31.7.17

Quando i sogni si confondevano con la realtà. Intervista a Paola Pitagora (Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo)

"I pugni in tasca" (Marco Bellocchio) - Paola Pitagora e Lou Castel 
Sembra un racconto alla John Fante, o in stile Moehringer, ma siamo a Roma, sono i primi anni Sessanta, quando i sogni si confondevano con la realtà e Paola Pitagora stava per entrare nel mondo fatato di Fellini: "Tutto è nato da un distributore di benzina, Renato (Mambor) lavorava lì, la sua arte non bastava per vivere, quindi bene arrangiarsi. Un giorno si ferma un'auto, un'auto importante, dentro c' erano Federico Fellini e il suo aiuto-regista, Guidarino Guidi. Guardano Renato e restano folgorati: era alto quasi due metri, bellissimo, grande personalità, spiccava nella sua tuta azzurra. Viene ingaggiato per la Dolce vita, e mi porta con sé. Ci amavamo e condividevamo".
Paola Pitagora racconta quegli anni improvvisi, "vissuti quasi con incoscienza", in un libro bello, vero, di atmosfera (Fiato d' artista. Dieci anni a Piazza del Popolo, ripubblicato di recente da Sellerio), costruito tra i vicoli della Capitale, la solidarietà, le discussioni, il maschilismo, la politica e le aspettative di un gruppo di artisti (da Kounellis a Pino Pascali, fino a Schifano oltre allo stesso Mambor) ancora lontano dall'incidere il proprio nome e cognome negli annali dell'arte.

Era il tempo delle mezze porzioni al ristorante
Sì, ma le chiedevamo abbondanti. Oppure puntavamo sulle minestre, magari intere, costavano meno e davano sollievo allo stomaco.
Non c' era una lira
Zero. E vivevamo al centro di Roma, tutti gli studi degli artisti erano intorno a piazza del Popolo, giravamo sempre per quel triangolo, la nostra vita racchiusa in un fazzoletto. Una meraviglia non ce ne rendevamo conto.
Di cosa, in particolare?
Di quanto fosse bella quella Roma. Unica. Stimolante.
Era anche l' epoca di via Veneto.
Lontanissima da noi: eravamo dei poveracci, non ci andavamo, era per cinematografari, vip, turisti statunitensi, altri prezzi, altre liturgie, altra generazione.
Vietata a voi
Il punto è un altro: non ci veniva proprio in mente. Con Renato abbiamo sfiorato quell'atmosfera solo con la comparsata nella Dolce vita. Ah, Anita Ekberg era strepitosa.
Bella come poche.
Circondata da una serie infinita di innamorati, da Walter Chiari a scendere, tutti appresso a lei, a contendersela, mentre aveva già scelto il preferito: Gianni Agnelli. O almeno così si diceva
Insomma, tutto nasce per un rifornimento di benzina
Professionalmente devo molto a quel caso. L'unica domanda che l'assistente di Federico fece a Renato, fu: 'Sai ballare?'. Sì. 'Bene'. Poi prese il suo telefono e se ne andò.
E dopo?
Renato ottiene un appuntamento e si porta dietro la ragazza, cioè io. L' ingaggio era di ben 15 mila lire, una cifra pazzesca, noi inebriati di ricchezza, e per lavorare appena una settimana e di sera.
I suoi genitori erano d'accordo con le aspettative d'attrice?
Mia madre no, era l'epoca del 'cosa ti laurei a fare, tanto ti devi sposare'. Volevano mi iscrivessi a un corso da segretaria d'azienda e a 19, 20 anni avrei avuto un impiego fisso.
Lei non ci pensava minimamente.
Ci ho provato, poi la malinconia mi ha assalito, mi sono iscritta a una scuola di recitazione part-time, dove ho incontrato Mambor. Però non intendevo intraprendere questo mestiere, volevo solo uscire da un bozzolo.
Poi ha frequentato la celebre scuola di Alessandro Fersen
La svolta. Venni selezionata insieme ad altre nove persone, cinque femmine, altrettanti maschi, un contratto di sette anni con 50 mila lire al mese garantito dal produttore Franco Cristaldi, in cerca di talenti da crescere. Poter lavorare senza l'assillo della fame. E poi allora c'erano set ovunque, Fersen ci diceva: 'Dovete difendervi dal lavoro, dovete fare scelte giuste'. Capisce? 'Difenderci dal lavoro', una frase che oggi fa sorridere.
Com'era da studentessa-attrice?
Impacciata. Una volta il maestro mi prese a schiaffi: 'Datti una mossa, svegliati!'. Inoltre arrossivo sempre e per le situazioni più imprevedibili, specialmente per gli sguardi maschili.
Nel libro racconta i provini di allora
Maschilismo puro, le attrici erano catalogate per le doti fisiche, la prima frase era 'signorina faccia vedere le gambe', e non parliamo solo del regista, le richieste arrivavano pure dalle maestranze o dagli aiuti. Anzi, il test partiva da loro.
E lei?
Mi presentavo con una fotografia in costume da bagno, ma non bastava, spesso scappavo.
Insomma, allora funzionava così
Perché, oggi no?
Ce lo dica lei
(La risposta è chiusa in un suo sorriso)
Comunque, questo atteggiamento era costante
Non sempre, come nel caso della Rai, un altro livello. Una volta mi sono trovata in un provino con Pintus, Barbato e Zavoli, carinissimi a scrivermi i testi che poi imparavo a memoria. E poi il teatro: un' altra storia, migliore.
Mambor come si rapportava ai suoi primi successi?
Insomma, la donna di talento è sempre difficile da sopportare, e anche Renato accusava qualche colpo. Temeva di non sapermi gestire. Però finita la nostra storia, siamo rimasti amici, fino alla fine.
Era infastidito dagli uomini che le giravano attorno?
Di solito no, solo quando gli rivelavo che mi piaceva qualcuno, allora scattava il problema.
Vi tradivate?
Qualcosa, ma negli ultimi tempi del rapporto. Avevamo l'obbligo della sincerità, ci raccontavamo
