[...]
Ora mi sembra, per
tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di
barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che
ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti
che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la
ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del
paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto
governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa.
Essi sono selvaggi allo
stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura
ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità,
sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti
dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In
quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e
proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto
per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. [...]
Quei popoli dunque mi
sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati
dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità
originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo
imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi
dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano
uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che
Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra
che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi
non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età
dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice
condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo
della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto
pura e semplice quale noi vediamo per esperienza; né poterono
credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi
artifici e legami umani. È un popolo, direi a Platone, nel quale non
esiste nessuna sorta di traffici; nessuna conoscenza delle lettere;
nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di
gerarchia politica; nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di
povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna spartizione;
nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della
parentela oltre a quello ordinario; nessun vestito; nessuna
agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di grano. Le parole
stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione,
avarizia, invidia, diffamazione, perdóno, non si sono mai udite.
Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica che
ha immaginato: «viri a diis recentes» (“uomini appena
usciti dalle mani degli dei”, Sececa, Ep. 90).
Hos natura modos
primum dedit (“Queste sono le
prime leggi che la natura ha dato”, Georgiche, II, 20)
Quanto al resto, essi
vivono in una contrada piacevolissima e dal clima temperato; sicché,
a quanto mi hanno detto i miei testimoni, è raro vedere un uomo
malato; e mi hanno assicurato di non averne visto alcuno tremolante,
cisposo, sdentato o curvo per la vecchiaia. Vivono lungo il mare,
protetti dalla parte della terra da grandi ed alte montagne; fra
queste e quello occupano una pianura larga circa cento leghe. Hanno
grande abbondanza di pesce e di carni che non somigliano affatto alle
nostre, e le mangiano senza altro accorgimento che la cottura. Il
primo che condusse là un cavallo, sebbene fosse venuto a contatto
con loro in parecchi altri viaggi, fece loro tanto orrore con quella
montura che lo uccisero a colpi di frecce prima di poterlo
riconoscere. Le loro costruzioni sono molto lunghe, e capaci di
contenere due o trecento anime; rivestite con la scorza di grandi
alberi, toccano terra da un lato e si sostengono e si appoggiano
l’una all’altra alla sommità, al modo di certi nostri granai la
cui copertura scende fino a terra e serve di fiancata. Hanno del
legno così duro che ne tagliano e ne fanno spade e graticole per
cuocere la carne. I loro letti sono di un tessuto di cotone, sospesi
al tetto, come quelli delle nostre navi, a ognuno il suo; perché le
donne dormono separate dai mariti. Si alzano col sole, e mangiano
subito dopo essersi alzati, una volta per tutta la giornata; non
fanno infatti altro pasto che quello. Non bevono allora, come Suida
dice di certi altri popoli d’Oriente, che bevevano fuori dei pasti;
bevono diverse volte durante il giorno, e molto. La loro bevanda è
ricavata da alcune radici, ed ha il colore del nostro chiaretto. La
bevono solo tiepida; questa bevanda si conserva solo due o tre
giorni; ha un gusto un po’ piccante, non dà alla testa, è
salutare per lo stomaco e lassativa per chi non ci è assuefatto; è
una bevanda molto gradevole per chi ne ha l’abitudine. Invece del
pane usano una certa sostanza bianca, una specie di coriandro
confettato. Io ne ho assaggiato: il sapore è dolce e un po’
scipito. Tutta la giornata la passano a danzare. I più giovani vanno
a caccia delle bestie con l’arco. Una parte delle donne si occupa
intanto a riscaldare la loro bevanda, e questo è il loro compito
principale. Qualcuno dei vecchi, la mattina, prima che si mettano a
mangiare, fa un discorso a tutti gli abitanti del capannone,
passeggiando da un capo all’altro c ripetendo la stessa frase
parecchie volte, finché ha finito il giro (poiché sono costruzioni
lunghe ben cento passi). Egli raccomanda loro due sole cose: il
valore contro i nemici e l’amore per le loro mogli. E non mancano
mai di ripetere, come ritornello, questo motivo di gratitudine, che
sono loro a mantenere calda e ben preparata la loro bevanda. In
parecchi luoghi, e fra l’altro anche a casa mia, si può vedere la
foggia dei loro letti, dei loro cordoni, delle spade e dei
braccialetti di legno con cui si coprono i polsi nei combattimenti, e
delle grandi canne, aperte da un capo, col suono delle quali segnano
la cadenza mentre danzano. Sono rasati dappertutto, e si fanno la
barba molto meglio di noi, senza altro rasoio che non sia di legno o
di pietra. Credono che le anime siano eterne, e che quelle che si
sono rese meritevoli di fronte agli dèi dimorino in quella parte del
cielo dove si leva il sole; i maledetti invece dalla parte
d’occidente.
Hanno non so quali preti
e profeti, che si mostrano molto di rado al popolo, avendo la loro
dimora sulle montagne. Al loro arrivo si fa una gran festa e una
solenne adunata di parecchi villaggi (ogni capannone, come l’ho
descritto, forma un villaggio, e distano circa una lega francese
l’uno dall’altro). Questo profeta parla loro in pubblico,
esortandoli alla virtù e al dovere; ma tutta la loro scienza etica
contiene solo questi due articoli, la fermezza in guerra e l’affetto
verso le loro donne. Questi profetizza loro le cose a venire, e i
risultati che devono sperare dalle loro imprese, li spinge alla
guerra o li dissuade dal farla; ma a tale condizione, che se non
indovina bene, e se accade loro diversamente da quanto egli ha
predetto, è tagliato in mille pezzi, se riescono ad acchiapparlo, e
condannato come falso profeta. Per questo, quello che si è sbagliato
una volta non lo si vede più.
Da Saggi a
cura di Fausta Garavini, Adelphi, II ed.1982 (cap. XXXI)
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