Dalla copertina del libro che ho appena
finito di leggere (La ragazza del secolo scorso, Einaudi), una
bella, anzi bellissima signora dai capelli tutti bianchi mi guarda
con aria malinconica e un po' perplessa. Mi guarda? No, guarda un po'
di lato qualcosa che sta appena fuori della cornice della foto: alla
sua sinistra, si direbbe. È «la ragazza del secolo scorso»,
Rossana Rossanda, diventata la signora di oggi - e di ieri.
Delle sue memorie - poiché di questo
si tratta - si potrebbe dire sbrigativamente (penso che molti lo
faranno) che sono la storia di una grande signora che è stata una
grande comunista (o anche viceversa, non importa). Qualcosa di vero
c'è in ambedue le definizioni, e anche nel loro accostamento. Ma a
me pare che la questione sia più complessa e che l'immagine che
Rossanda proponga di sé sia più problematica e persino più
dolorosa: la storia di una vocazione politica destinata ad un
fallimento pressoché totale («nessuna delle mie idee aveva
funzionato, troppo presto o troppo tardi che fosse»), e che tuttavia
non smette di sentirsi intimamente, cocciutamente, esemplare («c'è
una punta di vero in quel che le mie amiche chiamano, dandomi
grandissimo fastidio, delirio di onnipotenza, come se fra senso di
colpa per non fare abbastanza contro un mondo inaccettabile e volontà
di dominarlo il margine fosse sottilissimo»).
Ma vediamo. I ricordi iniziano con la
nascita a Pola, da poco ricongiunta all'Italia, negli anni Venti del
secolo scorso, e si chiudono con la vicenda della radiazione, sua e
di altri, dal Pci nell' autunno 1969, per aver osato fondare “il
manifesto” (su questo non casuale troncamento della narrazione
tornerò più avanti). Il racconto corre sempre (sottolineerei
l'avverbio) lungo tre contemporanei e paralleli piani di sequenza:
sullo sfondo c'è l'Italia che cambia, con le sue complessità,
anomalie e debolezze (un paese, pensa e dice più volte Rossanda, cui
sono congeniti il «lasciar perdere» e il «rinviare», non meno tra
i progressisti che tra i conservatori); in primo piano, la storia
pubblica della protagonista, la sua militanza, i suoi atti politici,
le sue scelte di schieramento; in mezzo, la sua storia segreta
(interiore, intendo, non privata), il suo mutare nel tempo, la sua
«educazione sentimentale» (come recita lo strillo editoriale
sull'ultima di copertina) ovvero, come io preferirei definirlo, il
lato umano delle cose.
I tre piani di sequenza, ripeto, ci
sono sempre ma distribuiti nel racconto con un diverso equilibrio fra
loro. È ovvio che nella prima parte, l'infanzia e l'adolescenza,
prevalga quello di mezzo, verso la fine, quando la protagonista entra
a far parte del gruppo dirigente centrale del Partito, s'imponga più
decisamente il primo. Di grande intensità anche emotiva le pagine
sull'Italia della grande guerra e sulla Lombardia, povera,
industriosa e operaia degli anni della ricostruzione.
Pare a me che un libro così non si
legga principalmente per sapere come sono andate le cose e perché.
Da questo punto di vista, le domande che Rossanda racconta di aver
ricevuto qua e là nel corso della sua vita («perché hai fatto
questo?», «perché non l'hai fatto?», «perché lo hai fatto
troppo tardi?») non solo non ricevono risposta, ma potrebbero anche
aumentare di numero (ognuno di noi avrebbe da fargliene almeno una).
Il libro di Rossanda è profondamente critico e problematico, e in
taluni punti perfino impietoso (si leggano le pagine sulla sublime
correttezza di Pietro Ingrao, la quale ad una lettura più politica
potrebbe apparire irresolutezza e ingenuità), ma assolutamente,
radicalmente antirevisionistico. A sé e ai suoi, alla sua «parte»,
insomma, Rossanda nulla risparmia, ma nulla concede all'avversario, a
colui che sta dall'altra parte, al (mi verrebbe voglia di scrivere)
«nemico di classe».
