È
ormai quasi un luogo comune dire di Giovanni Verga che è un autore
particolarmente "reattivo" nelle operazioni della critica,
e destinato a segnare i passaggi e i mutamenti dei vari metodi di
volta in volta dominanti, ostentando una capacità di trasformazione
in taluni casi addirittura radicale della sua immagine. È vero però
che nella struttura della sua opera c'è qualcosa di difficilmente
incasellabile: un elemento di eterodossia creativa e di genio
antiscolastico, che spesso conduce, da premesse teoriche in apparenza
chiare (ma spesso solo in apparenza), a esiti davvero imprevedibili.
Queste
infrazioni della norma, che costellano il percorso tutt'altro che
lineare della sua carriera di scrittore, fondano poi la ricerca anche
di ciascuno dei suoi romanzi e delle sue novelle maggiori. In breve,
si potrebbe sintetizzare la questione osservando che, se la stagione
naturalistico-veristica può aver prodotto in Europa opere più
importanti dei Malavoglia (ma l'affermazione sarebbe da
dimostrare), certamente non ne ha prodotto una che le assomigli.
Questa
"unicità" dell'esperienza verghiana nei suoi momenti più
alti deve pur avere delle ragioni: solo che, come la ricerca critica
degli ultimi settant' anni dimostra, sono difficili da trovare; e nel
tentativo di trovarle, più o meno ingegnosamente, buona parte di
questa ricerca consiste. Una nuova tappa di questo percorso è
individuata, segnalata e discussa da Vitilio Masiello in Il punto
su Verga (Laterza). L'autore vi presenta una scelta, utilissima,
di dichiarazioni di poetica, talvolta poco note o poco reperibili,
dello stesso Verga, e un'antologia degli interpreti verghiani dell'
ultimo decennio. Ma soprattutto vi premette un' introduzione
densissima, in cui non si limita a descrivere e discutere le
posizioni degli altri critici, ma espone, attraverso un serrato
confronto, le sue riflessioni più recenti, utilizzando al tempo
stesso l'occasione (se non erro) per sottoporre a revisione e
approfondimento le sue stesse posizioni metodologiche.
È
difficile riesporre con chiarezza e sinteticamente la "linea"
complessa del discorso di Masiello. Direi che i rilievi più
interessanti sono due. Masiello mette bene in luce come, a partire
dal dibattito apertosi all'interno del "marxismo critico"
nel corso degli anni 60, sia venuto sempre più imponendosi un Verga
deideologizzato e "letterario", su cui gli strumenti della
nuova critica formale, psicanalitica e antropologica, hanno fatto
alcune delle loro prove migliori. Potremmo a nostra volta osservare
che, in tal modo, alcune delle questioni che erano state dibattute in
precedenza con passione polemica anche eccezionale - come il problema
dei rapporti tra "ideologia" e "letteratura" -
hanno perso quasi senso, mentre ha assunto rilievo preminente il
problema di mettere in luce le "logiche interne" di
costruzione (peculiarissime, appunto, come dicevamo) del "raccontare"
verghiano. Queste procedure hanno conquistato anche autori che, nel
dibattito precedente, si erano segnalati per il forte rilievo delle
posizioni ideologico-letterarie sostenute (vedi ad esempio Romano
Luperini). Ma, da questo punto di vista, si veda anche con quanta
misura nuove tecniche e osservazione testuale si combinino nei brani
qui raccolti di autori come Pirodda, Baldi e Guido Guglielmi.
Per
quanto riguarda poi il curatore del volume, a me pare che Masiello,
riprendendo alcuni dei punti d'arrivo migliori della critica
precedente, e al tempo stesso assecondando con persuasione il
movimento complessivo della critica fin qui descritto, si sforza, in
una specie di paziente faccia a faccia, di ricondurre anche le
letture più spregiudicatamente innovative dentro un alveo di
"storicità contestuale". Ribadito con forza quel che
sembra ormai un topos irrinunciabile di ogni critica verghiana
- e cioè che "l'assenza di ogni ideologia progressista e la
concezione duramente materialistica, disperatamente pessimistica
della realtà costituiscono le condizioni attive e le ragioni della
grandezza dell'arte verghiana" - Masiello pone il problema
teorico-critico di capire quali siano le forme concrete (anche
interne al testo, beninteso), in cui il meccanismo descritto e le
"condizioni" sopra accennate entrano, per così dire, "in
movimento": al di fuori di ogni astrattezza e di ogni settarismo
metodico. È un quesito che una critica letteraria dal forte impianto
"storico" non smette, legittimamente, di porre alle
esperienze più intelligenti ed avanzate della critica cosiddetta
formale.
“la
Repubblica”, 7 marzo 1986
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