«Paese Sera» apre la
cronaca di Roma del primo giugno ’62 titolando Proditoria e
rabbiosa imboscata dei missini che lanciano dalle finestre sedie
sugli studenti all’uscita del cinema ‘Quattro Fontane’. Dei
sei feriti e delle decine di contusi documentano alcuni scatti
fotografici, mentre occhiello e sommario sintetizzano i fatti seguiti
alla proiezione del film All’armi siam fascisti, organizzata
dal giornale nel cinema che ha sede al pianoterra dello stabile dove
si trova la sezione del Msi.
Graffiti su un muro
L’imboscata non ha
avuto nulla di spontaneo e peraltro quel film, costruito su materiali
di archivio, prodotto l’anno prima da una sigla vicina al Psi, la
Universale Film, firmato da tre cineasti della sinistra socialista,
Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, sembra destinato a
una vita impossibile: non più che tollerato dai dirigenti socialisti
(e si dice che persino Pietro Nenni all’anteprima abbia chiesto la
modifica dell’immagine finale, un perentorio «No al fascismo»
nudamente graffito su un muro), malvisto dai vertici del Pci per
l’antistalinismo che lo innerva dall’inizio alla fine, sospettato
di estremismo e addirittura di trotzkismo, il film è stato ammesso
di straforo al Festival di Venezia ’61, circola ufficiosamente nei
cineclub e viene ritirato nel 1964, quando il clima politico, nel
corso della cosiddetta «congiuntura», vede ormai raffreddarsi gli
entusiasmi suscitati dal primo governo di centrosinistra. Non verrà
mai trasmesso dalla Rai e neanche dalle reti commerciali, se si
eccettua un tardivo passaggio, nel 1994, a Telemontecarlo per
iniziativa di Sandro Curzi. Perciò è un vero avvenimento che la
Raro Video-Curti Editori ne proponga oggi il dvd (euro 16.99,
presentazione di Sergio Staino, introduzione di Marco Bertozzi con
estratti da un documentario di Davide Barletti e Lorenzo Conte sul
cinema di Cecilia Mangini) unitamente a una brochure, a cura di Bruno
Di Marino, che raccoglie materiali e recensioni d’epoca dove
spiccano i giudizi positivi di Alberto Moravia, Ada Gobetti, Ugo
Casiraghi, Carlo Di Carlo nonché una nota di Pier Paolo Pasolini
che, su «Vie Nuove» del 30 settembre ’61, parla di un «film
stupendo, una delle più emozionanti opere cinematografiche che abbia
mai visto».
Violenze
antioperaie
Ma che cos’è All’armi
siam fascisti!, quali le ragioni per cui è stato maledetto a
destra e, nella sostanza, rimosso a sinistra? Per intenderlo vanno
almeno ricordati due fatti: intanto l’avere accolto in senso
militante la lezione del luglio ’60 e cioè il neofascismo
risorgente con gli scontri a Porta S. Paolo, a Piazza De Ferrari a
Genova, i compagni freddati sul selciato a Reggio Emilia, i sinistri
rumori di sciabole del governo Tambroni; e poi il rifiuto della
vulgata antifascista nel senso del patriottismo nazional-popolare con
la certezza, viceversa, che il regime di Benito Mussolini sia stato
propriamente l’organizzazione armata della violenza capitalistica,
antipopolare e, in primis, antioperaia.
È, questo, un punto di
vista di classe che mette in allerta l’Istituto Luce, il quale
rifiuta di concedere i materiali di repertorio, tanto che gli autori
sono indotti ad attingere a fondi esteri, archivi ufficiosi e
privati, tra cui quelli di Joris Ivens, della Cinémathèque
parigina, della resistenza antifranchista in esilio e della
Repubblica jugoslava. Il periodizzamento è scandito nel lungo
periodo, tra le aggressioni coloniali in Libia (con la drammatica
apertura sui libici impiccati dagli italiani «brava gente») e il
culmine della guerra fredda che da noi coincide con i trionfalismi di
«Italia ’61», tra i rigurgiti neofascisti e l’apertura a
sinistra della DC di Aldo Moro.
