24.1.17

Per l'oblìo contro la memoria. Intervista a David Rieff (Elisa Venco)

Per costruire una pace duratura è spesso utile dimenticare le ferite del passato

«Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla», sosteneva il celebre saggista spagnolo George Santayana. Peccato che questa frase, ormai assurta a verità generale, non regga a un esame empirico. Lo sostiene David Rieff, giornalista, analista politico e saggista che nel libro In Praise of Forgetting: Historical Memory and Its Ironies (Yale University Press, 2016), etichetta l’affermazione come un mero wishful thinking: «È un’idea attraente, ma indimostrata, che quindi andrebbe abbandonata», chiarisce Rieff a pagina99, dalla sua casa di New York. «Pensiamo all’Olocausto: dopo la sua conclusione tutti eravamo convinti di aver imparato la lezione. “Mai più” era il mantra generale. Ma questo ha forse impedito gli stermini in Pakistan nel 1971, in Cambogia sotto gli Khmer rossi o in Ruanda nel 1994?», chiede sconsolatamente.
Il giornalista si spinge oltre: non solo la storia non ci insegna nulla, ma non è neanche detto che ricordare i tempi antichi sia eticamente più nobile che dimenticarli. «Non esiste una categoria assoluta o incondizionata in base alla quale rammentare il passato è morale e l’oblio no. Io credo sia necessario distinguere caso per caso. E anche valutare se la venerazione per la memoria non abbia troppo spesso condotto alla guerra invece che alla pace, al rancore e al risentimento anziché alla riconciliazione, alla determinazione di una vendetta invece che all’impegno per il difficile compito del perdono», scrive.
Almeno tre Paesi sembrano avvalorare la sua teoria: la ex Jugoslavia, dove le contrapposizioni etniche e religiose si sono trascinate per 500 anni, l’Irlanda del Nord, segnata da plurisecolari dissidi religiosi, e Israele. «E in tutti e tre i casi mi sembra che rievocare le ferite, i crimini, i conflitti del passato abbia provocato un ulteriore spargimento di sangue», afferma l’ex inviato.
Come controprova del suo ragionamento, Rieff illustra come proprio la dimenticanza volontaria della storia abbia talora consentito di costruire la pace; un risultato, a suo vedere, desiderabile anche qualora comporti di negoziare con leader spietati che non pagheranno mai per quanto hanno fatto. «Molti paladini dei diritti civili insistono sul fatto che non ci può essere una pace duratura senza giustizia», spiega. «Ma non è vero. La storia è piena di esempi in cui si è potuto ottenere la prima negando la seconda». Vengono in mente l’accordo di Dayton del 1995, che ha risparmiato il presidente serbo Slobodan Milosevic, ma pure evitato di prolungare la guerra civile in Bosnia Erzegovina, e l’abbandono della presidenza del Cile da parte del generale Augusto Pinochet, nel 1990.
Rieff narra che al momento del suo ritiro, era chiaro a tutti che il dittatore se ne andava impunito; eppure per i cileni la domanda di democrazia prevaleva su quella di giustizia. Otto anni dopo, quando il giudice spagnolo Baltasar Garzòn emise un mandato di arresto per il militare, molti pensarono che l’atto giudiziario sarebbe dovuto arrivare prima. Ma se così fosse stato e Pinochet non avesse avuto la garanzia dell’immunità, non avrebbe mai lasciato il potere. Oppure l’esercito, di cui nominalmente era rimasto a capo, l’avrebbe difeso facendo blocco. Dunque nel 1990, quando Pinochet era ancora al potere, sarebbe valsa la pena di difendere a ogni costo la verità o la giustizia? Per Rieff la risposta è no.
Che dimenticare possa essere una scelta virtuosa e più funzionale alla costruzione della pace e dell’unità nazionale lo dimostra anche il cosiddetto Pacto del Olvido (patto del dimenticare), un accordo bipartisan siglato in Spagna nel 1975, dopo la morte di Francisco Franco. Per favorire la graduale reintroduzione della democrazia ed evitare che le polemiche sul recente passato mettessero a rischio la riconciliazione nazionale, la miriade di viali e strade intitolata al Generalissimo e ai suoi alleati venne rinominata, ricorrendo a nomi non di eroi e martiri repubblicani, ma di reali del passato. Una successiva legge, approvata dal parlamento nel 2007, istituzionalizzò la prassi della dimenticanza storica stabilendo la completa rimozione di monumenti e placche che «esaltavano la guerra civile o la repressione sotto la dittatura», ossia tra il 1936 e il 1975.
