Una rievocazione del boom
del 45 giri tutto sommato buona. Per la precisione il disco di Andavo
a cento allora fu lanciato nel
1962. (S.L.L.)
Quando nel 1961 l’Italia
celebra i cent’anni di unità nazionale, la Repubblica è
giovanissima. Non ha neanche sedici anni. Si è da poco gettata alle
spalle il lungo sofferto dopoguerra; il faticoso processo di
ricostruzione del paese si è concluso con l’esplosione di un
improvviso e dirompente decollo economico, un vero e proprio «boom».
Negli anni del miracolo
economico la musica leggera diventa un fattore vitale che
contribuisce in maniera decisiva a mutare radicalmente il volto di
un’Italia in via di laicizzazione; la canzone acquista i connotati
di bene-simbolo delle nuove generazioni, investite dai nuovi ritmi
travolgenti, al di là dell’estrazione sociale, della provenienza
territoriale, delle appartenenze politiche, e trascinate in una
esperienza collettiva, il cosiddetto teeneage takeover - la
«presa di potere» dei teenager che hanno, per la prima volta,
coscienza di sé come gruppo.
Si tratta delle ragazze e
dei ragazzi che sono cresciuti durante i duri anni della
ricostruzione economica del paese, ma che, a differenza dei padri e
dei fratelli maggiori, non hanno vissuto i traumi del secondo
conflitto mondiale e della Resistenza di cui solo i ventenni possono
avere vaghissimi ricordi. In molti casi hanno trascorso parte della
propria infanzia nelle fila delle organizzazioni sportive e
ricreative dei partiti o delle parrocchie; ma, ancora per la maggior
parte al di fuori da qualsiasi militanza partitica, non hanno
assorbito - per il momento - la cultura dello scontro ideologico che
negli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta ha avvelenato
l’atmosfera politica italiana. Si affacciano all’età adulta in
un’Italia più democratica che assicura loro un’inedita libertà
di pensiero e non stupisce, dunque, che si dimostrino più pronti a
recepire i miti del nuovo benessere, sintetizzato nell’«american
way of life», entrata come simbolo nell’immaginario collettivo fin
dagli anni Cinquanta.
Infatti, non è solo il
miraggio di migliori condizioni di vita e di lavoro, ma anche le
immagini sfavillanti e le nuove sonorità, veicolate da vecchi e
nuovi media, che spingono irresistibilmente milioni di giovani a
lasciare il sud agricolo e socialmente arretrato per raggiungere il
nord, patria dello sviluppo industriale e della modernizzazione. In
questo enorme flusso di migranti che segna la vigilia del boom, le
diversità, le incomprensioni, le stesse sofferenze, pur
incancellabili, si stemperano in qualche misura nella collettiva
fascinazione per la nuova musica, emblema di libertà di rottura con
la tradizione, di promessa per il futuro, ma, soprattutto, strumento
eccezionale per esprimere e affermare la propria identità anche
nelle più difficili condizioni. Negli anni del monopolio
democristiano, la Rai-tv si trova nella controversa posizione di
conciliare la spinta modernizzante che arriva dai nuovi suoni in gran
parte americani con la più rassicurante tradizione canora nazionale.
Il 18 maggio 1957, il primo festival di rock’n’roll, al Palazzo
del ghiaccio di Milano, si era concluso con l’intervento violento
della polizia, sorpresa e impreparata a fronteggiare una folla così
imponente di ragazzi accalcati anche oltre i cancelli. Nell’ottobre
dello stesso anno aveva debuttato su disco il precursore dei
cosiddetti «urlatori», Tony Dallara che aveva sconvolto i canoni
tradizionali del bel canto all’italiana - dei Claudio Villa, dei
Luciano Tajoli, delle Nilla Pizzi - con il celebre «singhiozzo»,
generando scalpore e sgomento nella critica dell’epoca. L’anno
successivo Domenico Modugno vincendo il festival di Sanremo con Nel
blu dipinto di blu aveva interpretato lo stato d’animo dei
tanti italiani, pronti a gettarsi alle spalle i sacrifici economici
patiti negli anni della ricostruzione, euforici e desiderosi di
«volare» incontro al benessere; magari alla guida delle nuove
Seicento appena uscite dagli stabilimenti della Fiat, lanciate in
corsa lungo i primi tratti autostradali che portavano alle località
di villeggiatura, adesso non più mito irraggiungibile alle masse.