Fra questi due estremi - l'autocritica
severa e al medesimo tempo l'autodifesa appassionata di una vocazione
politica che coincide irrevocabilmente con una scelta di vita - si
muove l'occhio attento, scrutatore perplesso e malinconico di questa
protagonista, che aveva tutte le condizioni per fare tante altre cose
più piacevoli e meno fastidiose e ha scelto di fare questa,
difficile, esaltante, spiacevole e... ingrata, e ancora oggi non se
n' è pentita. Sorprende (ma non tanto) che nel libro ci sia una
descrizione assai limitata delle «giustificazioni ideologiche»
della scelta comunista. Sì, s'intuisce, si sa, quale tipo di
marxismo la Rossanda abbia frequentato e amato. Ma quel che lei vuole
raccontarci non è come e perché lei abbia imparato a «pensare
comunista»: quel che lei vuole raccontarci è perché lei ha
«vissuto comunista», e perciò è entrata in quel partito, ci ha
lavorato dentro, ne è diventata dirigente e ha cercato, sia pure
vanamente, di cambiarlo. Insomma, la «serietà comunista», il sogno
condiviso, la molteplicità dei destini che, grazie a quel
contenitore, fra errori, ritardi, deformazioni, pure s' incontravano
e si fondevano. Non, dunque - almeno non in primo luogo, - il partito
delle segreterie federali o di Botteghe Oscure, ma quello dei
«seminterrati» e delle sezioni di strada, il partito di «quelli
che passavano di reparto in reparto o di casa in casa, a fine lavoro,
a raccogliere i bollini del tesseramento» e che, così semplicemente
facendo, «configuravano una società altra dentro a questa». Il
partito di massa, l'identità collettiva, che a lungo andare
(pensava, insieme a tanti altri Rossanda) avrebbe cambiato
l'intollerabile stato di cose esistente, senza irragionevoli rotture
rivoluzionarie, ma anche senza cedimenti opportunistici e sbandate
verso la sfera seducente e onnivora del potere.
Forse è per questo (e spero di non
dirle cosa sgradita) che il ritratto del dirigente comunista più
pacificato e accettabile, più risolto anche di fronte alle sue
enormi contraddizioni e al suo pesante passato, è proprio quello di
Palmiro Togliatti, «cortese, conversevole e lontano, con voce uguale
e sorriso breve, lo sguardo acuto», una sorta di padre saggio e
accorto, poco incline alla benevolenza, ma almeno assai attento:
«Quanto lo avrei criticato negli anni '70 lo rivaluto oggi, una
volta accettato che il suo obiettivo non fu di rovesciare lo stato di
cose esistenti, ma di garantire la legittimità del conflitto». La
legittimità del conflitto e... e, naturalmente, direbbe Rossanda, la
sua traduzione in linea politica in una direzione di marcia che,
rinnovandosi, mantenesse viva la sintonia, che pure c' era stata
(anni 1943-1956) fra Pci e sistema Italia.
Ecco perché la storia, - anzi, in
questo caso, la Storia, - qui finisce con gli anni Sessanta: e non
solo perché con la radiazione la vicenda di Rossanda nel Partito si
esaurisce; ma soprattutto perché negli anni '60, in presenza di una
ribellione studentesca straordinaria e di un imponente movimento di
massa operaio, il Pci rinunciò (e fu per sempre) a tessere la tela
che aveva cominciato: «Sono quegli anni che spiegano l'oggi. Non era
semplice, ma non fu tentato nulla, pensato nulla, neanche un passo
avanti in quell'ambito keynesiano dove pure Pci e Cgil erano
cresciuti e che sarebbe stato anch'esso travolto». Fino allo sfacelo
di oggi.
In un quadro così complesso Rossanda
non si sottrae neanche all'arduo problema sul cosa, in politica,
abbia significato per lei essere donna. Non certo una militanza
femminista o pre-femminista: per lei, per le donne della sua
generazione, l'attività politica ha significato essenzialmente
lottare per essere riconosciute all'altezza dei dirigenti uomini, ed
essere come loro. Tuttavia... Tuttavia - e Rossanda lo accenna più
volte - non fu mai la stessa cosa: «Non sfuggivo al femminile...
Quell'impulso di fuggire davanti alla decisione del fare o no il
corteo proibito fu un avviso che non mi ha impedito di fare scelte
drastiche, ma si ripete ogni volta che non sono in gioco io sola -
sento uno scarto, un esitare, un ritirarmi... La materia di cui sono
fatta ha questa grana. Combattiva ma seconda...».
Forse, più semplicemente, l'essere
donna in politica ha significato per lei vivere, capire e soprattutto
ricordare il lato umano delle cose, la ferita lancinante della
perdita, la tenerezza degli affetti, più che la vanità infinita dei
giochi di potere. Tutto questo - e molt'altro - fuso in una prosa
lucida, fluente, appassionata, inarrestabile: una specie di canto
sospeso, che a me ha ricordato certe composizioni lunghe e profonde,
distese senza fine a mezz'aria, fra terra e cielo, di Luigi Nono.
Scrive Rossanda nelle ultime tre righe del libro a proposito del
lavoro da lei intrapreso presso le nuove generazioni studentesche e
operaie dopo la radiazione dal Pci: «Speravamo di essere il ponte
fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che
aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un'
altra storia».
Neanche quello funzionò? Beh, sì,
forse sì: ma quel canto, anche se la Storia non funziona, tutti
possono intenderlo, e continua.
“la Repubblica”, 25 novembre 2005
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