Milano
Nell'autunno del 1941 una
bella ragazza trentina, mora, occhi scuri, matricola di lettere e
filosofia alla Sapienza di Roma, si presenta alle audizioni dove si
reclutano le nuove leve per la compagnia del teatro universitario.
«Avevo quasi vent' anni.
Non avevo mai recitato in vita mia. In giuria c'erano registi come
Orazio Costa, Enrico Fulchignoni, scrittori come Cesare Vico
Lodovici. Chiesi loro, un po' stupiti, se potevo sedermi per terra.
Portavo l'ultima battuta di Sonia dello Zio Vanja di Cechov.
Iniziai e l'aula rumoreggiante si zittì. Mentre recitavo vidi che
dalla finestra entrava un raggio di sole e, poiché mi si erano
riempiti gli occhi di lacrime, ricordo che con la mostruosità tipica
dell'attore spostai leggermente la faccia per prendere la luce sulla
lacrima. Lì ho capito che quello era il mio mestiere. Si alzarono in
piedi tutti. La giuria mi fece i complimenti. Cominciò così.
Diventai la prima attrice del teatro universitario di Roma». Diventò
Anna Proclemer. L'episodio, lo ricorda con un fiero sorriso lei
stessa sul divano della suite di un hotel milanese, mentre con una
mano carezza la piccola Lulu, sfrenata quanto adorata cagnolina, e
con l'altra tiene la sigaretta, una delle tante.
«Smettere? Avessi
cinquant'anni lo farei, ma ora mi farebbe solo male», dice.
L'indimenticabile Annie
Sullivan di Anna dei miracoli, la Lupa, Fedra, George Sand,
l'attrice che nel '48 con Strehler, nel '49 con Costa, dal '56 con
Albertazzi ha scritto la storia del teatro italiano, oggi ha
ottantaquattro anni. È una signora di imperiosa vitalità. Colta,
ironica, intelligente da sempre - come dice lei - ha usato il
cervello per confondere, dietro l'aspetto borghese, severo, levigato,
un carattere stravagante e un temperamento da irregolare, la ragazza
che leggeva Dostoevskij e ascoltava Bach in tempi in cui le donne non
studiavano e contavano poco, l'attrice che ha affrontato con slancio
molto femminile scelte anche spericolate: le nozze a ventitré anni
con lo scrittore Brancati di sedici anni più anziano, geloso delle
sue assenze per il teatro, la nascita a ventiquattro della figlia
Antonia, oggi affermata sceneggiatrice, mentre girava su e giù
l'Italia in automobile per le tournée, più avanti la fuga con
Albertazzi, un pensierino di filarsela per un periodo con il Living
Theatre...
«Le più grandi follie
le ho fatte per il lavoro. Non solo perché il teatro è la mia vita,
ma perché l'indipendenza economica per me è sempre stata vitale.
Non concepisco l'idea di farmi mantenere da un uomo. Fu per questo
che, quando rimasi incinta, mi dedicai al doppiaggio. Detti la mia
voce a Greta Garbo per Grand Hotel e Anna Karenina, a
Barbara Stanwich. Yvonne Sanson la doppiai che quasi partorivo in
sala di registrazione. D'altra parte l'attrice non è il mestiere che
puoi fare timbrando il cartellino. O lo fai con passione, o lasci
perdere».
Stessa grinta, stessa
ostinazione, dopo sessantasei anni di teatro, oltre centocinquanta
spettacoli, quattro regie e qualche film, Anna Proclemer ha
trionfalmente debuttato qualche mese fa alla Scala nella lirica, uno
straordinario cammeo d'attrice nella Fille du regiment di
Donizetti, che riprenderà ora all'Opera di Roma dal 16 maggio,
premiata da Arbasino con un «mirabile Proclemer».
«La prosa ormai la
frequento da spettatrice e vedo tante brutte cose. Adesso è la
musica che mi ispira - dice -. Avevo iniziato qualche anno fa col mio
recital Anna dei pianoforti tra Chopin, Liszt, Mozart e testi
di Savinio, tempo prima avevo partecipato a un Edipus rex di
Stravinski diretto da quel genio di Abbado, che adoro. Ma non è un
legame tardivo il mio con la musica. Con i primi soldini guadagnati a
quindici anni, dando ripetizioni di filosofia alla figlia imbecille
di una amica di mia madre, mi comprai un twin set di lana e
l'allegretto della Settima di Beethoven. Ancora oggi, preferisco
ascoltare musica che leggere, pur essendo stata una donna avida di
libri e letture».
Nella Roma del dopoguerra
la sua fu una vita mondana molto intellettuale.
«Non che la mia fosse
una famiglia particolarmente acculturata. Mia madre amava D'
Annunzio, mio padre era un ingegnere che citava perfettamente
"Tityre, tu patulae recubans...". Ero io che ero
assatanata di libri. E sì che ero belloccia, avrei anche potuto
accasarmi bene, ma i ricchi a me non sono mai piaciuti. Mi piacevano
solo gli intellettuali che in genere non avevano una lira. Però
posso dire di aver conosciuto Eliot e aver parlato con lui di Dante.
E poi Moravia, Piovene, Flaiano, Pannunzio, Cardarelli. Frequentavo
il salotto Bellonci, casa Cecchi. Un po' , devo confessare, mi
annoiavo, perché questi intellettuali quando si ritrovavano insieme
facevano ricreazione invece che parlare di cose serie. E io ci
restavo male. Ero assetata, volevo rubare. Oh, quanto ho spiato,
rubato in vita mia. In teatro, la tecnica la devo a Vittorio Gassman,
a Renzo Ricci l'amore per gli autori moderni, a Giorgio la
sensibilità».
Con Albertazzi ha fatto
ditta teatrale per sedici anni, e per venti si sono amati. Si erano
conosciuti nel '55 in scena e in scena si erano innamorati.
«Ma lui stava con la
Toccafondi, Bianca Toccafondi, e quindi non si poteva. Segretamente
ci scambiavamo messaggi d'amore attraverso le battute. Ricordo una
Figlia di Jorio del '57, tutta sospiri e doppi sensi "Aligi
dammi la mano", "Mila il cammino è là, poco lontano",
"Dammi la mano tua ch' io te la baci"... Finché non
facemmo una fuga in Svizzera, Hotel Splendid di Lugano, ricordo. La
Toccafondi non la prese bene, andò furibonda a dirlo a Visconti. Ma
io ero felice. Lui, che come tutti gli uomini non era un eroe, era
più angosciato. Con Albertazzi ci telefoniamo ancora e due anni fa
ci siamo divertiti a recitare di nuovo insieme in Diario privato».
Queste e altre storie
Anna Proclemer le raccoglie da qualche mese in una autobiografia che,
anziché a un editore, ha affidato a Internet, a un sito, www.
annaproclemer. it, che si è progettato, scritto e curato con
temeraria energia, tutto da sola.
«Col computer ho
iniziato coi solitari, poi sono passata ai cd rom di arte, con cui mi
sono fatta tutte le gallerie d' arte mondiali, ora Internet. Sono
brava, sa? Elaboro le foto, mi preparo i calendari con le immagini
della mia Lulu. E, quanto all' autobiografia, farla nel web mi pare
meno autocelebrativo. Perché un segno va lasciato. Noi teatranti
sappiamo che di noi non resta niente. Perfino le registrazioni Rai
non ci sono più: La ragazza di campagna di Odets sparita, La
donna del mare con Albertazzi cancellata, Carta bianca di
Flaiano pure. Forse è rimasto L'idiota, Anna dei miracoli,
La foresta pietrificata. Ma io mi ero già premunita: visto
che quando uno muore finisce tutto in cantina, io ho già dato carte,
libri e foto all'archivio del Vieusseux di Firenze. Il resto in
questo diario elettronico».
È qui che ha ricordato
il buffo incontro con Humphrey Bogart. Stava girando Viaggio in
Italia dove aveva un particina accanto all' amica Ingrid Bergman.
«Eravamo all'Excelsior
di Napoli, quando arrivò Bogart per salutare Ingrid. Lui e lei come
in Casablanca. Nessuno capiva più niente. Rossellini propose
di andare tutti al Vomero a mangiare. "Anna porta tu in macchina
Ingrid e Humphrey", mi disse. Io avevo una millecento color
cacchetta e la patente da un mese. Su per le stradine del Vomero...
sudavo solo pensando al mio carico prezioso. Quando arrivammo fu una
liberazione. Mentre entravamo al ristorante, Bogart mi mise anche una
tenera mano sul culo. Gliene fui grata: il mito era diventato uomo».
Come tutte le donne molto
intelligenti e bravissime nel lavoro non si sente mai a posto.
«Certo, ho avuto le mie
soddisfazioni, ho fatto conoscere autori moderni che nessuno in
Italia aveva fatto, ho fatto personaggi importanti... Ma purtroppo ho
la maledizione di un carattere scomodo che tende alla
autorecriminazione, alla vaga depressione, alla scontentezza. Se solo
fossi un po' più allegra... Eppure mi ritengo fortunata, la testa mi
funziona, credo ancora bene. Sì, una volta ero un razzo, fino a
qualche anno fa prendevo anche lezioni di danza. Invecchiare è
brutto, altro che balle. Ogni volta che uno ti dice: mettiamo in
cantiere per l'anno prossimo questa cosa, tu pensi "se sarò
viva". Non è carino, non è un fiore nell'anima. E poi queste
rughe qui. Ma piuttosto che un mostro gonfio come certe mie colleghe,
meglio la ruga».
Nella sua modernità,
Anna Proclemer non vive di ricordi, tranne che per Brancati che lei,
forse troppo giovane, trattò con durezza.
«Qualche anno fa gli ho
scritto, tardiva, una lettera d'amore e in luglio a Catania lo
ricorderò, nel centenario della nascita, in un recital con le sue
opere. Se lo merita. Non credo che tra noi la questione fosse l'età.
In fondo erano sedici anni. È che io continuavo con le mie cose a
teatro, ma ero assalita dai sensi di colpa. Non per Antonia, la
bambina: con lei ero stata svizzera, subito organizzata, prenotando
addirittura mentre ero ancora incinta puericultrice e scuola
Montessori. No, i sensi di colpa li avevo per Brancati. Lui era
siciliano, ma nordico dentro. Non mi diceva nulla, ma sapevo che
soffriva delle mie tournée, dei miei spettacoli, delle mie assenze
da casa. Una volta a Milano, dove recitavo con Strehler, mentre
camminavo in piazza Scala, sotto la pioggia, con Nina, la mia
cagnolina di allora sotto il braccio, provai una felicità enorme. Di
colpo mi tornò in mente Brancati, a casa, che si torceva perché io
non c'ero e piombai nell'angoscia di sempre. La mia libertà era la
sua disperazione. Ma io la mia scelta l'avevo già fatta».
“la Repubblica”, 22
aprile 2007
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