Neppure l’oblio di Stato però è sempre la scelta migliore. E Rieff ci tiene a operare ulteriori distinguo. Per tragedie ancora non del tutto analizzate o riconosciute, come il genocidio armeno, le azioni delle forze inglesi e francesi durante il periodo coloniale o il destino dei musulmani uccisi a Srebrenica è giusto acclarare la verità. Idem se le vittime e i colpevoli di simili atrocità sono ancora in vita. Ma il compito richiede che gli storici facciano il loro dovere senza curarsi degli esiti, potenzialmente devastanti, delle loro ricerche; i politici devono prenderne atto e metterlo in conto. E non tutti i leader hanno la tempra adatta.
Inoltre, prima di decidere sull’opportunità di approfondire i decenni andati, va considerato che «mentre l’oblio fa un torto al passato, la memoria può fare un’ingiustizia al presente». «La memoria collettiva è un’astrazione», argomenta Rieff al telefono. «È una metafora, una narrativa sui secoli precedenti, il modo in cui l’oggi legge il prima che impariamo a scuola, dove ci facciamo un’idea del passato che non è vera, o non lo è sempre o non del tutto. E qui sta la differenza con la storia: quest’ultima è una lettura critica della realtà, mentre la prima nel migliore dei casi è una sua semplificazione; nel peggiore, una sua perversione, anche se spesso avanzata con le migliori intenzioni». Rispetto all’obiezione che ridefinire il passato di una Nazione possa minarne l’identità, il giornalista dissente: «Non facciamo del passato un feticcio o la verità: è solo la forma in cui il presente riformula i fatti. Una narrativa può essere più corretta di un’altra, ma non è mai completamente accurata e completa».
E soprattutto ogni ricostruzione viene propugnata per fini precisi: favorire l’unità nazionale, rafforzare l’autorità del potere costituito, contenere preoccupazioni contingenti. A seconda delle circostanze, dunque, ogni accadimento o figura storica possono essere reinterpretati, talora anche in senso opposto. Emblematico, a questo proposito, il personaggio di Giovanna d’Arco. Nel secolo 19mo per la destra francese incarnava la determinazione nazionale contro gli eserciti stranieri. Poi la sinistra anticlericale ne fece il simbolo dell’oscurantismo della Chiesa che l’aveva condannata al rogo. Finché, dopo la canonizzazione, ritornò a essere la figura di riferimento per la destra estrema, prima l’Action Francaise o oggi il Front National.
In conclusione del suo saggio, Rieff evidenzia un postulato difficile da smentire: qualunque evento a un certo punto è destinato a diventare remoto e a perdere senso per i viventi. «Quindi, da un lato occorre capire fino a quanti anni prima ha senso spingersi: è giusto ricordare un fatto per 10, 100 o 1.000 anni?», si interroga. «Dall’altro, si tratta di valutare in quali casi accelerare il naturale decadimento degli eventi. Prendiamo l’Olocausto: nel 2050 sul pianeta non vi sarà più nessun superstite dei Konzentrationslager. E allora, di fronte a questa atrocità epocale, si possono assumere due atteggiamenti antitetici: quello del filosofo israeliano Avishai Margalit, autore di The Ethics of Memory (Harvard University Press, 2002) per il quale ciò non toglie l’obbligo per i viventi di proteggere il ricordo che il male radicale cerca di minare. O quello dello storico inglese Tony Judt, secondo cui le gite delle scolaresche nei campi di sterminio segnalano che è finito il tempo di dolersi e inizia quello dell’oblio».
Rieff evidenzia come dal 1945 in poi la Shoah sia stata usata strumentalmente per giustificare l’agenda politica di Israele, a cominciare dal comportamento riguardo alle minoranze arabe. «Non dico che non andrebbe ricordato l’Olocausto. Ma forse occorrerebbe trovare un modo diverso di farlo», riassume. La volontà di preservare i ricordi del passato riflette, in parte, il desiderio umano di vivere oltre il proprio tempo. Ma la fase del lutto, pure essenziale, alla fine deve concludersi, il ricordo del male sfumare e la vita andare avanti. Rieff ci invita a relativizzare l’imprescindibilità di eventi che sono rilevanti solo rispetto all’oggi. La storia è una costruzione, non una maestra di vita ed è inutile leggere gli avvenimenti remoti come se evitandone il ripetersi potessimo prevedere lo svolgimento dei fatti futuri. Purtroppo non è così: al contrario, come riassumeva il politico britannico Enoch Powell, la storia è cosparsa di guerre che tutti sapevano che non sarebbero mai accadute.


Pagina 99, 12 agosto 2016

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