ogni cosa, le mie e le sue, in qualche modo ci scaricavamo la coscienza.
Lei era gelosa?
In un' occasione gli ho buttato il materasso giù dalle scale.
Gli altri artisti del gruppo cosa dicevano di lei?
Da tutti ero considerata solo la fidanzata di Renato, un' attricetta, Pino Pascali era l'unico che mi parlava da pari a pari, l'unico che mi guardava negli occhi.
(…)
Dopo piccoli ruoli, quello da protagonista è arrivato con I pugni in tasca di Bellocchio
Leggo il copione e mi prende un colpo: a un certo punto il protagonista, Lou Castel, uccideva la mamma spingendola in un burrone. Guardo Renato e gli dico: 'Non ce la faccio, sembra un film dell'orrore!'. E lui: 'Vai, è da protagonista'.
E invece?
Sul set capisco la forza di Bellocchio, nascosta dietro la sua timidezza. Una scena non veniva mai girata più di tre volte, nonostante la giovane età sapeva quello che voleva.
Ci furono problemi successivi
Soprattutto per la distribuzione. Dino De Laurentiis non lo voleva, al grido: 'La mamma non si uccide!'.
La vera fama arrivò con il ruolo di Lucia ne I Promessi sposi
Neanche intendevo presentarmi al provino, mi sembrava troppo lontana da me. Io che faccio il voto di verginità? Ma vogliamo scherzare!
(…)
Lei era considerata un' intellettuale
No, sbagliato: la definizione giusta era 'un' intellettuale del cazzo', etichetta affibbiata dopo il film di Bellocchio.
Nel libro scrive: 'Gli attori si sa, non hanno etica'.
Frase un po' ironica, ma quando uno vede in uno spot Antonio Banderas che parla con una gallina, non pensa che lo fa per amore dell'arte. Poi sulle attici c'è una pendenza in più.
Quale?
Le domande 'a chi l' hai data?' e 'quante volte l' hai data?'.
Le è stata rivolta in molte situazioni?
Una persona se la vede tra sé e sé, e non si deve mai dire 'io non l' ho data a nessuno' o 'io l' ho data a'.
Quanto fa parte del suo ambiente questa storia di 'darla'?
Si narra che il primo cinema hollywoodiano fosse interpretato da sole fidanzate di produttori.
L'imprinting
Poi è proseguito: durante i miei anni, le star si chiamavano Cardinale e Loren, donne di talento ma con un signore importante dietro a seguirle.
La Cardinale a un certo punto si è ribellata
Solo quando era già una star internazionale.
Questo atteggiamento maschilista si è mitigato con gli anni Settanta?
Solo in peggio. Tra una canna e un bicchiere di vino ti dicevano: 'Che nun ce vieni con me?' No. 'Allora sei una borghese'. Tutto era borghese, tutto quello che non funzionava per loro, sparavano una serie infinita di stupidaggini.
Lei era attaccata per la storia con Morandi
Un massacro. Venivo dipinta come la ruba mariti o la sciupafamiglie, io ero 'l' altra', la perfida, e questa storia è durata anni e anni, una sorta di stalking, fino a quando un mio amico avvocato mi ha spinto alla querela, e ho vinto.
Non era vero
No, sono arrivata quando Morandi e la moglie si erano già lasciati, e non a causa mia. Però l'obiettivo era far esaltare la purezza del cantante rispetto a me.
La sua carriera danneggiata?
Sì, e non poco. Non solo: la storia coincise con un altro problema, questa volta politico.
Cosa era successo?
Siamo nel settembre del 1973, uccidono Allende, al palazzo dello Sport di Roma organizzano una grande manifestazione in difesa del Cile. Sono coinvolta. Presa della foga mi affaccio sul palco e alzo il pugno chiuso. Pochi giorni dopo esce un articolo su Panorama con il titolo 'Paola la rossa'.
E quindi?
Ero sotto contratto con la Rca, filo-Vaticano, mi dimezzarono subito il cachet.
(…)
Sarà stata controllata dai servizi segreti
Non lo so, ma alcune situazioni strane riguardano quel periodo. Una volta, in un albergo, ho incontrato una persona che sapeva tutto di me, cose non pubbliche.
L'attore più coinvolto politicamente era Volonté
Una volta, a una manifestazione sindacale, arrivò con un cartello sul quale era scritto 'Abbasso lo zoom'.
Cosa voleva dire?
Mai saputo.
Mai
E me lo sono domandato tante volte. Ma lui era così, quando parlava pendevamo dalle sue labbra, un carisma imparagonabile, lo chiamavamo 'Lotto continuo', protestava pure perché lo pagavano troppo. Un attore strepitoso, un mostro, a livello interiore tirava fuori cose incredibili.
A casa sua si parlava di politica?
Certo. Delle risse violente, uscivo con le orecchie rosse per le urla. Ma in quegli anni tutta l' Italia discuteva di Pci, Dc, compromesso storico, divorzio.
Anni recenti: lei ha ottenuto una nuova popolarità con Incantesimo
E soprattutto sono riuscita a pagare il mutuo, per noi attori non capita spesso di avere una continuità lavorativa così lunga: ben nove anni di fiction.
Ha l'ansia da palco?
Sempre, una strizza vera, vissuta con i miei piccoli riti, come raccogliere i chiodi in quinta. Meglio se arrugginiti.
Lei è stata in tournée con Gassman
Eravamo in tre, con noi anche Fred Bongusto. Che fatica!
Per Bongusto
No, mi riferisco a Vittorio. In quel periodo voleva rompere, puntava sul teatro d'avanguardia: a Caracas, in occasione della prima, si presentò in platea con un'enorme insalatiera di pasta da offrire.
Reazione?
Le critiche ci hanno ammazzato, lo spettacolo era il caos, un ibrido pazzesco.
Osava dirlo a Gassman?
Sì, infatti siamo finiti a birrate addosso. Solo dopo anni ci siamo riconciliati.
Il suo domani?
Difficile dirlo, non ci sono parti per le attrici della mia età. Non c' è nulla. È veramente un altro mondo.