Dominio di classe
L’ottica mira verso il
basso, al vissuto delle masse e, insieme, alle strategie che il
regime allestisce per garantirsi il consenso; Mussolini non vi è
onnipresente (a parte talune sequenze celeberrime come quella in cui
lancia, a torso nudo, la «battaglia del grano») e anzi il Duce
condivide la scena con i dittatori chiamati in Europa a un identico
dominio di classe sia pure in contesti ambientali e con modalità
operative anche molto differenti, cioè Hitler, Franco, i militari
mitteleuropei, mentre incombono ad ogni passaggio di fase gli
effettivi mandatari, le élites economico-finanziarie, gli
industriali, gli agrari, un Vaticano sempre benedicente; infine, la
prospettiva antagonista nel film non è mai proclamata ma essa viene
colta, come deducendola ogni volta dal proprio sottotraccia, per
anticipi e violente rotture (l’Ottobre rosso, la Repubblica
spagnola, il Fronte Popolare, la Resistenza italiana, le rivoluzioni
anticolonialiste, il ritorno delle lotte in Italia) secondo una linea
espositiva che punta alla diffrazione del punto di vista e alla
consapevole parzialità dello sguardo, mai alla conclusione irenica o
alla conciliazione dialettica.
Minima è anche la quota
propagandistica, nonostante fra i modelli rientrino alcuni classici
della retorica antifascista quali La battaglia per l’Ucraina
di Dovzhenko e Perché combattiamo di Frank Capra.
Solitari travagli
La sintassi del film,
laddove è più evidente la mano di una grande documentarista come
Cecilia Mangini, procede per blocchi la cui figura dominante è
l’antitesi e pertanto la netta distinzione di interessi/ideali/
prospettive fra «loro» (gli eminenti, i detentori del potere
economico politico, l’alto clero della cultura) e «noi», gli
assoggettati al dominio di classe, gli individui ammutoliti,
deprivati di potere e destino.
Se la musica di Egisto
Macchi, nelle sue volute di spessore epico come negli stacchi
antilirici e didascalici, è memore dei rivoluzionari Kurt Weill e
Hanns Eisler, il commento è affidato, nientemeno, a Franco Fortini.
Ci informa il suo biografo Luca Lenzini (nella accurata cronologia
che precede, introdotti da Rossana Rossanda, i Saggi ed epigrammi,
Mondadori «I Meridiani» 2003) che costui si è congedato dal Psi
già nel 1957, dopo anni di isolamento e di aspre polemiche,
all’uscita di uno dei suoi libri maggiori, la raccolta saggistica
Dieci inverni. Contributi ad un discorso socialista. Nei
mesi di un travaglio personale e ideologico cui sopravvive solamente
il rapporto con alcuni outsider del partito (su tutti Raniero
Panzieri e Gianni Bosio: e qui si veda nel dettaglio, ricchissimo di
riferimenti e apporti documentari, il volume di Mariamargherita
Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e
organizzazione della cultura 1953-1960, appena uscito da Ediesse)
Fortini sceglie lo straniamento e il magistero di Bertolt Brecht,
perciò le sue parole sono dette frontalmente, per catene anaforiche
e legami metonimici esonerati dalle oscurità e ambiguità del Grande
Stile novecentesco.
Se infatti Brecht aveva
scritto che «i massacratori escono dalle biblioteche», così
Fortini, che lo ha tradotto, si pronuncia davanti alle maschere
immonde della dittatura: «I veri maestri/ non lasciano tracce, non
si esibiscono ai balconi/ e per questo ancora oggi/ non si possono
fare senza rischio i loro nomi./ I maestri di Mussolini e di Hitler,/
di Farinacci e di Eichmann/ sono negli uffici studi delle banche,/
nelle poltrone dei consigli di amministrazione;/ sono sulle cattedre
universitarie,/ nella Accademia Berlinese delle Scienze/ o nella
Accademia d’Italia».
Scegliere, decidere
Affidandone la partitura
scritta a una collana diretta dal suo compagno Gianni Bosio (Tre
testi per film, Edizioni Avanti! 1963), Fortini lamenterà alcune
insufficienze dell’opera e tuttavia ribadirà il fatto che la
storia è innanzitutto storia della lotta di classe e che il nemico
principale, ora come allora, resta l’ordinamento capitalistico
della società.
Nella sequenza finale di
All’armi siam fascisti!, mentre scorrono le immagini dei
morti nel luglio del ‘60, il poeta passa direttamente al «voi» e
chiede dunque a tutti noi: «La vostra coscienza che cosa ha da
dire?// Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il vostro/ destino è
solo vostro. Rispondete».
“il manifesto”, 7
dicembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento