16.3.17

2007, un secolo di via Pàl. I ragazzi traditi dal Novecento (Giampaolo Visetti)

BUDAPEST
I ragazzi della via Pàl compiono cento anni. L'Ungheria e l'Europa, che sono cresciuti con loro, li hanno traditi. Per questo, oggi, li celebrano. Una società fondata sull'inganno rimpiange l'eroismo della lealtà, sepolto assieme alla propria giovinezza.
Dopo un secolo, il mondo riscopre anche Ferenc Molnar. Il Novecento ha espulso l'autore che ha documentato il tramonto di una grandezza e anticipato l'alba della follia. Il Duemila lo richiama, a cinquantacinque anni dalla morte in esilio, ammettendo infine l'implacata sete di libertà e di infinito. Gli ideali per cui si è combattuto, contro il terrore e la spietatezza delle ideologie, sembrano spenti. Ma il campo di Jànos Boka e Deszo Gereb, del sacrificio di Erno Nemecsek, resta illuminato dal sole.
L'anima di chi è invecchiato consumando il coraggio, sa che la vita si nasconde nella lotta, nobilitata dalle regole, per restare fedeli al valore dei propri sogni. L'alternativa, il disprezzo delle avversità, è la corrotta regressione nella custodia dell'indifferenza. Così milioni di lettori si chiedono perché, istintivamente, sentono di dover partecipare alla glorificazione di una parabola laica che certifica il collettivo fallimento. Le strade di Budapest, nell'anno delle celebrazioni, testimoniano il paradosso di questa discreta nostalgia per l'incompiuta generosità dell' infanzia. Nelle librerie si accumulano i puntuali seguiti di Harry Potter. Lungo i viali dei parchi pubblici, gli adolescenti non gridano e non si rincorrono. Immobili e soli, sulle panchine, pigiano telefoni, videogame e mp3. Nell'ottavo e nel nono distretto, come dovunque, i cortili sono diventati parcheggi e sulle praterie sono cresciuti palazzi. La casa natale di Molnar, all' 83 di Ferencz Korùt, è un edificio trascurato. Il pianterreno è occupato da un negozio di macchinari da palestra. Nell'appartamento dove è nato lo scrittore, nel 1878, abita la famiglia Pàsztor, omonima dei prepotenti fratelli del suo romanzo. La vicina caserma Kilian, primo teatro della rivolta anti-comunista del 1956, esibisce una facciata sporca di vetri rotti. All'incrocio tra via Pàl e via Mària, dove si apriva «il dolce Grund», uno stabile annerito conferma il valore storico di un' opera equivocata in «romanzo per l' infanzia».
Una targa in italiano, affissa nel 1990 dal Gr3, recita: «A Ferenc Molnar, ai suoi ragazzi ed ai ragazzi di tutte le periferie». È una medaglia alla memoria: cancellato il campo della via Pàl, questa periferia è scivolata a ridosso del centro. Nessun bambino, qui come nelle nostre città, potrebbe più trascorrere i pomeriggi vagando libero fra terreni vuoti e boschi sotto casa. Via Ràkos, dove abitava Nemecsek, non esiste più. Il grande Orto botanico, in Illes Utca, è stato ridotto a un giardino nascosto tra due cliniche. Resistono le pericolanti serre liberty stipate di palme, qualche "ginko" secolare. Il lago e gli stagni sono stati prosciugati, assorbita l' isola. Il municipio voleva tagliare i costi e chiudere: prima delle elezioni è stato fermato dalle proteste del quartiere. La mappa della storia, grazie alla metropolitana, è rapidamente percorribile. Il suo mondo però è scomparso: dietro i mutamenti urbanistici emerge l'estinzione di un'epoca sociale, di una cultura, di una civiltà demolite con maniacale accuratezza.