“il Fatto Quotidiano”, 18 giugno 2017

Fritz Lang, ariano "ad honorem". Orson Welles racconta.

Fritz Lang
Fritz Lang, hai presente? Di madre ebrea, mi raccontò che Goebbels voleva metterlo a capo dell'industria cinematografica nazista e gli aveva proposto di nominarlo ariano ad honorem. In tutto gli ariani ad honorem si potevano contare sulle dita di una mano.
"Ma io sono ebreo" disse Fritz Lang.
Al che Goebbels gli fece: "Decido io chi è ebreo e chi no!".
Lì Lang capì che era ora di andare via dalla Germania.

In Giorgio Dell'Arti, Le diete infrante dello squattrinato Orson Welles, "Il Sore 24 Ore 18/7/2015

'O musicante'. Dall'autobiografia di Pino Daniele

Glorie e poesie di un mascalzone latino, l’autobiografia di Pino Daniele, scritta in collaborazione con Mimmo Liguoro, fu pubblicata dalla Tullio Pironti Editore nel 1994. Il quotidiano “il manifesto” ne pubblicò il breve estratto dedicato a Troisi ed Eduardo che qui riprendo. (S.L.L.)

Lo avevo conosciuto quando faceva parte del gruppo La smorfia, alla trasmissione No stop. Ma, stranamente, mi sembrò, e forse sembrò a tutti e s due, di esserci già incontrati. Dove? Nella regione impalpabile del cervello e dei sentimenti. Non è forse vero che «primma ’e d’ ’o tiempo all’uocchie», ’o core già s’è fatto avanti? Sentivamo che tutti e due ci eravamo incamminati lungo la stessa strada. Essere napoletani era per noi un ancoraggio formidabile, ma poi bisognava sganciare la cima e navigare in mare aperto. Pur essendo legato non solo sentimentalmente a Napoli, io mi sento, per dir così, universale, cioè senza limiti per la mia ricerca artistica, per le verifiche, incontri, proiezioni dell’interesse culturale verso altri climi, altre realtà.
La scommessa è quella di conservare il modo di essere napoletani (radici, valori essenziali, consapevolezza dell’appartenenza) con l’apertura alle esperienze che vengono vissute, nel campo che ti riguarda, anche nel resto del mondo. Io e Massimo, ciascuno a modo suo, inseguivamo questa scommessa.
Un giorno, ricordo, eravamo in viaggio per Viareggio. Gli avevo chiesto di aiutarmi per un video (...) Aiutarmi, cioè offrirmi qualche spunto. E lui subito, in macchina, si mise a scrivere. Dopo pochissimo tempo (eravamo arrivati al passo della Cisa) era pronto il testo della canzone T'aggia vede’ morta. Arrivati a Viareggio, fui preso - naturalmente - dal desiderio di vedere il mare. E arrivati sulla spiaggia, mi tolsi scarpe e calzini, mi arrotolai il pantalone sulle caviglie e cominciai a passeggiare dove le onde si sdraiavano lente sulla sabbia. In quelle condizioni, era chiaro a tutti i presenti che non avevo assolutamente l’aria di chi volesse o potesse affondare nell’acqua, neppure per due centimetri. E invece Massimo, fingendo preoccupazione per le mie sorti, s’avvicinò calmo ma solenne e, come se si rivolgesse a uno pronto a tuffarsi, mi disse: «Nunt’alluntana’, eh...».
Ci vedevamo spesso, e più spesso ci sentivamo al telefono. Mi stette vicino, quando subii l’intervento. Una presenza assidua e discreta, che mi ha aiutato non poco a riprendermi e a ricredere nel futuro. Quel singolare rapporto nostro, cresciuto su una sintonia di fondo, preesistente alla nostra conoscenza diretta, è andato avanti fino alla sua morte. E, non è retorica, per me dura ancora. Voglio dire, semplicemente, che per me è come se Massimo fosse ancora vivo e presente nelle mie giornate. Faccio fìnta che «ce simmo appiccecati», che abbiamo litigato, e che per questa minima ragione non ci vediamo più. Con la consapevolezza che poi questa banale ragione sarà superata. (...) Quando penso a Troisi attore e autore, mi viene in mente Eduardo De Filippo. Io e Massimo ci siamo riferiti al modo di sentire, desiderare, pensare di una generazione recente. Eduardo è lo scalino precedente di una grande scala che parte da molto lontano ed è proiettata ancora in avanti, verso un inafferrabile orizzonte. Tante famiglie napoletane (e non solo quelle napoletane) degli anni della mia infanzia si identificavano in Eduardo e nei suoi personaggi. Quando compariva in televisione, io ricordo bene, per le strade c’era il deserto. Dalle finestre socchiuse, dai balconi con le persiane accostate, dai «bassi» metà aperti e metà chiusi, veniva fuori quella luce azzurrognola della televisione di sera, quando intorno è buio. E si sentiva quella voce che si lasciava andare a un monologo, o duettava indispettita, o ragionava con tono pacato. Chi non la ricorda? «Vedete quanto poco ci vuole per fare felice un uomo: ’na tazzulella ’e café fuori dal balcone, all’aria fresca...»: il protagonista di Questi fantasmi esorcizzava la paura degli spettri (o era paura della vita?) parlando col dirimpettaio, ’o prufessore, che lo scrutava e, in fondo, lo tenevasotto esame. Quando lo conobbi, Eduardo mi disse che gli piaceva la mia canzone ’Na tazzulella ’e café, del 1977. E certo, in questa sua preferenza doveva esserci un forte riflesso di quel suo pezzo teatrale, in cui la tazzina di caffè, la macchinetta col beccuccio, gli espedienti semplici ma geniali per rendere il caffè più aromatico, diventano i simboli di un antico modo di vivere. Tra spaventi, sospetti, colpi di scena, fulmini e apparizioni finte, resta giusto il tempo per bere una «tazzulella» di caffè: è l’unica parentesi serena: come ci vuole poco...(...)
De Filippo ha rappresentato un secolo di cultura e vita del popolo napoletano. Un periodo in cui, senza le sue commedie, si sarebbe forse perduta ogni traccia, dal vivere quotidiano ai valori e alle disavventure sociali. Se fosse possibile, paragonerei Eduardo a Miles Davis. Perché? Perché Davis è stato il più grande musicista di questo secolo, secondo me. (...). Eduardo, riassumendo la grande lezione del teatro napoletano, ha portato sulle scene l’attualità, i problemi dell’uomo contemporaneo, i suoi tormenti, le sue piccole gioie e le insidie che ogni minuto lo circondano. E ha dato a tutti un filo di tela da tessere, soprattutto agli artisti più giovani. Così, io mi sento «in continuità» con la sua presenza culturale, devo molto a lui come ad altri personaggi che hanno esercitato un’enorme influenza sul modo di concepire il rapporto con l’ispirazione artistica e col pubblico. Se io posso essere il testimone di una generazione che, al di là delle contaminazioni, si è mossa e si muove nel fiume di quella che chiamano «napoletanità», allora non posso dimenticare quanto a me è venuto dagli esempi di persone come Eduardo o, per altri motivi, come Sergio Bruni o Roberto Murolo.

il manifesto, 11 novembre 1994

Quando Lutero era cattolico (Massimo Firpo)

Adriano Prosperi, a 500 anni dalle tesi di Wittenberg, ha raccontato l’esperienza spirituale del fondatore del protestantesimo risalendo alle inquietudini del monaco da giovane. Posto qui la recensione di Massimo Firpo. (S.L.L.)

