16.3.17

Regine del palcoscenico. Incontro con Anna Proclemer (Anna Bandettini)

Milano
Nell'autunno del 1941 una bella ragazza trentina, mora, occhi scuri, matricola di lettere e filosofia alla Sapienza di Roma, si presenta alle audizioni dove si reclutano le nuove leve per la compagnia del teatro universitario.
«Avevo quasi vent' anni. Non avevo mai recitato in vita mia. In giuria c'erano registi come Orazio Costa, Enrico Fulchignoni, scrittori come Cesare Vico Lodovici. Chiesi loro, un po' stupiti, se potevo sedermi per terra. Portavo l'ultima battuta di Sonia dello Zio Vanja di Cechov. Iniziai e l'aula rumoreggiante si zittì. Mentre recitavo vidi che dalla finestra entrava un raggio di sole e, poiché mi si erano riempiti gli occhi di lacrime, ricordo che con la mostruosità tipica dell'attore spostai leggermente la faccia per prendere la luce sulla lacrima. Lì ho capito che quello era il mio mestiere. Si alzarono in piedi tutti. La giuria mi fece i complimenti. Cominciò così. Diventai la prima attrice del teatro universitario di Roma». Diventò Anna Proclemer. L'episodio, lo ricorda con un fiero sorriso lei stessa sul divano della suite di un hotel milanese, mentre con una mano carezza la piccola Lulu, sfrenata quanto adorata cagnolina, e con l'altra tiene la sigaretta, una delle tante.
«Smettere? Avessi cinquant'anni lo farei, ma ora mi farebbe solo male», dice.
L'indimenticabile Annie Sullivan di Anna dei miracoli, la Lupa, Fedra, George Sand, l'attrice che nel '48 con Strehler, nel '49 con Costa, dal '56 con Albertazzi ha scritto la storia del teatro italiano, oggi ha ottantaquattro anni. È una signora di imperiosa vitalità. Colta, ironica, intelligente da sempre - come dice lei - ha usato il cervello per confondere, dietro l'aspetto borghese, severo, levigato, un carattere stravagante e un temperamento da irregolare, la ragazza che leggeva Dostoevskij e ascoltava Bach in tempi in cui le donne non studiavano e contavano poco, l'attrice che ha affrontato con slancio molto femminile scelte anche spericolate: le nozze a ventitré anni con lo scrittore Brancati di sedici anni più anziano, geloso delle sue assenze per il teatro, la nascita a ventiquattro della figlia Antonia, oggi affermata sceneggiatrice, mentre girava su e giù l'Italia in automobile per le tournée, più avanti la fuga con Albertazzi, un pensierino di filarsela per un periodo con il Living Theatre...
«Le più grandi follie le ho fatte per il lavoro. Non solo perché il teatro è la mia vita, ma perché l'indipendenza economica per me è sempre stata vitale. Non concepisco l'idea di farmi mantenere da un uomo. Fu per questo che, quando rimasi incinta, mi dedicai al doppiaggio. Detti la mia voce a Greta Garbo per Grand Hotel e Anna Karenina, a Barbara Stanwich. Yvonne Sanson la doppiai che quasi partorivo in sala di registrazione. D'altra parte l'attrice non è il mestiere che puoi fare timbrando il cartellino. O lo fai con passione, o lasci perdere».
Stessa grinta, stessa ostinazione, dopo sessantasei anni di teatro, oltre centocinquanta spettacoli, quattro regie e qualche film, Anna Proclemer ha trionfalmente debuttato qualche mese fa alla Scala nella lirica, uno straordinario cammeo d'attrice nella Fille du regiment di Donizetti, che riprenderà ora all'Opera di Roma dal 16 maggio, premiata da Arbasino con un «mirabile Proclemer».
«La prosa ormai la frequento da spettatrice e vedo tante brutte cose. Adesso è la musica che mi ispira - dice -. Avevo iniziato qualche anno fa col mio recital Anna dei pianoforti tra Chopin, Liszt, Mozart e testi di Savinio, tempo prima avevo partecipato a un Edipus rex di Stravinski diretto da quel genio di Abbado, che adoro. Ma non è un legame tardivo il mio con la musica. Con i primi soldini guadagnati a quindici anni, dando ripetizioni di filosofia alla figlia imbecille di una amica di mia madre, mi comprai un twin set di lana e l'allegretto della Settima di Beethoven. Ancora oggi, preferisco ascoltare musica che leggere, pur essendo stata una donna avida di libri e letture».
Nella Roma del dopoguerra la sua fu una vita mondana molto intellettuale.
«Non che la mia fosse una famiglia particolarmente acculturata. Mia madre amava D' Annunzio, mio padre era un ingegnere che citava perfettamente "Tityre, tu patulae recubans...". Ero io che ero assatanata di libri. E sì che ero belloccia, avrei anche potuto accasarmi bene, ma i ricchi a me non sono mai piaciuti. Mi piacevano solo gli intellettuali che in genere non avevano una lira. Però posso dire di aver conosciuto Eliot e aver parlato con lui di Dante. E poi Moravia, Piovene, Flaiano, Pannunzio, Cardarelli. Frequentavo il salotto Bellonci, casa Cecchi. Un po' , devo confessare, mi annoiavo, perché questi intellettuali quando si ritrovavano insieme facevano ricreazione invece che parlare di cose serie. E io ci restavo male. Ero assetata, volevo rubare. Oh, quanto ho spiato, rubato in vita mia. In teatro, la tecnica la devo a Vittorio Gassman, a Renzo Ricci l'amore per gli autori moderni, a Giorgio la sensibilità».