Gli ungheresi, sui giornali, dopo un secolo si domandano se sono stati all'altezza di Boka, o del capo delle Camicie Rosse, Feri Ats. I telespettatori hanno spinto I ragazzi della via Pàl al secondo posto del concorso che ha eletto Le stelle di Eger miglior romanzo di tutti i tempi. La lettura, nelle scuole, è obbligatoria. Tradotta in trentacinque lingue, l'opera ha venduto cinque milioni di copie solo in patria e ora viaggia a quota diecimila all'anno. Ma è imbarazzante, per i genitori, per gli intellettuali, o per i politici, ragionare sul suo significato profondo. 
«Abbiamo costruito un Paese spaccato e sempre più estremista - dice Adam Horvàt, regista e nipote di Molnar - dove tutti tradiscono e nessuno si pente». Il giubileo si consuma così tra mostre, convegni, riedizioni commemorative, francobolli, inaugurazioni di statue e tentativi di nuove riduzioni cinematografiche. A metà ottobre, nel museo Petofi, verrà inaugurata la rassegna Evviva il campo. In ogni sala un personaggio, o un luogo del romanzo. «Il visitatore - dice la curatrice, Teréz Emod - vivrà come un protagonista in viaggio dentro la storia». Lo scultore Peter Szanyi collocherà un monumento in ciò che resta dell' Orto botanico. Daniel Mann ha invece ideato il "parco tematico" in piazzale Corvin. «Sarà ricostruito il campo della via Pàl - dice - con segheria, magazzino, cataste di tronchi e trincea per le bombe di sabbia. I bambini potranno giocare come ai primi del Novecento».
La casa editrice Mora ha ristampato il libro, affidando le illustrazioni a Péter Kovàcs. Quasi esaurito. «Gli eroi possono fallire - spiega il direttore, Jànos Tòth - ma l'eroismo è eterno. Il debole che sconfigge il forte, il Bene che trionfa sul Male restano la matrice di ogni fiaba. Il finale drammatico, in questo caso, trasforma in realtà ciò che nasce come finzione».
A Budapest è arrivato anche l'inglese Antony Kemp. Nel 1967, quando aveva dodici anni, ha fatto la parte di Nemecsek nel film di Zoltan Fabri. Oggi è arredatore. Omosessuale dichiarato, ha ammesso di non aver mai letto I ragazzi della via Pàl. I giornali, scandalizzati, hanno titolato: «L'analfabeta Nemecsek è diventato gay».
«L'iniziativa più poetica - dice Matyas Sarkozi, l'altro nipote di Molnar che vive a Londra - è stato il video-rap del cantautore Peter Geszti. Giovani graffitari ungheresi, sui loro skateboard, cantano e ballano la battaglia raccontata da mio nonno. Potrebbe diventare un musical capace di parlare ai contemporanei».
Il secolo della via Pàl resta così una grande, bella, interessante, turistica, edificante festa nazionale per bambini ed ex adolescenti, come si potrebbe organizzare per I tre moschettieri, o per Zorro. Taciute, quasi segrete, si mantengono invece negli archivi ungheresi la tragedia di Molnar, la profezia della sua «lotta per bande», la «guerra fredda» combattuta contro l' amore per il suo romanzo.