Libri, convegni, seminari, conferenze commemorano ovunque in questo 2017 il quinto centenario delle tesi di Wittenberg, con cui Lutero diede avvio alla Riforma protestante. Fresco di stampa è questo poderoso Lutero di Adriano Prosperi (Mandadori), una biografia del monaco sassone che ne segue l’esperienza religiosa fino alle grandi scelte del 1520-21, alla scomunica di Leone X, alla messa al bando dell’Impero, al ritiro nel castello della Wartburg e all’avvio dell’immane impresa della traduzione della Bibbia in tedesco. Una biografia che si arresta nel momento in cui, consumata la rottura con Roma, Lutero affronta temi politici e organizzativi e si impegna in inesauribili controversie, fino a diventare il venerato padre fondatore di una nuova Chiesa. Restano quindi fuori dal quadro vicende importanti quali la discussione con Erasmo sulla libertà dell’arbitrio del 1524-25, la durissima presa di posizione contro i contadini in rivolta del ’25, la dieta d’Augusta del 1530 in cui fu formalmente presentata la definitiva confessio fidei detta appunto augustana, il consolidarsi del luteranesimo in tutta l’Europa settentrionale fino alla morte del riformatore sassone nel ’47.
Non una biografia completa ed esaustiva, dunque, ma la narrazione dell’esperienza spirituale di un monaco travagliato da angosciose inquietudini sul proprio destino ultraterreno e il suo maturare con tale forza e determinazione da sfociare infine in una profonda frattura della christianitas europea. Il Lutero ancora cattolico, insomma, nonostante i suoi libri di fuoco, il Lutero che intende riformare la fede ben più che la Chiesa, lontanissimo dal volerla abbattere, che vorrebbe anzi salvare dagli errori di coloro che ne sono diventati gli illegittimi tiranni. «Lutero non fu e non si sentì mai né eretico né ribelle... Fu un riformatore, non un eretico», scrive Prosperi, nel delineare un suggestivo profilo del giovane Lutero, come già aveva fatto nel 1928 il grande storico francese Lucien Febvre in un piccolo libro diventato un classico, e nel 1946 il valdese italiano Giovanni Miegge in un’opera poi rimasta incompiuta.
Lo stesso sottotitolo del libro chiarisce che ad essere indagati sono «gli anni della fede e della libertà», gli anni della scoperta della giustificazione per sola fede nel valore salvifico del sacrificio di Cristo, che libera il cristiano da ogni vana fiducia nei propri meriti, e con essa dalle inutili pratiche devozionali sulle quali la Chiesa basava il suo potere. Era l’esito del fallimento della sua illusione che a portarlo alla salvezza eterna potesse essere la via dell’ascesi monastica, pur percorsa con rigorosa tenacia e serietà. Ne scaturì una crisi umana e religiosa approdata infine alla scoperta del Vangelo, con il suo annuncio di un Dio misericordioso che non per giustizia ma per grazia giudica l’umanità corrotta dal peccato originale. Per liberarsi dal peso opprimente della minaccia che facevano gravare su di lui parole come peccato, colpa, dannazione Lutero dovette passare attraverso un’«inaudita, intollerabile sofferenza», scrive Prosperi, superata solo «interrogando con i mezzi di una straordinaria intelligenza e cultura la fonte dove proprio Dio aveva dato la sua legge», la Bibbia, per coglierne il significato autentico.
Ma il suo appassionato impegno pastorale, i suoi doveri di confessore e professore, la sua convinzione che la fine dei tempi fosse ormai imminente gli imposero di non rinchiudere nel suo cuore quella scoperta, ma di comunicarla al mondo, di farne partecipe «l’uomo comune» e di perseverare in questa battaglia fino in fondo, a qualunque costo: anche se la sua riflessione teologica e le polemiche controversistiche lo avrebbero portato in breve tempo a un conflitto sempre più aspro contro la prassi pastorale e il magistero della Chiesa, fino a negarne l’autorità e la struttura gerarchica, fino alla denuncia del papa Anticristo. In quei primi anni Lutero si dedicò anima e corpo a diffondere il suo messaggio di fede e di speranza, non a costruire una nuova Chiesa; ma quando i contadini si ribellarono, non esitò a esortare i principi a una durissima repressione, stringendo con loro un’alleanza destinata ad avere un ruolo decisivo nell’imprimere sulla storia tedesca il marchio di un primato dell’obbedienza che avrebbe consegnato le Chiese luterane a una lunga subalternità al potere politico, come si sarebbe constatato anche durante il nazismo.
Sintesi di grande respiro anche dal punto di vista narrativo, il libro ricostruisce il quindicennio in cui Lutero venne scoprendo la libertà del cristiano, l’autentico significato della parola di Dio rivelata nella Bibbia (sola Scriptura), la grazia divina come unica fonte di redenzione e quindi la giustificazione per fede (sola fides). Tutt’altro che mera raccolta di «appunti e racconti tratti da una lettura cursoria dei suoi scritti» queste pagine ariose e al tempo stesso dense gettano uno sguardo penetrante sul primo Lutero, sulla «terribile serietà» con cui – dopo la conversione e il voto di farsi monaco – affrontò gli studi teologici e l’obbedienza alla regola agostiniana che la sua scelta implicava, nonché i compiti pastorali e di insegnamento affidatigli dai superiori. E lo fanno tenendo conto dei contesti in cui la sua esperienza si svolse, della realtà politica e sociale della Sassonia elettorale di Federico il Saggio, della crisi profonda dell’istituzione ecclesiastica in capite et in membris tra i pontificati rovereschi e quelli medicei, dello sfaldarsi della tarda scolastica sotto i colpi della cultura umanistica, del ritorno ad fontes che essa proponeva, della riscoperta della Bibbia che ne conseguiva. A ciò si aggiunga la nuova e rapidissima circolazione delle idee consentita dalla diffusione della stampa, che in breve tempo trasformò l’intensa esperienza di fede e riflessione teologica di Lutero in un messaggio destinato a estendersi a tutta l’Europa. Non a caso egli stesso vide nell’arte tipografica una manifestazione della provvidenza di Dio, affinché la riforma della fede cristiana potesse affermarsi e consolidarsi.
Da quella frattura, iniziata con le 95 tesi del 1517, sarebbero nate due Europe contrapposte, scrive Prosperi, destinate a combattersi per secoli, fondata l’una sul «governo esterno della condotta morale» e l’altra sulla «coscienza morale come guida». E sarebbero nate due immagini contrapposte di Lutero: quella del padre di tutti gli altri riformatori cinquecenteschi, «l’oceano» dal quale avevano tratto alimento «tutti li altri heretici non altrimente che li fiumi recevano l’acque dal mare,... zwingliani, calviniani, anabattisti et altri», secondo la definizione di un suo seguace italiano; e quella del progenitore di tutte le rivoluzioni dei secoli seguenti, dal quale – come scrisse un cardinale dell’Ottocento – erano nati «come parti titanici il Voltaire, il Rousseau, il d’Holbach, il d’Alembert, il Diderot, il Mirabeau, il Turgot, il Danton, il Robespierre», e infine «tutti i socialisti e comunisti» e «tutti i focosi liberali dei nostri tempi». Fantasie paranoiche dell’integralismo cattolico ottocentesco, senza dubbio, ma anche oggi, quando molta acqua è passata sotto i ponti, quando papa Francesco si incontra con la pastora di Lundt, in Svezia, e parla della comune fede cristiana, le differenze restano profonde. La rocciosa realtà della storia si sottrae alle ardite acrobazie esegetiche dei teologi, sempre solerti nell’adeguare alle esigenze del presente le immutabili verità di ieri. Né si può dimenticare – come ha sottolineato Hans Schilling in un’altra biografia – quali e quanti mutamenti furono indotti nella Chiesa cattolica dall’esigenza di reagire alla sfida luterana, senza la quale non ci sarebbe stata una Controriforma destinata a durare ben oltre le invettive del cardinale Alimonda. Per molti e non trascurabili aspetti della sua storia, insomma, conclude Prosperi, «Roma può ringraziare Lutero, anzi lo sta già facendo».


“Domenica – Il Sole 24 Ore”, 4 giugno 2017

La poesia del lunedì. Anonimo ( Dai "Lirici Greci" - Trad. Salvatore Quasimodo)


Canto mattutino
Dorati uccelli dall'acuta voce, liberi
per il bosco solitario in cima ai rami di pino
confusamente si lamentano; e chi comincia,
chi indugia, chi lancia il suo richiamo verso i monti:
e l'eco che non tace, amica dei deserti,
lo ripete nel fondo delle valli.

dal Papiro di Tebtunis - L'anonimo autore è, forse, del III secolo a.C.

