4.12.16

Il buon selvaggio e i falsi profeti (Michel de Montaigne)

[...]
Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa.
Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. [...]
Quei popoli dunque mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e legami umani. È un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, perdóno, non si sono mai udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica che ha immaginato: «viri a diis recentes» (“uomini appena usciti dalle mani degli dei”, Sececa, Ep. 90).
Hos natura modos primum dedit (“Queste sono le prime leggi che la natura ha dato”, Georgiche, II, 20)
Quanto al resto, essi vivono in una contrada piacevolissima e dal clima temperato; sicché, a quanto mi hanno detto i miei testimoni, è raro vedere un uomo malato; e mi hanno assicurato di non averne visto alcuno tremolante, cisposo, sdentato o curvo per la vecchiaia. Vivono lungo il mare, protetti dalla parte della terra da grandi ed alte montagne; fra queste e quello occupano una pianura larga circa cento leghe. Hanno grande abbondanza di pesce e di carni che non somigliano affatto alle nostre, e le mangiano senza altro accorgimento che la cottura. Il primo che condusse là un cavallo, sebbene fosse venuto a contatto con loro in parecchi altri viaggi, fece loro tanto orrore con quella montura che lo uccisero a colpi di frecce prima di poterlo riconoscere. Le loro costruzioni sono molto lunghe, e capaci di contenere due o trecento anime; rivestite con la scorza di grandi alberi, toccano terra da un lato e si sostengono e si appoggiano l’una all’altra alla sommità, al modo di certi nostri granai la cui copertura scende fino a terra e serve di fiancata. Hanno del legno così duro che ne tagliano e ne fanno spade e graticole per cuocere la carne. I loro letti sono di un tessuto di cotone, sospesi al tetto, come quelli delle nostre navi, a ognuno il suo; perché le donne dormono separate dai mariti. Si alzano col sole, e mangiano subito dopo essersi alzati, una volta per tutta la giornata; non fanno infatti altro pasto che quello. Non bevono allora, come Suida dice di certi altri popoli d’Oriente, che bevevano fuori dei pasti; bevono diverse volte durante il giorno, e molto. La loro bevanda è ricavata da alcune radici, ed ha il colore del nostro chiaretto. La bevono solo tiepida; questa bevanda si conserva solo due o tre giorni; ha un gusto un po’ piccante, non dà alla testa, è salutare per lo stomaco e lassativa per chi non ci è assuefatto; è una bevanda molto gradevole per chi ne ha l’abitudine. Invece del pane usano una certa sostanza bianca, una specie di coriandro confettato. Io ne ho assaggiato: il sapore è dolce e un po’ scipito. Tutta la giornata la passano a danzare. I più giovani vanno a caccia delle bestie con l’arco. Una parte delle donne si occupa intanto a riscaldare la loro bevanda, e questo è il loro compito principale. Qualcuno dei vecchi, la mattina, prima che si mettano a mangiare, fa un discorso a tutti gli abitanti del capannone, passeggiando da un capo all’altro c ripetendo la stessa frase parecchie volte, finché ha finito il giro (poiché sono costruzioni lunghe ben cento passi). Egli raccomanda loro due sole cose: il valore contro i nemici e l’amore per le loro mogli. E non mancano mai di ripetere, come ritornello, questo motivo di gratitudine, che sono loro a mantenere calda e ben preparata la loro bevanda. In parecchi luoghi, e fra l’altro anche a casa mia, si può vedere la foggia dei loro letti, dei loro cordoni, delle spade e dei braccialetti di legno con cui si coprono i polsi nei combattimenti, e delle grandi canne, aperte da un capo, col suono delle quali segnano la cadenza mentre danzano. Sono rasati dappertutto, e si fanno la barba molto meglio di noi, senza altro rasoio che non sia di legno o di pietra. Credono che le anime siano eterne, e che quelle che si sono rese meritevoli di fronte agli dèi dimorino in quella parte del cielo dove si leva il sole; i maledetti invece dalla parte d’occidente.
Hanno non so quali preti e profeti, che si mostrano molto di rado al popolo, avendo la loro dimora sulle montagne. Al loro arrivo si fa una gran festa e una solenne adunata di parecchi villaggi (ogni capannone, come l’ho descritto, forma un villaggio, e distano circa una lega francese l’uno dall’altro). Questo profeta parla loro in pubblico, esortandoli alla virtù e al dovere; ma tutta la loro scienza etica contiene solo questi due articoli, la fermezza in guerra e l’affetto verso le loro donne. Questi profetizza loro le cose a venire, e i risultati che devono sperare dalle loro imprese, li spinge alla guerra o li dissuade dal farla; ma a tale condizione, che se non indovina bene, e se accade loro diversamente da quanto egli ha predetto, è tagliato in mille pezzi, se riescono ad acchiapparlo, e condannato come falso profeta. Per questo, quello che si è sbagliato una volta non lo si vede più.


Da Saggi a cura di Fausta Garavini, Adelphi, II ed.1982 (cap. XXXI)

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