Nel 1907 l'Impero asburgico e le monarchie europee sono agonizzanti. Le rivoluzioni popolari e l' esplosione dei nazionalismi annunciano conflitti sociali, dittature ideologiche e persecuzioni razziali. «I ragazzi della via Pàl - dice Horvàt - nasce per caso. Ma ogni riga è un manifesto contro il Male che da allora ci tiene in ostaggio». Il romanzo, dal 10 aprile, esce a puntate sul Giornale degli studenti del ginnasio di via Lònyay, dove Molnar aveva studiato. Il vecchio professore di lettere era ricorso all'ex alunno, già famoso drammaturgo, per fronteggiare un calo di copie. L'autore rievoca la storia vera dalla sua classe, scrive un episodio a settimana e regala tutto alla sua scuola. «Amore per la patria ed esaltazione dell'eroismo nazionale contro l'invasore straniero - dice lo scrittore Pàl Békés - tributano al racconto un immediato successo europeo. È l' età d' oro di Molnar. Fino agli anni Trenta i suoi testi vengono messi in scena contemporaneamente da oltre duecento teatri in Ungheria e all' estero. Poi la sua previsione, ossia la perdita del campo-patria e la sconfitta di tutti i contendenti (ragazzi di via Pàl e Camicie rosse) per mano di un oscuro nemico esterno, si avvera». L'Europa è devastata da Prima e Seconda guerra mondiale. Esplode la dittatura del nazismo e del comunismo. Si consuma l' orrore anti-semita. Molnar è ebreo e di famiglia borghese. Vaga tra Italia, Austria e Francia. Brucia tre matrimoni. Lettere e documenti rinvenuti ora a Budapest, rivelano che già nel 1925 intuisce la catastrofe. «Nel 1927 - dice il nipote - vende la casa di Berlino. Dal 1937 non mette più piede in Ungheria. Le sue opere scompaiono dai cartelloni teatrali. Nel 1942, sulla stessa nave di Ingrid Bergman, fugge definitivamente a New York». Il destino dei ragazzi della via Pàl si separa così da quello di Molnar.
Il romanzo, troppo amato dalla gente per poter essere proibito dalle autorità, viene ridotto a una melodrammatica storia per bambini. Lo scrittore, in quanto ebreo, è perseguitato dai fascisti fino al 1945. Come borghese, fino alla morte, è invece sopportato dai comunisti. «Se fosse tornato in patria - dice il presidente degli editori ungheresi, Peter Zentai - sarebbe finito in un campo di lavoro e non avrebbe più potuto pubblicare». Le accuse trovate negli archivi sono chiare. Ai tempi dell'Urss Molnar doveva essere presentato come un «cosmopolita borghese che ha sacrificato il talento per il successo nei paesi capitalisti». Anche i ragazzi della via Pàl facevano paura al regime. I bambini-eroi danno vita alla "Società dello stucco", dove il capo viene eletto democraticamente. La delazione e il tradimento, simboleggiati da Gereb, vengono disprezzati anche da chi può trarne vantaggio. Le "Camicie rosse" di Ats, destinate alla sconfitta per la sete di conquista, sono invece un regime fondato sulla forza del leader e sull'autoritarismo. La democrazia umanistica dei ginnasiali, prevale sul decisionismo scientifico degli allievi dell'istituto tecnico. Nel 1907, a Vienna, l'imperatore non apprezzò il «parlamentarismo» di Molnar. Nel 1947, da Mosca, Stalin iniziò a demolire il suo «indipendentismo magiaro». «Un anno prima - dice Csilla Csorba, direttrice del Museo letterario ungherese - Molnar aveva scritto riservatamente al primo ministro. Alludeva alla possibilità di un ritorno a Budapest. Il vecchio amico, lo dissuase». Una condanna ufficiale, da parte delle autorità, non è mai arrivata. Nemmeno Molnar si è esplicitamente dissociato dal comunismo. «Ma negli auguri di fine anno trasmessi via radio dagli Usa - dice Adam Horvàt, dieci anni agli arresti come «nemico del popolo» - nel 1951 e nel 1952 mio nonno fece inequivocabilmente capire ai connazionali le ragioni del suo esilio».
È difficile, parlando oggi con i pensionati seduti davanti alle torte del caffè Gerbaud, sopravvissuti a Krusciov e a Kàdàr, capire le ambigue ragioni di un successo tanto subìto e travisato. Assistendo ai raduni dell'estrema destra contro il governo, sotto il parlamento, o sfilando con chi denuncia il nuovo dilagare di xenofobia e antisemitismo, la storicizzazione ludica dei ragazzi della via Pàl risulta invece meno oscura. 