30.7.17

La grande vacanza orientale-occidentale. Adolescenza al mare, in Sicilia (Vincenzo Consolo)

La spiaggia di san Gregorio, a Capo d'Orlando

Una costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia. Era un correre allora dei pescatori dalle loro casupole in fila là oltre la strada di terra battuta, era un chiamare, un clamoroso vociare. Le donne, sugli usci, i bimbi in braccio, ansiose osservavano. I pescatori, i pantaloni fino al ginocchio, tiravano svelti le barche, in bilico sui parati, fino alla stradina, fin davanti ai muri delle case. D’inverno era ferma la pesca, le barche stavano sempre tirate sulla spiaggia. Una accanto all’altra, il nudo albero contro il cielo, gli scalmi consunti, strisce e losanghe lungo i fianchi, grandi occhi stupefatti o poppute sirene alle prore. Era il Muto il pittore di barche. Con buatte e pennelli, la mano ferma, l’occhio appuntato, faceva spuntare sul legno purrito quelle sue creature fantastiche. Ferma la pesca per il mare furioso, i pescatori dovevano allora piegarsi a un altro lavoro. Andare, in novembre, dicembre, dentro i frantoi. Li vedevi salire in paese, passar per le strade un po' mesti, avviliti, entrare nei magazzini dei padroni di terre per fare i facchini. Col sacco unto a cappuccio, portavano a spalla pesi enormi d’olive, sansa, otri grondanti. Con la buona stagione, riprendeva la pesca. Salpavano al vespero, con cianciòli, lampare, andavano a forza di remi a ottanta, novanta passi per la pesca di sarde e anciove. Le lampare, la notte, una appresso all’altra all’orizzonte, sembravano la luminaria per la festa del Santo. Ed erano sferzate, a tempo, dalla fascia lucente del faro di Capo d'Orlando. Gli altri due fari remoti, di Cefalù e Vulcano, quand’era sereno, sciabolavano lievi incrociandosi in mare. Ma contro la pesca v’era anche la luna, quando crescendo giungeva al suo pieno, e tonda, sfacciata, schiariva ogni tenebra, suscitava dai fondali ogni branco, assommava per la vastità del mare i pesci allocchiti.
E pure nella stagione capitava il fortunale. Nuvoloni s’ammassavano, gravavano sull’acqua, vorticavano a tromba, lampi e tuoni segnavano il fondo. Il mare improvviso gonfiava, mugghiava, sulle creste spingeva, nei valloni affossava gozzi e caicchi, l’onda violenta schiumava contro le pietre della spiaggia. Suonavano allora le campane, del castello, della Matrice, e tutti accorrevano sulla spiaggia, con corde e torce, in aiuto dei pescatori in pericolo. Amavo quella spiaggia del mio paese, amavo la vita di mare dei pescatori, pur non essendo della marina, ma d’altro ambiente e quartiere, di quello centrale di proprietari, bottegai, artigiani. La fascia più alta, delle ultime balze dei co11i, era invece di contadini, carrettieri, ortolani.
Tre quartieri, tre mondi separati tra loro, che s’univano soltanto in occasioni di feste o calamità, incendio o naufragio, che tutti smuoveva.
Le vacanze, les grandes vacances, secondo le professeur, che indicavano un termine, mentre in me le immaginavo e volevo d’un tempo infinito, le passavo giorno e sera su quella spiaggia pietrosa coi figli dei padroni di barche, pescatori da sempre, generazione dopo l’altra, ciascuno con storie, imprese, leggende, nomi e soprannomi precisi: Corso, Contallànno, Scaglione... Più tempo in acqua passavo con loro che sopra la terra, con loro sul gozzo a remare, andare da una parte o dall’altra, verso Acquedolci, Caronia, Torre del Lauro o verso Torrenova? Capo D’Orlando, Gioiosa... Andavamo il giorno, con ami ed esche, a ricciòle, àiole, pettini, e la sera, con lontro e acetilene, a tòtani e calamari. Tornavamo inzuppati per gli spruzzi rabbiosi di quelle bestie appena fuori dall’acqua.
Su quella spiaggia era la mia libera vita, più bella, ma in essa era anche il ricordo recente del tempo più nero: su quel mare, quella spiaggia era passata la guerra. Dal mare venivano i lampi, i fischi
allarmanti, gli scoppi che fracassarono case. Nel mare mitragliarono la barca dei Corso, ferirono uomini. Fu allora che la gente si mise a sfollare, sparpagliarsi per le campagne, a Vallebruca, Fiorita. Sulla spiaggia il mare rigettò un morto annegato, un tedesco, corroso alla testa, alle mani, il gonfiore del corpo che premeva contro il panno, i bottoni della divisa, le nere polacche. Gli pendeva dal collo un cordone a cui era appeso un fischietto. Lo coprirono i militi con un pezzo di vela. Dal mare sbarcarono gli anfibi con sopra gli americani, bianchi, neri, donne con biondi capelli che scendevano da sotto l’elmetto.
Poi la vita mi staccò da quella spiaggia, dai compagni, dalle avventure. Rientrai nel centro e, acculturato, fui preso dal desiderio di conoscere il mondo che mi stava alle spalle, la terra che si stendeva al di là della barriera dei Nèbrodi. Immaginai quella terra come una infinita teorie di rovine, di antiche città, di teatri, di templi al sole splendenti o bagnati dal chiarore lunare, immersi in immensi silenzi.
Silenzio come quello di Tindari, su alla chiesetta della nera Madonna sul ciglio roccioso del colle che netto precipita in mare. E nella greca città che alta domina il golfo, sta di fronte a Salina, Vulcano, Lipari, celesti e trasparenti sull’orizzonte. Nella cavea del teatro, risuonavano i miei passi e, al Ginnasio, le statue acefale, togate là sotto l’arco, erano fantasmi che mi venivano incontro da un tempo remoto.
Silenzio, solitudine, estraneamento ancora giù in basso nella landa renosa, fra le dune e i laghi marini d’ogni verde e azzurro, nel folto di canne da cui svolavano gabbiani e garzette. Sull’aperta spiaggia erano legni stinti, calcinati, relitti di barche che un qualche fortunale aveva travolto, sospinto su quelle sabbie.
Brulichìo e clamore incontrai invece a oriente, a Naxos, Taormina, Siracusa, Gela, e pure nel cuore dell’isola, a Enna e Casale di Piazza Armerina. Il deserto, il silenzio era all’interno tra una stazione e un’altra, i soli rumori, in quella nudità infinita, in quel giallo svampante, lo sferragliare, sbuffare e fischiare del treno.
Un trenino mi portò ancora a Segesta, a Selinunte, a Marsala. In questo «porto di Allah», sapevo, avrei dovuto incontrare il Minosse prima d’esser proiettato, oltre il breve braccio di mare, su Mozia. Bussai alla porta e fui introdotto in un piccolo studio. Apparve poi l’uomo imponente, che rispose al salute con un cenno del capo. Si sedette dietro la scrivania e mi scrutò per un po’. Cominciò quindi, severo, a far le domande: chi ero, da dove venivo, che sapevo di Mozia, dei Fenici, quale interesse mi spingeva a visitare l’isola dello Stagnone. Risposi puntuale a ogni domanda. M’osservò ancora, e cominciò quindi a dire: così giovane in giro da solo, e non avevo con me neanche un baedeker, una macchina fotografica come tutti i turisti, neanche un cappello di paglia per il sole cocente... Scosse la testa, sorrise, prese quindi la penna, scrisse su un foglio. Il colonnello Lipari, amministratore della famiglia inglese Whitaker, proprietaria di Mozia, mi aveva finalmente dato il permesso di accedere all’isola. Mi portai sul molo dello Stagnone, fra i cumuli dei sale, mi misi a sventolare il fazzoletto. Si staccò dopo un po’ una barca dall’isola e puntò verso il molo. L’uomo ai remi mi aiutò a salire. Nel tragitto, si vedeva il fondo basso del mare, spiccavano tra l’ondeggiare delle poseidonie i bianchi lastroni di pietra dell’antica strada sommersa.
All’approdo, l’uomo mi disse che al tramonto avrebbe suonato una campana, che era quello il segnale della chiusura, dell’ultima barca per tornare all’Inferra, la salina di fronte. Andai lungo le mura di calcare coi capperi cascanti dagli interstizi, lambite dal mare, salii sulla scala della torre, oltre la postierla, giunsi alla Porta che introduce alla strada per il Santuario. Tutto intorno allo spiazzo dei basamenti, dei blocchi di pietra e del pietrame dell’area sacra era un verde tappeto di giummare sovrastato dai pini di Aleppo, e da quel verde s’alzavano stormi di gazze e calandre. Per la fornace dei vasai giunsi poi alla Necropoli e al Tofet. Affioravano qui le bocche dei vasi imprigionati nel terreno argilloso, urne contenenti le ossa dei fanciulli che quei Fenici sacrificavano alla gran madre Astarte o al gran padre Baal. Furono i Siracusani che, dopo la vittoria di Imera, imposero a quei «barbari» di cessare il rito crudele. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, così esultava: «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé est, je crois, celui que Gélon fit avec les Carthaginois. Il voulut qu’ils abolissent la costume d’immoler leurs enfants. Chose admirable!...». Ammirevole sì, quel trattato, ma l’illuminato barone francese dimenticava che quegli stessi Siracusani, dopo la vittoria, avevano crocifisso tutti i greci che avevano combattuto accanto ai Fenici-Cartaginesi. È crudeltà, massacro, orrore dunque la storia? O è sempre un assurdo contrasto? Quei Fenici che sacrificavano i loro figli agli dei erano quelli che avevano inventato il vetro e la porpora, e la scrittura segnica dei suoni, aleph, beth, daleth... l'alfabeto che poi usarono i greci e i latini, usiamo anche noi, quei Fenici che, con i loro commerci, per le vie del mare portarono in questo Mediterraneo occidentale nuove scoperte e nuove conoscenze.
A Porta Sud scoprii quindi la meraviglia di quel luogo, il Cothon, il porto artificiale di quegli avventurosi navigatori, di quei sagaci commercianti. Era una piscina rettangolare in cui dal mare, per un breve canale, affluiva l’acqua. Ai quattro lati, sui bordi, i blocchi squadrati, s’ergevano le mura di magazzini, darsene, s’aprivano scale. Non resistetti e mi tuffai in quell’acqua spessa di sale, nuotai e sguazzai in quel porto fenicio. Al sole poi, davanti a quel mare stagnante, mi sembrava di veder sopraggiungere, a frotte, le snelle barche dalle vele purpuree, il grande occhio apotropaico dipinto sulle alte prore. Occhi come quelli che dipingeva il Muto sulle barche dei pescatori del mio paese, della spiaggia, delle spiagge perdute della mia memoria.

