Aldo Campatelli |
Ero così angosciato di
saperlo così malconcio che vigliaccamente evitavo di incontrarlo.
Avevo conosciuto in lui uno dei più bei ragazzini del nostro sangue.
Esile, elegante, sveglio, sapeva sbrigarsela in tutti i giochi con il
sesto senso del prestidigitatore: e fu proprio pensando a lui che mi
venne il neologismo prestipedatore, come dire un calciatore capace di
compiere con la palla squisitezze cinesi.
Da piccolo veniva
chiamato Petrone e invidiato con cieca ferocia. Provammo insieme per
il Milan al campo dei ferrovieri, presso la Simonetta. Non avevamo
quattordici anni e ci ammucchiammo alla brava per segnalarci agli
occhi di Ugo Scarambone, che guidava i ragazzi del Milan e infatti ci
mandò al Rapid, sua squadra satellite. Petrone giocava allora da
interno sinistro. Toccava con i due piedi, e sempre con tanta
eleganza da parer manierato. Era longilineo e fragile, forse pauroso.
Tozzo traccagno, animato da feroce emulazione, avevo imparato a
salvarmi da lui lavorandolo di ginocchia al primo stacco per
conquistare la rimessa del portiere. Come era furbo e orgoglioso, non
osava lagnarsi. Girava al largo. Era destinato al Milan: lo dirottò
astutamente all'Inter Bruno Slawitz, che ne guidava i ragazzi. Costò
qualche centinaio di lire, un pallone, qualche paio di scarpe usate.
Bruno Slawitz onorava il
buon Dio in tutte le sue creature, a patto che fossero giovani e di
sesso maschile. Di Aldon Campatelli era perdutamente innamorato: ma
altri ve n'erano, del suo sesso, che bramivano dietro a lui,
incantevole Dorian Gray della pedata. Sedusse immediatamente i
tecnici maggiori ma nessuno seppe mai che, finito l'incontro
mattutino nel campionato ragazzi di Milano, un'auto lo portava a
giocare sotto altro nome nel campionato "liberi" di Pavia,
fierissimo centravanti di concetto. Quelle scappate con i vidigulfesi
gli fruttavano il pranzo e quindici o venti lire per il biliardo e il
poker. Esordì nella prima dell'Inter quando era ancora in crescita
di statura. Noi traccagni eravamo già dediti alla filosofia e al
culto di tutti i vizi virili: lui era di razza nordica e cresceva
ancora. Provò prima da centravanti, fra Meazza e Ferrari, nel posto
che doveva essere di Piola, dirottato alla Lazio per ordine superiore
(sic).
Aldon non avea scatto,
non senso acrobatico, non poteva eccellere da punta. Infatti regredì
a laterale, ma era troppo altero, troppo bravo, troppo elegante per
degnarsi di marcare l'ala destra avversaria. Così venne subito
odiato da Olmi e dai terzini, che mi pare si chiamassero Setti e
Bonocore. Era il destino dei purosangue impropriamente tenuti a
tirare la carretta. Aldone si accontentava di giocare al meglio le
palle che gli passavano o che intercettava casualmente. Non l'ho mai
visto portare tackle (incontro, in italiano; andà sotta,
in gergo lombardo): però, domata la palla, la colpiva di collo con
impressionante nitore. E concludeva spesso da fuori con tiri alti o
bassi di rara efficacia.
Alla ripresa postbellica
fu una colonna dell' Inter. Gli si addiceva il metodo a W di Carcano,
che non lo forzava a correre troppo. Picchiato duramente dagli iloti
della pedata, stette anni celando l'impossibilità materiale ad
alzare più di tanto il piede sinistro. Affermava senza la minima
autoironia di praticare la "tattica del riposo".
Centellinava da atleta energie che poi spendeva al tavolo da gioco o
in talami privilegiati. Tenorino di grazia, cantava con voce
flautata, esile, dolce. Sposò una sarta che gli insegnò a vestirsi
da signore in occasione delle prime alla Scala. Vittorio Pozzo ne
sfruttò malissimo gli ultimi spicci impegnandolo da mediano
centrocampista secondo il WM, che mai riuscì a capire. Finì
ingloriosamente ai Mondiali 1950, dove forse ebbe un posto perché a
qualcuno del giro interessava portarlo a Bologna.
Fece l'allenatore senza
fortuna: non era dotato di molto carattere, non aveva studiato
abbastanza da ragazzo. Perdette posti sempre meno importanti e poi
andò a vivere nel tepore di Ischia. Il male, orribile, gli lasciò
pochi anni. Era solo quando è morto. Solo e triste come un angelo
inopinatamente costretto a vivere tra noi. Finita da tempo l'invidia,
amavo lui nei miei ricordi di povero. Ed ora ne sento l'acerbo
rimpianto. Addio, dunque, povero Aldon. Ti sia lieve la terra.
“la Repubblica”, 6
giugno 1984
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