A un secolo dalla pubblicazione, il salto da «romanzo per ragazzi» a «denuncia degli adulti» resta vietato. In Ungheria e nel resto del mondo nemmeno un teatro è intitolato a Molnar. «Boka e Feri Ats - dice il regista Gyorgy Vidovszky - lottano lealmente per il campo da gioco, ossia per la libertà. Concordano le regole della battaglia, rendono onore allo sconfitto, riconoscono di aver perso, sanno chiedere scusa, rifiutano il tradimento, perdonano chi sbaglia e puniscono i soprusi. Di fronte alla morte, "per la prima volta intuiscono quel che è veramente la vita". È un testo ancora impresentabile, per i potenti della terra».
I ragazzi della via Pàl si legge così nelle scuole, per dovere, ma non in famiglia. «E se venisse distribuito in parlamento - dice Békés - metà dei deputati nemmeno lo aprirebbe. La febbre di potere dei partiti ricorda quei bambini, tra i quali solo il cane del custode Jano (Ettore, ndr) è rimasto soldato semplice. Le guerre di Bush sono l'opposto della battaglia nel campo all'angolo con via Mària. La multirazzialità della "Società dello stucco" è il contrario del razzismo che alimenta l'estremismo dei conservatori europei. L'interventismo ecclesiastico nell'ordinamento degli Stati si infrange contro l'assenza di riferimenti alla fede scelta da Molnar. Speculazioni immobiliari e distruzione della natura confermano la disperazione di chi «fuggì da quella terra infedele che li abbandonava per prendersi sulle spalle, per sempre, un palazzone d'affitto». Una società di opportunisti, dove tutto è in vendita, non può condividere l'indignazione contro «l'impiegato comunale che pretende subito il vestito nuovo, mentre il figlio del sarto sta morendo». Dal più inquieto Paese della Ue, assieme alla Polonia, parte un richiamo preciso contro le vendette dei vincitori, l'odio degli esclusi e le nostalgie degli sconfitti. 
«Purtroppo - dice Matyas Sarkozi - il messaggio è accuratamente occultato in un anniversario letterario, o confinato nel recupero turistico di un vecchio parco-giochi di periferia». Ha senso allora che un mondo di vigliacchi celebri l' anniversario di una fiaba che è il Manifesto dell'eroismo umano? O che una società gerontocratica, che centellina i figli, esalti il romanzo che dimostra come solo i giovani hanno la grandezza per arginare l'ingiustizia che governa l'esistenza? 
Verrebbe da rispondere di no, pensando alle transoceaniche battaglie per i diritti d'autore, o alla secolare e contrapposta mistificazione ideologica che ha travolto Molnar e i suoi ragazzi. Ma nella serra "Victoria" dell'Orto botanico di Budapest, dove Nemecsek si era immerso tra le ninfee giganti per sfuggire ai Pasztor, si è convinti che invece la risposta sia sì. Cent'anni dopo, è una sera calda dei primi di maggio. Il Danubio scorre viola. Un pappagallo tropicale sovrasta il gracidare delle neonate rane. Le samare bianche dei tigli diffondono il profumo degli ippocastani. Due bambini si contendono due sassi da gettare nello stagno. Il più robusto sottrae anche quello del più gracile e, precipitando nello sgomento la vecchia bigliettaia, lancia lo spaventoso, ormai eterno grido del sopruso: «Einstand!». Sta per tirare. Scivola sulle foglie marcite dell' inverno e le pietre ruzzolano nello scavo per il trapianto dei bulbi di tulipano.
Ferenc Molnar, sul lettino operatorio dove morì sotto i ferri, interruppe i chirurghi impegnati a scambiarsi i titoli professionali: «Permettete che mi presenti anch'io, sono il malato». Le sue ultime parole, tra le risate. I due bambini di Budapest, diversamente battuti, se ne vanno ora riappacificati dalla delusione, tenendosi per mano. Dopo un secolo, vogliono dire che i ragazzi della via Pàl sono stati traditi da tutti i loro lettori, che oggi li portano in trionfo. Ma che restano i più forti. Perché il destino umano è la sconfitta: ma adesso sappiamo che solo combattere eroicamente, per non tradire se stessi, vale la pena.


“la Repubblica”,13 maggio 2007  

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