bilingue
(inglese e tedesca) nel 1945 presso una casa editrice di New York
(l’autore viveva ormai da anni esule negli Stati Uniti, sua patria
d’elezione, ove si sarebbe spento nel 1951).
Questa ristampa va
salutata con favore. Nel 1962, quando uscì in italiano il romanzo fu
accolto con rispetto, ma non parve destinato a grandi cerchie di
lettori. Nel frattempo l’interesse critico per la cultura asburgica
s’è accresciuto, e può darsi che anche i più giovani siano più
generosi persino nei confronti di uno scrittore notoriamente ambiguo
e raffinato come Broch, erede della tradizione ebraica e spietato
demistificatore delle nostalgiche sicurezze della Mitteleuropa e
della civiltà danubiana, del quale d’altronde negli anni scorsi
sono stati riproposti tre altri romanzi (L’incognita,
Editori Riuniti; I sonnambuli, Einaudi; Il sortilegio,
Rusconi) e due saggi tra i più significativi (Hofmannsthal e il
suo tempo, Editori Riuniti; Il Kitsch, Einaudi).
Quale intenzione sorregge
simile viaggio a ritroso? Perché mai rievocare il cantore del
ritorno dell’età dell’oro, il prefiguratore del Messia cristiano
(Iam redit et Virgo...) della IV Ecloga?
Nell’epoca di Virgilio,
Brodi crede di poter ravvisare un significativo parallelo con la
negatività della storia presente, i tratti cioè di una «cultura»
ridotta a Kitsch, la minaccia concreta di un «vuoto» epocale.
Rifiuta pertanto la tesi piuttosto diffusa tra gli storici secondo
cui l’epoca di Augusto avrebbe rappresentato la fioritura
artistica, sociale e politica di Roma, mentre la «crisi» del
sistema romano sarebbe intervenuta propriamente a partire dal III-IV
secolo d.C.; intende cioè evidenziare la presenza di una
«disgregazione dei valori» (per riprendere il titolo di un celebre
saggio contenuto nei Sonnambuli) proprio laddove
apparentemente trionfava l’ordine edificato dall’imperatore, dal
rappresentante del Sacro. Al tempo stesso l’allegorica
trasposizione dei nodi tematici a lui più cari in un contesto così
remoto era un modo per guadagnare distanza dai vissuti personali che
fanno da sfondo alla prima elaborazione del romanzo, avviata nelle
carceri di Alt-Aussee, nel Tirolo, dove Broch finì in quanto ebreo
dopo Anschluss, nel 1938.
Grandioso monologo
interiore, molto simile ad un'ininterrotta autoanalisi, con le sue
oltre cinquecento pagine (e l’autore avrebbe desiderato aggiungerne
altre duecento, considerando il romanzo troppo affrettato!) La
morte di Virgilio si presenta come una sinfonia in quattro
movimenti (Arrivo -La discesa - L’attesa - Il ritorno) in cui
l’intellettuale moderno - nei travestimenti del cantore di Roma -
attua il «ritorno» alla purezza di una mitica origine distaccandosi
dalle menzogne del terrestre, matura l’esperienza della morte e
proietta nell’itinerario virgiliano il dramma di una generazione di
intellettuali posti di fronte all’ascesa di Hitler.
Un romanzo del genere,
definito «l’unico libro del dopo-Joyce», resta certamente
debitore delle esperienze dell’Ulysses joyciano e dello
sperimentalismo di Musil, e appare forse troppo stratificato e
complesso, ma affascina comunque per la capacità di dialettizzare
continuamente i temi e i motivi che vi si agitano (motivi anche
mitico-allegorici legati alla rielaborazione brochiana degli studi
scientifici di Jung e Kerényi, come soprattutto ad esempio la figura
del fanciullo divino Lisania, ricalcato sull'Hermes psicopompo, e
quella della sensuale Plozia, l’amata di Virgilio, ricalcata
sull’archetipo della Core).
Il romanzo brochiano
sembra però soprattutto far tesoro della grande lezione kafkiana
sulla precarietà dell’arte e sulla letteratura come menzogna: «Il
giocoso o il disimpegno - ha scritto Brodi – sono inammissibili
all’epoca delle camere a gas...».