Con Albertazzi ha fatto ditta teatrale per sedici anni, e per venti si sono amati. Si erano conosciuti nel '55 in scena e in scena si erano innamorati.
«Ma lui stava con la Toccafondi, Bianca Toccafondi, e quindi non si poteva. Segretamente ci scambiavamo messaggi d'amore attraverso le battute. Ricordo una Figlia di Jorio del '57, tutta sospiri e doppi sensi "Aligi dammi la mano", "Mila il cammino è là, poco lontano", "Dammi la mano tua ch' io te la baci"... Finché non facemmo una fuga in Svizzera, Hotel Splendid di Lugano, ricordo. La Toccafondi non la prese bene, andò furibonda a dirlo a Visconti. Ma io ero felice. Lui, che come tutti gli uomini non era un eroe, era più angosciato. Con Albertazzi ci telefoniamo ancora e due anni fa ci siamo divertiti a recitare di nuovo insieme in Diario privato».
Queste e altre storie Anna Proclemer le raccoglie da qualche mese in una autobiografia che, anziché a un editore, ha affidato a Internet, a un sito, www. annaproclemer. it, che si è progettato, scritto e curato con temeraria energia, tutto da sola.
«Col computer ho iniziato coi solitari, poi sono passata ai cd rom di arte, con cui mi sono fatta tutte le gallerie d' arte mondiali, ora Internet. Sono brava, sa? Elaboro le foto, mi preparo i calendari con le immagini della mia Lulu. E, quanto all' autobiografia, farla nel web mi pare meno autocelebrativo. Perché un segno va lasciato. Noi teatranti sappiamo che di noi non resta niente. Perfino le registrazioni Rai non ci sono più: La ragazza di campagna di Odets sparita, La donna del mare con Albertazzi cancellata, Carta bianca di Flaiano pure. Forse è rimasto L'idiota, Anna dei miracoli, La foresta pietrificata. Ma io mi ero già premunita: visto che quando uno muore finisce tutto in cantina, io ho già dato carte, libri e foto all'archivio del Vieusseux di Firenze. Il resto in questo diario elettronico».
È qui che ha ricordato il buffo incontro con Humphrey Bogart. Stava girando Viaggio in Italia dove aveva un particina accanto all' amica Ingrid Bergman.
«Eravamo all'Excelsior di Napoli, quando arrivò Bogart per salutare Ingrid. Lui e lei come in Casablanca. Nessuno capiva più niente. Rossellini propose di andare tutti al Vomero a mangiare. "Anna porta tu in macchina Ingrid e Humphrey", mi disse. Io avevo una millecento color cacchetta e la patente da un mese. Su per le stradine del Vomero... sudavo solo pensando al mio carico prezioso. Quando arrivammo fu una liberazione. Mentre entravamo al ristorante, Bogart mi mise anche una tenera mano sul culo. Gliene fui grata: il mito era diventato uomo».
Come tutte le donne molto intelligenti e bravissime nel lavoro non si sente mai a posto.
«Certo, ho avuto le mie soddisfazioni, ho fatto conoscere autori moderni che nessuno in Italia aveva fatto, ho fatto personaggi importanti... Ma purtroppo ho la maledizione di un carattere scomodo che tende alla autorecriminazione, alla vaga depressione, alla scontentezza. Se solo fossi un po' più allegra... Eppure mi ritengo fortunata, la testa mi funziona, credo ancora bene. Sì, una volta ero un razzo, fino a qualche anno fa prendevo anche lezioni di danza. Invecchiare è brutto, altro che balle. Ogni volta che uno ti dice: mettiamo in cantiere per l'anno prossimo questa cosa, tu pensi "se sarò viva". Non è carino, non è un fiore nell'anima. E poi queste rughe qui. Ma piuttosto che un mostro gonfio come certe mie colleghe, meglio la ruga».
Nella sua modernità, Anna Proclemer non vive di ricordi, tranne che per Brancati che lei, forse troppo giovane, trattò con durezza.
«Qualche anno fa gli ho scritto, tardiva, una lettera d'amore e in luglio a Catania lo ricorderò, nel centenario della nascita, in un recital con le sue opere. Se lo merita. Non credo che tra noi la questione fosse l'età. In fondo erano sedici anni. È che io continuavo con le mie cose a teatro, ma ero assalita dai sensi di colpa. Non per Antonia, la bambina: con lei ero stata svizzera, subito organizzata, prenotando addirittura mentre ero ancora incinta puericultrice e scuola Montessori. No, i sensi di colpa li avevo per Brancati. Lui era siciliano, ma nordico dentro. Non mi diceva nulla, ma sapevo che soffriva delle mie tournée, dei miei spettacoli, delle mie assenze da casa. Una volta a Milano, dove recitavo con Strehler, mentre camminavo in piazza Scala, sotto la pioggia, con Nina, la mia cagnolina di allora sotto il braccio, provai una felicità enorme. Di colpo mi tornò in mente Brancati, a casa, che si torceva perché io non c'ero e piombai nell'angoscia di sempre. La mia libertà era la sua disperazione. Ma io la mia scelta l'avevo già fatta».


“la Repubblica”, 22 aprile 2007  

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