È la radio, prima ancora
che la televisione, ad amplificare il clima di attesa e frenesia.
Dagli studi di via Asiago parte un’inondazione musicale di nuove
trasmissioni che non ascoltano solo i ragazzi, ma milioni di italiani
ormai trascinati dal ritmo della vita moderna ad avere poche pause
per un ascolto impegnato e attento. Sin dai titoli – Il
Discobolo, Musica sprint, Ping pong, Flash -
i programmi musicali vogliono evocare dinamismo, euforia,
divertimento. Ma è la tv a instaurare un rapporto privilegiato con
l’industria del disco: il ballo e non solo la canzone affascina gli
italiani, ormai ipnotizzati dal piccolo schermo, dove ai ritmi sempre
più sincopati delle musiche italiane e straniere ragazze e ragazzi
si dimenano e si contorcono nel twist, nel madison, nel surf,
nell’hully gully, nello yè yè.
La stagione magica della
canzone è l’estate che negli anni del boom acquista per un numero
via via crescente di italiani, il significato di vacanza, al mare
soprattutto. Legata a un granello di sabbia di Gianni
Marchetti e Nico Fidenco (1961) non a caso è il primo 45 giri a
superare la vendita di un milione di copie; e, poco dopo, Pinne,
fucile ed occhiali di Edoardo Vianello, con tanto di suoni
acquatici in sottofondo, diventa la colonna sonora che accompagna il
mese o i quindici giorni di villeggiatura. Il disco non vive una
stagione: in inverno viene consumato nei juke-box e nei mangiadischi
dagli italiani che rivivono in città la solarità e la gioia dei
giorni passati, del tempo libero, dei balli e degli amori. Anche le
modalità del corteggiamento, profondamente mutate rispetto al
passato repressivo, sessuofobico e moralista, trovano espressione
nella musica, come dimostra il trionfo di Ventiquattromila baci
di Adriano Celentano a Sanremo nel 1961, una canzone simbolo di un
corteggiamento che insegue i ritmi dirompenti e le incontenibili
dimensioni del consumo di massa. Non può mancare la consacrazione
canora dell’automobile, protagonista indiscussa del boom economico:
Andavo a cento all'ora di Gianni Morandi offre un esempio
della commistione motore-amore, perdi più in rima baciata. Qualche
anno dopo è la volta del telefono: con Se telefonando Mina
celebra l’amore vissuto nella nuova era della teleselezione.
Non c’è però solo
l’esaltazione del benessere e dei suoi totem. La canzone che
interpreta la prima età dell’oro dell’Italia diventata potenza
industriale, ne anticipa anche il lato oscuro, partendo naturalmente
dall’amore che i consumi, la libertà il tempo libero e persino la
ricchezza non hanno certo reso più semplice o più felice. Anzi,
sembra quasi che il volersi bene, il comprendersi, l’amarsi e il
desiderarsi sia diventato più complicato, più difficile, più
irraggiungibile. Il malessere esistenziale, già affiorante anche tra
i più giovani, è, all’inizio, colto soprattutto in canzoni che
parlano dell’angoscia dell’attesa, delle partenze, degli
abbandoni: Senza fine, Il cielo in una stanza, Sapore
di sale parlano di solitudine, di infelicità e, per la prima
volta, anche di relazioni sentimentali come possibili vie di fuga da
un mondo che non si condivide più. Sono i nuovi poeti Gino Paoli,
Umberto Bindi, Luigi Tenco a dare il segnale di una frattura
nell’ottimismo trionfante che è destinata a farsi sempre più
vistosa col trascorrere del decennio Sessanta. Nel mood
sofferto delle loro sonorità c’è l’eco della sofisticata
chanson francese, ma, ancora una volta, a prevalere nella
tensione emotiva e nella vena malinconica dei loro versi e delle loro
note è l’influenza del jazz e del blues d’oltreoceano.
“alias il manifesto”,
28 gennaio 2012
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