24.6.17

Il giacobino mite. Alessandro Galante Garrone giornalista (Alberto Sinigaglia)

Il Duce infilzato con l’ombrello. Non è una vignetta di Altan su fatti attuali, ma l’autoritratto che Alessandro Galante Garrone dava - parapioggia in pugno - dei propri inizi nel giornalismo. Chi lo ricorda vi dirà che fu un magistrato e uno storico. Nessuno dirà: «Un giornalista». Eppure era quello che Sandro avrebbe voluto fare fin da ragazzo. Aveva tredici anni quando nella sua Vercelli fondò con i fratelli un giornalino, “L’ombrello impermeabile”, contro il foglio fascista “La doccia”. Ne compiva quarantasei quando trovò con “La Stampa” la sua definitiva torre di combattimento.
L’aveva chiamato nel 1955 il direttore Giulio De Benedetti. Ricordava Galante Garrone: «Mi chiese di rievocare il 25 aprile ‘45 a dieci anni dalla Liberazione. Disse: “Lei sarà un grande giudice, un ottimo storico, ma vediamo come se la cava come giornalista”». Se la cavò. Quell’articolo di prova apre Il mite giacobino giornalista, nuovo quaderno del Centro Studi Piero Calamandrei di Jesi, che oggi verrà distribuito nella cittadina marchigiana durante la celebrazione ufficiale della Liberazione. Un’antologia dei primi passi di Galante Garrone nel laboratorio di idee, di lingua, di stile, nel quale avrebbe temprato il suo terzo, definitivo mestiere.
Già nel ‘55 scriveva: «Nel rapido trascorrere e mutare degli eventi, anche la Resistenza, e tutto quello che allora confusamente sentimmo, e le istituzioni combattute e travolte [...] cominciano ad apparirci come un passato, storicamente definibile». Riteneva «giunto il momento del ripiegamento critico, dell’esame di coscienza: che non esclude e anzi presuppone la simpatia profonda per gli ideali che animarono la Resistenza, ma esige il consapevole distacco dall’opera compiuta, e ormai risolta senza residui nella realtà in cui viviamo. [...] Liberiamoci da qualsiasi visione mitica della Resistenza. È la prima condizione per intendere la storia». E giudicando Il secondo Risorgimento, appena edito dal Poligrafico dello Stato: «Quel titolo stesso è finito per diventare una formula retorica che annebbia la visione della realtà».
Il «mite giacobino» - come si definiva per il carattere insieme dolce e intransigente - sul giornale si sarebbe ancora occupato di storia, che pretendeva «giustificatrice e non giustiziera», ma era pronto ad affrontare i nodi cruciali della giustizia, della scuola, della famiglia, dei rapporti tra Chiesa e Stato. A lanciarsi con impeto nelle battaglie civili.
Prima di entrare tra i collaboratori della “Stampa”, scriveva sul “Ponte” di Calamandrei e in seguito avrebbe continuato a scrivere sulla “Nuova Antologia” di Spadolini, sull’“Astrolabio, sull’“Espresso”. Ma il quotidiano esigeva altre regole: spazi ridotti, capacità di sintesi, rapidità. Galante Garrone seppe stare al gioco, si affinò, acquistò sapienza nella scelta dei temi, prontezza nell’eseguire quelli che gli venivano commissionati, autorevolezza. Tra le firme-bandiera della “Stampa”, la sua ha svettato quarantasei anni filati. Un record di durata, di coerenza, di coraggio.
Fedele alla regola di Kant: «Fare un uso pubblico della nostra ragione», il professore per mezzo secolo esercitò la propria sui nervi scoperti del Paese: l’indipendenza dei giudici, l’invadenza del Vaticano, la condizione della donna, la laicità della scuola, i diritti delle minoranze, il delitto d’onore, il divorzio, l’aborto, la censura, la pena di morte, la dignità del lavoro, il caso Ippolito, il caso Tortora, il brigatismo rosso e nero, la condanna di Sofri, la fuga di Kappler, il ritorno dei Savoia, la protezione dell’ambiente. Amante della musica, dedicò il suo ultimo breve articolo al violinista Salvatore Accardo.
Scrittura chiara, pensiero forte, toni moderati, giudizi intransigenti, il giornalista Galante Garrone - come «giornalisti» furono Aldo Garosci, Leo Valiani e Norberto Bobbio - fedele al suo alto senso civico e del vivere civile, non temette ostilità, non si sottrasse ad alcuna polemica. Più che per l’epiteto di «fazioso» con il quale lo bollò Silvio Berlusconi soffrì per la solitudine in cui negli anni finali, lo lasciarono, tranne poche eccezioni, quegli intellettuali che aveva sperato suoi eredi.

“La Stampa”, 25 aprile 2010

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