Pietro Nenni |
Un paradosso, a prima
vista inspiegabile, caratterizza gli studi storici sul movimento
operaio e internazionale tra le due guerre: dopo il 1945 si è
accumulata un’immensa serie di studi e di ricerche
sull'Internazionale comunista mentre ancora poco e male si conosce
l’Internazionale operaia e socialista. Eppure oggi sono proprio i
partiti socialisti, le socialdemocrazie di varia tendenza che
dominano la scena in Occidente e contendono il potere ai partiti
cattolici o conservatori, mentre i partiti comunisti — se si
eccettua, almeno in parte, il caso italiano — attraversano una fase
di declino, legata soprattutto all’incapacità di analizzare i
mutamenti della società industriale e di adeguare ad essi la propria
azione politica.
Sappiamo tutto, insomma,
sulla Terza Internazionale, sciolta ormai da più di quarant’anni,
e non possediamo che memorie e studi parziali sull'organizzazione dei
partiti socialisti ancora viva e vittoriosa (almeno in Occidente)
dopo la seconda guerra mondiale.
Il ruolo di Nenni
Le ragioni del paradosso
ci sono spiegate da Enzo Collotti nelle pagine iniziali degli Annali
Feltrinelli, dedicati appunto a L’Internazionale
operaia e socialista tra le due guerre (pagg. 1240) quando
afferma che «la capacità di mobilitazione politica di larghe masse,
l’intensità del dibattito politico e ideologico che percorse la
Terza Internazionale, la sua stessa capacità di espressione
propagandistica ne fecero una protagonista di primo piano nella
storia del movimento operaio internazionale, le cui vicende sono
entrate a far parte della tradizione e della memoria dei partiti
comunisti rafforzatisi nei movimenti di resistenza nel corso della
seconda guerra mondiale o giunti al potere in conseguenza ai essa».
Ma a queste ragioni occorre aggiungerne un’altra di pari
importanza: ed è che la crisi del primo dopoguerra in Europa si era
conclusa con vincitori e vinti e se i primi erano in alcuni paesi i
fascisti e in altri i conservatori, gli sconfitti erano stati
dovunque i socialisti, dall'Italia alla Germania, all’Inghilterra e
alla Francia. I comunisti, invece, erano apparsi troppo tardi sulla
scena perché si potesse attribuire loro il peso del crollo.
Di qui, ad ogni modo, una
sproporzione impressionante nell’attenzione dedicata dagli storici
alle vicende e ai personaggi di quel ventennio: lo stesso ampio
volume curato da Collotti non si propone affatto di colmare le grandi
lacune esistenti, bensì di costituire un solido punto di partenza
per le ricerche che dovranno svilupparsi nei prossimi anni.
Un primo risultato
interessante riguarda l’analisi del modello di socialismo cui
guardarono negli anni Venti e Trenta i partiti socialisti europei. Di
fronte al mito crescente e contraddittorio dell’Unione Sovietica
come «patria del socialismo» - mito che non dominava soltanto i
militanti comunisti, ma anche una serie di intellettuali d'ogni paese
vicini alla sinistra (basti ricordare il libro famoso dei coniugi
inglesi Webb sull’Urss, che ne diede un’ immagine idilliaca e
inattendibile) - era difficile opporre singole esperienze
riformatrici e amministrative, come quelle, appunto, che potevano
vantare le varie socialdemocrazie.
Nacque così e si diffuse
straordinariamente il mito della «Vienna rossa», della capitale
austriaca governata, fino al colpo di Stato clerico-fascista del
1934, da una social-democrazia attiva e originale, intenta a
costruire un modello alternativo rispetto a quello sovietico, se pure
in dimensioni assolutamente non confrontabili. E alla «Vienna
rossa», Enzo Collotti dedica negli Annali Feltrinelli una ricerca
approfondita che chiarisce molti punti essenziali di quell'esperienza
e lo conduce a conclusioni ancora problematiche: «Il successo della
socialdemocrazia viennese», egli osserva, «viveva anche e si
moltiplicava sulla base di quello che Vienna aveva già costruito. Il
segnale che l'esperienza viennese lanciava significava che era
possibile cambiare le cose, ma non era un segnale né sui tempi brevi
né applicabile indiscriminatamente in ogni circostanza». Fu insomma
un’esperienza strettamente legata alla storia della città e della
prima repubblica austriaca, non un modello estensibile ad altri
paesi.