Di qui la difesa delle
ragioni dell’arte nei confronti del grande mecenate, che di fatto
attenta alla sua autonomia, e di qui contemporaneamente la denuncia
della debolezza e del limite di ogni fiducia assoluta nella
«bellezza», la denuncia dell’esteta che confidi nel carattere
assoluto e «redentivo» della creazione artistica nei confronti del
potere. Per questo il cuore, intensamente drammatico, della Morte
di Virgilio è costituito dal confronto-scontro tra Augusto,
presentato - nella mitica prospettiva di un giovane senza età giunto
a compiutezza - come il custode della religiosità ufficiale e del
Sacro e insieme come il portavoce dello Stato (al quale l’individuo
deve hegelianamente tutto assoggettare e sacrificare), e Virgilio,
poeta dell’Eneide che sa umilmente di poter soltanto fruire
delle inconsistenti visioni adunatesi nel suo animo con la complicità
della febbre e di doversi confrontare con l’assenza degli dèi,
nella crisi dei valori.
L’imperatore,
rappresentante del potere, non a caso rivendicherà il poema che lo
celebra, si adopererà nel persuadere Virgilio a consegnargli
l'Eneide, in quanto poema per lo Stato.
In una delle scene più
alte del libro Virgilio si avvedrà che la sua Eneide è di
fatto un poema indifeso, creatura di un imperatore che fagocita anche
l’opera d’arte non disposta a celebrare il potere. Per questo al
poeta non sembra restare altre scelta che quella di bruciare
1’Eneide, per non doverla consegnare ad Augusto, per farla
restare il poema di Plozia, dello spazio figurale non riconducibile
al potere: in un’altra scena non meno suggestiva, grazie alla
mediazione di Plozia, Virgilio parrà confrontarsi (oniricamente?)
con 1’altra Eneide, quella non visibile e non scritta (e
dunque non tecnicizzabile politicamente) custodita da Plozia: «Non
era il suo occhio che leggeva, solo le punte delle sue dita
leggevano, leggevano senza lettere, leggevano mute un linguaggio
senza parole; leggevano il poema senza linguaggio dietro il poema di
(?) parole...».
E tuttavia all’improvviso
Virgilio, attuando una sorta di «mistica del sacrificio gratuito»
(come la definisce Ladislao Mittner nella densa Prefazione al
volume), si decide - in un estremo gesto d’amore - a rimettere la
sua vita nelle mani dell’imperatore romano, in cambio della
liberazione dei propri schiavi da parte di Augusto; accetta cioè,
per così dire, di venire a patti col suo antagonista.
All’origine di tale
gesto non sta tuttavia la resa, bensì la consapevolezza di Virgilio
di non poter morire puro e incontaminato rispetto al potere, ma di
dover morire proprio in qualità di poeta dell’«Eneide»,
di dovere cioè morire come ha vissuto: ossia con tutto il peso dei
compromessi da lui attuati come aedo del potere.
Il tormentato viaggio
alla ricerca dell’ origine, della «patria» , novalisiana risalita
verso e attraverso gli strati dell’esistenza dell’umanità e del
cosmo, si conclude ritualmente con l’affacciarsi sul versante
orfico del silenzio: «Essa (la parola) era per lui
incomprensibilmente ineffabile, perché era al di là del
linguaggio». La poesia, che una volta Broch definì «impazienza del
conoscere», si rivela qui tutta protesa verso il proprio
trascendimento, come una staffetta capace di slanciarsi verso un
territorio che tuttavia non potrà raggiungere, come la ricerca della
verità alla quale è pronta a sacrificare se stessa, come una
tensione all’assoluto che scardina non solo le false certezze della
Mitteleuropa, ma i limiti stessi del linguaggio.
Gioca in ciò - come
qualcuno ha osservato - la suggestione del Wittgenstein
paradossalmente (e segretamente) ostile all’empirismo del Circolo
di Vienna e alla facile fiducia dialettica allorché nel Tractatus
logicus-philosophicus afferma con audacia: «Le mie proposizioni
illustrano, così: colui che mi comprende, infine le riconosce
insensate, se è salito per esse - su di esse - oltre esse. (Egli
deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito)».
Ma questa chiusa del romanzo si direbbe offra anche il definitiva
sigillo di quella situazione effettiva e concreta di «vuoto» dalla
quale malgrado tutto la scrittura brochiana, sempre sospesa tra
apocalissi e messianismo, non può prescindere, pur affacciandosi
sull’utopia. Viandante alla soglia, Broch finisce per confermarsi
anche in questo suo romanzo, summa del suo sentire, quello scrittore
che - con formula assai felice - Hannah Arendt, a lui vicina negli
ultimi anni, ci avrebbe consegnato definendolo l’uomo del «non più
e non ancora».
“latalpalibri – il manufesto”, 28
maggio 1993
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