“alias il manifesto”, 7 agosto 1999

La grande prateria. Una poesia di Pietro Ingrao

Così si traversa la grande prateria,
gli urli sono lontani, un'utile brezza
li decompone in vili scorati sussurri. Sulle schiume
lento s'innalza celeste
un depuratore. Desalina
le lacrime. Il treno,
non c'è tempo, fugge.

Duelli alla luce del sole. Intervista a Gregory Peck (Claudio Lazzaro)


Lui non sa cosa sia la paura d'invecchiare. A 73 anni, dritto come un fuso e con lo sguardo ironico da ragazzino sfrontato, Gregory Peck è così. Nella vita e ancora di più in Old Gringo, il film di Luis Puenzo (che arriverà nelle sale italiane nei prossimi giorni) in cui il suo fascino inossidabile colpisce al cuore persino Jane Fonda.
La storia (riveduta e correità) è quella di Ambros Bierce, giornalista e scrittore americano, tra l'altro autore del sulfureo Dizionario del Diavolo, che a settantanni suonati decide di andarsi a cercare la morte tra le fiamme della rivoluzione messicana. Una morte inventata e scritta da Carlos Fuentes in odio alla vecchiaia. Perché ormai Bierce è un leone d'inverno che dopo una vita spesa a scrivere e polemizzare preferisce chiudere la sua esistenza nell’eroica battaglia di un popolo in rivolta, piuttosto che arrendersi a una torpida, tranquilla vecchiaia.
Sempre divo Gregory Peck si è calato in pieno nella complessa personalità del vecchio, maledetto Ambros Bierce. Come ha fatto a sedurre Jane Fonda? Qual è il segreto di un attore? Come è possibile identificarsi così nel vecchio, maledetto, Bierce. Lui, con quel viso scolpito nella roccia, risponde: «Forse ci sono riuscito perché avrei voluto possedere quella sua vena sardonica, la capacità di bollare, coi suoi scritti, ogni tipo d'ipocrisia e di colpire la menzogna ovunque, nel mondo degli affari, in quello politico, sociale, religioso».

Però anche lei a Hollywood si è fatto fama di bastian contrario.
«Non credo di essere un misantropo iconoclasta come Ambros Bierce, e nemmeno di averlo eguagliato in spirito, acutezza e indipendenza. È vero, non ho scelto la strada più facile. Non ho mai firmato contratti a lungo termine, per non diventare proprietà degli Studios. Non ho mai avuto un addetto stampa, un vezzo che a Hollywood ti fa considerare eretico. E ho fatto dei film che tutti mi avevano consigliato di non fare».

Per esempio?
«Nel 1947 ho lavorato con Elia Kazan in Barriera invisibile, la storia di un giornalista che si finge ebreo per verificare i pregiudizi razziali. In quegli anni tirava già aria di maccartismo e di caccia alle streghe. Qualsiasi tipo di critica alla società americana poteva costarti cara: rischiavi di finire sotto processo per comunismo e attività antiamericane. Mi sentivo dire: "Se fai quel film la gente penserà che sei ebreo”. "Tanto meglio”, rispondevo».

Si è mai schierato politicamente?
«Mi considero un democratico di sinistra e il presidente Nixon mi ha insignito di un’onorificenza».

Quale?
«Mi ha messo nella lista segreta (che poi saltò fuori) dei suoi nemici. Erano gli anni in cui lui insisteva a bombardare il Nord Vietnam: non gli riusciva di cancellarlo dalla carta. Un gruppo di giovani dalle parti di Baltimora aveva bruciato in piazza le cartoline di precetto e per questo vennero portati in giudizio. Il processo fu appassionante e ispirò una pièce teatrale. Da quella io decisi di produrre un film: uscì nel 1972, titolo The Trial of the Catonsville Nine. Fatto il film, si presentò il problema di trovare i soldi per la distribuzione. Agli Studios lo visionavano per farmi una cortesia, ma poi dicevano: "Non è divertente”. Alla fine mi rivolsi a una coppia di giovani produttori che si erano arricchiti con due colpi magistrali: Il Padrino e Love Story. Dopo aver visto il film erano commossi: "Greg, sono contento che tu abbia fatto questo film, sono orgoglioso per te, queste cose dovevano essere dette, il pubblico aveva diritto a un film come questo e vorrei che fosse proiettato in tutti i cinema d’America”, ha esordito uno. E l’altro ha concluso: ”Sì, ma non coi soldi nostri”».

Il film trovò una distribuzione?
«Alla fine sì, ma la gente non è andata a vederlo. Cose che capitano».