Un altro capitolo
significativo della vicenda dell’Internazionale operaia e
socialista è quello dedicata al ruolo di Pietro Nenni e del Psi di
fronte alla situazione intemazionale, ai riarmo e alla guerra che si
avvicinava. In alcune ricerche (coordinate tra loro) di Bruno Tobia,
Mario Mancini e Leonardo Rapone viene ricostruito con precisione il
dibattito che si apre negli anni Venti e va avanti fino alla svolta
dell’impresa d’Etiopia e della guerra civile di Spagna sul «che
fare» di fronte alla politica dei paesi fascisti, Italia e Germania.
Emerge così in modo assai netto l'esistenza nell'Intemazionale
socialista di due tendenze contrapposte: l’una — che fa capo
soprattutto al partito socialista francese e al Labour Party —
appiattita sulla politica conservatrice di «appeasement»; l’altra,
in cui ha gran parte Nenni, ma anche Otto Bauer, che fino alla metà
degli anni Trenta cerca inutilmente di sottolineare la natura
fatalmente aggressiva dei fascismi e la conseguente necessità di non
cedere, di prepararsi a uno scontro decisivo per l’avvenire della
democrazia.
Dalla ricostruzione di
quegli anni si ricava la sensazione prepotente di un assedio cui le
socialdemocrazie non riescono a far fronte. Da una parte c’è il
mito del socialismo sovietico che tarda a rivelarsi per quello che è
in una fase di intensa trasformazione industriale della Russia, che
costa lacrime e sangue ma sembra andare nella direzione di un
innegabile progresso economico-sociale; dall’altra l'ondata
conservatrice che si impadronisce dell’Occidente e porta alla
ribalta uomini deboli come Chamberlain, o disposti, in tutto e per
tutto, a colludere con i fascisti, come il francese Daladier. Così i
socialisti sono soli e si dividono: quello di Angelo Tasca e delle
sue incertezze di fronte a Vichy è un caso estremo (non l’unico)
che rivela una situazione di intenso disagio e difficoltà.
Domande irrisolte
Ma l’interesse del
volume curato da Collotti sta anche nell’apertura di fronti nuovi
alla ricerca sul socialismo internazionale. Penso ai saggi di Tony
Judt e Patrizia Dogliani sulla struttura sociale dei partiti
socialisti dopo la prima guerra mondiale (quello francese, in
particolare) e sui quadri e sull’organizzazione
dell’Internazionale. Penso, ancora, alla ricerca assai fine
condotta da Alfredo Salsano sugli «ingegneri e il socialismo» negli
anni Trenta, quando il «planismo» di de Man e il «taylorismo»
sociale americano attraggono molti giovani dirigenti dei partiti
socialisti presentandosi come una «terza via» tra il capitalismo
liberista e la pianificazione rigida praticata dall'Urss.
Salsano osserva, a ragione, che è ancora in buona parte da ricostruire «la storia della risposta che ebbe il planismo nelle varie componenti del movimento socialista e operaio europeo» e che ancora oggi su ciò pesa negativamente il destino personale di de Man, divenuto collaborazionista dei nazisti. Ma proprio il suo lavoro dimostra che per rispondere a questa e ad altre domande ancora irrisolte è necessario dedicare meno spazio all'analisi del dibattito ideologico e più attenzione alle concrete esperienze di governo e di azione politica dei socialisti tra le due guerre mondiali.
Salsano osserva, a ragione, che è ancora in buona parte da ricostruire «la storia della risposta che ebbe il planismo nelle varie componenti del movimento socialista e operaio europeo» e che ancora oggi su ciò pesa negativamente il destino personale di de Man, divenuto collaborazionista dei nazisti. Ma proprio il suo lavoro dimostra che per rispondere a questa e ad altre domande ancora irrisolte è necessario dedicare meno spazio all'analisi del dibattito ideologico e più attenzione alle concrete esperienze di governo e di azione politica dei socialisti tra le due guerre mondiali.
"la Repubblica", ritaglio senza indicazione di data, ma 1983
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