Una bella delusione. Ha mai pensato alla politica come a una possibile alternativa al cinema?
«Mi hanno rimproverato, scherzosamente, di aver rifiutato la candidatura di governatore della California, che i democratici mi avevano offerto un paio di volte. Una carica che, per Reagan, ha costituito il trampolino di lancio verso la presidenza. Ma il mio impegno nelle battaglie civili non modifica il fatto che io, fondamentalmente, sia un attore. La vita del politico è troppo piena di compromessi e di obblighi mondani. È una prigione. Reagan era fatto per la politica. A me basta fare il presidente Abramo Lincoln, come in quel film di otto puntate per la televisione, il grigio e il blu, e alla fine ottenere buone critiche».

Come attore, lei ha dimostrato di condividere con lo scrittore Ambros Bierce il gusto della sfida. Qual è stata la prova più dura questa volta? Correre a cavallo alla sua età? Rendersi convincente come seduttore?
«Per quanto riguarda le scene con Jane Fonda il merito è tutto suo. È una donna così femminile e desiderabile... La cosa straordinaria è che lei, in questo caso, era anche il leader, il motore del film. Lei ha incoraggiato Fuentes a scrivere il libro, lei ha scelto Puenzo, un regista argentino che sì, aveva vinto l’Oscar con La storia ufficiale, ma che non si era mai misurato con una megaproduzione americana. Lei ancora ha trovato i soldi, ha fatto costruire questi set giganteschi. Ma poi eccola lì, sensibile, emozionata, ad ascoltare i suggerimenti di un giovane regista, senza mai farti pesare il suo ruolo. A una tale donna non c’è vulcano spento che possa resistere».

Allora qual è stata la cosa più difficile?
«La vera sfida è di far uscire liberamente da te stesso le emozioni di un uomo vecchio, che sente prossima la fine e l'affronta, piuttosto che fuggirla, ma continua a provare un perverso desiderio di vita. Una sfida complessa, perché Bierce non era semplicemente un uomo che ha pianificato il suicidio. Lui era un vitalista e la sua era una scommessa. Aveva già un piano pronto: nel caso fosse sopravvissuto alla rivoluzione di Pancho Villa, si sarebbe spinto fino a Rio de Janeiro e da lì si sarebbe imbarcato per l’Europa. Bierce era fatto così: affrontava la morte come fosse una corsa a ostacoli».

Ma anche lei, con quelle galoppate, a 73 anni. A proposito, è vero che da ragazzo ha avuto problemi alla spina dorsale?
«Cavalcare non mi crea nessun problema, a meno che non si tratti di cavalcare un pesce, come in Moby Dick. Sembrava che la maledizione della balena bianca fosse ricaduta su di me. Quando si girava l’ultima scena e io dovevo inabissarmi con lei, rischiavo tutte le volte d’annegare. Una volta s’alzò la tempesta, io ero sul dorso della balena, un isolotto di gomma sdrucciolevole, la nebbia era fitta, le onde come palazzi, i cavi si spezzarono. Stavo per fare la fine di Achab. E pensare che, quando me la offrirono, quella parte mi sembrò un colpo di fortuna!
«Al contrario fu proprio la disgrazia a cui accennava, l’incidente alla schiena, a portarmi fortuna. Successe durante una lezione di danza. L’istruttore per aiutarmi a raggiungere una certa posizione mi puntò un ginocchio sulla spina dorsale. Che fece crac. Io ancora scricchiolavo quando scoppiò la seconda guerra mondiale. Rifiutarono la mia domanda d’arruolamento proprio mentre i più grossi attori venivano richiamati sotto le armi. Fu allora che a Hollywood i produttori diventarono indulgenti nei miei confronti».

Che ricordo ha di quei leggendari anni del cinema americano?
«Non si aspetti una rievocazione dei buoni vecchi tempi. Preferisco parlare del presente e soprattutto del futuro».

Ma com’erano i mitici produttori di allora, per esempio David Seltznick?
«Era uno che durante le riprese della scena finale di Duello al sole, mentre io e Jennifer Jones strisciavamo sulle pietre, feriti a morte, per ricongiungerci nell’ultimo abbraccio, era capace di irrompere sulla scena con un secchio di sangue.
«Perché aveva deciso che non eravamo abbastanza insanguinati e così, di sua iniziativa, ci spennellava a dovere. Quella volta il regista, King Vidor, gli disse: ’’Va’ al diavolo, tu e il tuo film", poi montò sulla Rolls e disse all’autista di portarlo via da quel posto. Per finire il film Seltznick chiamò William Dieterle»,

E Darryl Zanuck?
«Nel 1950 ho fatto per lui Romantico avventuriero, che era un western molto realistico in cui alla fine il protagonista, un famoso pistolero, moriva sparato alle spalle. Il regista era Henry King e Zanuck si fidava di lui, ma quando vide il film in saletta di proiezione, dopo la scena in cui un ragazzo, per coprirsi di gloria, mi spara nella schiena, scoppiò un dramma. Zanuck cominciò a gridare in direzione del ragazzo sullo schermo: ’’Prendi quel figlio di puttana e fagli sputare sangue”. Poi tutto paonazzo, rivolto al regista: ’’Henry, devi fare qualcosa, non puoi farlo soltanto arrestare in questo modo! Così nel finale Henry King si lasciò convincere a introdurre un calcione, che lo sceriffo assesta alla faccia del baby killer. E nel film vediamo il ragazzo che, alla lettera, sputa sangue».

Parliamo ancora di un altro tycoon di quegli anni: Louis B. Mayer.
«Lui era l’imperatore della Metro. Quando entrai nel suo ufficio aveva già deciso di mettermi sotto contratto. Mi puntò un grosso dito: ’’Guardami negli occhi, figliolo". Pensai che erano occhi buoni. "Davanti a te c’è un padre”, continuò. “Il padre di Clark Gable, di Greta Garbo, di Robert Taylor”. Poi mi abbracciò mettendomi in mano un contratto: "Firmalo e sarai il mio figlio prediletto!”. Era un contratto per sette anni. Io gli dissi: "Posso firmare per un film, ma non voglio impegnarmi per troppo tempo”. Lui mi guardò come se lo avessi ferito a tradimento: ’’Figlio, non distruggere la tua vita, non calpestare il futuro”. Si aggrappò al mio collo piangendo lacrime vere. Io gli davo delle pacchette sulle spalle: “Mi spiace, signor Mayer, ho promesso a me stesso che non avrei... ”. “Sii uno dei miei figli”, insisteva. Quando si accorse che non mollavo, tornò alla scrivania asciugandosi le gote e, come se niente fosse, riprese una telefonata d affari lasciata in sospeso».

Altri tempi. E i produttori di oggi?
«Gli Studios oggi sono gestiti da gente che non ha per il cinema una vera passione. Oggi si produce cinema nello stesso modo in cui si potrebbero produrre automobili. Fortunatamente ci sono ancora dei produttori indipendenti, che considerano il film come la realizzazione personale di un sogno. È da loro che ci possiamo ancora aspettare qualche novità».

Lei ha detto che preferisce parlare del presente. C'è qualcosa che oggi la preoccupa?
«Mi sento personalmente colpito da ciò che sta succedendo ai giovani cinesi. Meno di due anni fa mi trovavo in Cina per conto del governo americano, in missione culturale. Quei poveri ragazzi vennero sottoposti alla visione di cinque miei film, che non erano mai stati visti in Cina. Erano rappresentati un po’ tutti i generi. C’erano Le avventure del Capitano Hornblower e I cannoni di Navarone, Il buio oltre la siepe, Vacanze romane e Gunfighter (Romantico avventuriero). I film dovevano servire come pretesto per confrontare le nostre esperienze, la nostra visione del mondo. Gli incontri si svolgevano all’Istituto di politica ed economia, la prestigiosa scuola da cui escono i futuri leader cinesi. Quei ragazzi riuscirono a trasmettermi l’impressione che, a dispetto della sua civiltà antica, la Cina sia un paese giovanissimo. Parlavano tutti un inglese perfetto. Era stupefacente: si trattava di giovani intelligentissimi, spiritosi, comici nelle loro osservazioni. E si sentiva che erano sulla strada di un progresso accelerato. Si avvertiva un forte bisogno di cambiamenti».

Quale dei suoi film è piaciuto di più agli studenti cinesi?
Stranamente Il buio oltre la siepe, un film che ha avuto più successo in America che altrove, forse perché racconta dei problemi del razzismo nel Sud degli Stati Uniti, negli anni ’30. Loro parevano molto interessati. E poi Vacanze romane. Questa storia d’amore impossibile, tra una principessa e un semplice giornalista, colpiva la loro fantasia».

Quando interpretò Vacanze romane lei era ancora sposato con la sua prima moglie?
«Sì. Perché me lo chiede?».

Perché tra lei e Audrey Hepburn in quel film si percepisce una straordinaria alchimia.
«Sì. Ma lei non ha avuto niente a che fare con la fine del mio matrimonio, che era già in difficoltà da qualche anno. Il divorzio avvenne poco dopo il film. Se è quello che vuol sapere: sì, naturalmente mi sono un po’ innamorato di Audrey facendo quel film».

Fu contraccambiato?
«Di queste cose non parlo. Posso dire che quando si recita una storia d’amore può capitare di confondere realtà e finzione. Audrey era una persona talmente notevole che era difficile non cadere in confusione. Ma poi, come nel film, la principessa ha un suo cammino già segnato e il giornalista deve andare per la sua strada».

Qualche anno dopo, però, un «principe» americano venne intervistato da una bella giornalista francese. I due si innamorarono e si sposarono. E i rotocalchi narrano che da allora vivono felici e contenti.
«Non mi vedo nei panni del principe azzurro. Ma certamente mia moglie Veronique era una giornalista molto bella e intelligente: faceva delle domande che scioglievano qualcosa dentro di me. Alla fine dell’intervista mi sentivo molto più leggero».

È vero che i due figli di questo secondo matrimonio si vanno facendo strada come attori?
«Sì. Cecilia e Anthony hanno fatto già il loro primo film da protagonisti e posso dire senza imbarazzo che sono orgoglioso di loro. Sono veramente bravi, riempiono lo schermo».

Lei li ha consigliati?
«Sì. Li ho pregati di non fare questo mestiere, perché certamente avrebbero sperimentato rifiuti, delusioni e anche disprezzo. Ma naturalmente poi ho rispettato la loro decisione. Di consigli tecnici non hanno bisogno, perché frequentano i miei set da quando sono bambini e così hanno assimilato il mestiere».

Della sua infanzia cosa ricorda?
«Mi hanno allevato i nonni, in una piccola città californiana, La Jolla. Credo che già allora i due punti cardinali della mia vita fossero segnati: la magia del palcoscenico e il bisogno di ribellarmi alle ingiustizie. Ero un bambino cattolico e servivo messa. Dovevo suonare il campanello sull’altare, con quelle pause, quel senso d’attesa, e dire le battute in latino, coi tempi giusti, e far oscillare l’incensiere, controllando le volute di fumo. Insomma, il gusto della rappresentazione».

E l’ingiustizia?
«Una grande croce fasciata di stracci e imbevuta di grasso, che brucia davanti alla casa di un negro, circondata dagli uomini incappucciati, che le fiamme fanno sembrare diavoli. È una scena che non ho visto personalmente, ma che tutti i bambini raccontavano. Allora La Jolla aveva sì e no duemila abitanti. Uno dei pochi ricchi del paese decise di assumere un cameriere di colore, ma quando il poveretto trovò casa lo fecero scappare a gambe levate, con la croce di fuoco, l’anello degli incappucciati e i sassi che gli sfondavano le finestre. Per me fu uno shock. Ricordo ancora l’uomo che si diceva fosse il capo del Ku Klux Klan locale. Era il meccanico del garage. Si chiamava Zimmerman, era alto, la faccia cadaverica, ma il resto del corpo, a furia di ingrassare macchine, si era tutto imbevuto di nero. La sua pelle era scura e oleosa. Lo guardavamo attraverso la strada, noi bambini, e avevamo una certa paura. L’ho sempre ricordato come un tipo giusto per la parte. Una buona scelta di cast».

La voce di Gregory Peck, profonda, da Abramo Lincoln, si è smarrita due volte durante l’intervista. Sopraffatta dalla commozione rievocando i tempi leggeri di Audrey Hepburn. Rotta dal peso di cupi ricordi, quando ha parlato del suo divorzio. Del suicidio di Jonathan, il suo primo figlio, non abbiamo osato chiedere. Ma la risposta era già sulla sua faccia.
Basterebbero due parole per definire Gregory Peck. La prima: integrità. Agli inizi di carriera, quando l’addetto stampa di un suo film, citando Greta Rice, la prima moglie, le inventò una professione chic, lui rimandò indietro il testo della biografia: «Mia moglie fa la parrucchiera, ed è anche bravissima. Non vedo perché dovremmo nasconderlo». La seconda parola che potrebbe definire l’uomo, viene in mente ascoltando quando racconta di uno dei suoi ultimi film, I ragazzi venuti dal Brasile: «Era un mio vecchio sogno, una delle mie più grandi aspirazioni, lavorare con Laurence Olivier ed ero altrettanto emozionato nel girare le scene con James Mason, un attore che ho sempre ammirato». Umiltà, questa è la parola giusta. Lasciandoci, prima di salutarlo, un’ultima domanda: C'è qualcosa di cui ha paura?
La voce si fa più profonda: «No. Ho avuto tante paure nella mia vita: problemi interiori, cadute, mi sono sempre chiesto se valessi qualcosa. La vita non è certamente un picnic. Ma per me non temo più nulla. Per i miei cari sì». E la paura di tornare nell’ombra? Risponde: «Non vivo per il successo. Non ho mai avuto bisogno di tutta questa gente che ti valuta e ti cerca a seconda delle tue quotazioni. Mi basta sapere che faccio del mio meglio». Mi guarda un po’ stanco: «Oggi non so pensare a qualcosa che mi faccia paura. Sono al punto in cui si accetta dalla vita quello che può succedere domani o tra cinque anni. Tante volte ho detto no. Se ho fatto un film adesso è perché ho amato la storia». La voce di Gregory Peck adesso adesso è cavernosa: «Se un altro Old Gringo verrà, io lo accoglierò come un amico». 

L'EUROPEO, 3 NOVEMBRE 1989