Dall'alto la capponada con la galletta, la coponada di melenzane e le capuneit fritte da intingere nella fonduta |
Vincenzo
Genovese che di recente (29 febbraio 2016) si è occupato di
capponada
in un buon sito gastronomico “La Cucina Italiana” (http://www.lacucinaitaliana.it) si spinge oltre. Così, infatti, racconta il piatto freddo
rivierasco:
Su questo piatto tipico della costa genovese si fa davvero fatica a mettersi d’accordo, sia per quanto riguarda l’etimologia del nome, che per il luogo esatto di provenienza e per gli ingredienti della ricetta originale. Una cosa però è certa: questa insalata di mare sui generis non c’entra nulla con la caponata di melanzane siciliana, un piatto completamente diverso che arriva dall’altra parte dell’Italia.
Basta guardare la lista degli ingredienti per capire perché la capponadda fosse il piatto perfetto per marinai, pescatori e rematori delle galere, impegnati in lunghe traversate durante i secoli di dominio del tirreno da parte della Repubblica di Genova. Veloce da preparare, non richiede cottura e valorizza gli alimenti disponibili in mare e nell’entroterra della Liguria. L’ingrediente di base sono proprio le “gallette del marinaio”, un pane secco e schiacciato che ben si conservava nelle imbarcazioni, imbevute di acqua e aceto.
Anche il condimento è povero e facilmente reperibile: aglio, olio, acciughe, olive e capperi (il pomodori e le uova sode sono aggiunte più moderne, spesso i marinai se le sognavano…). Unica concessione al palato era l’uso del “mosciame”, una preparazione di filetto di pesce essiccato: oggi si usa la ventresca di tonno, in passato la carne dei delfini che si impigliavano nelle reti dei pescatori. Pronunciato mösciame in genovese, era apprezzato al punto da far pensare che il nome derivi dal termine dialettale muscio (persona dai gusti difficili), anche se la spiegazione più plausibile porta al vocabolo arabo mossammed (cosa dura e secca), diventato mojama in spagnolo. [...]
Sull’origine del nome della capponadda ci sono versioni contrastanti. C’è chi sostiene che il termine derivi dal latino caupona (taverna), a rimarcare la provenienza popolare del piatto, e chi suggerisce un’ipotesi più sofisticata: “capón de galea” era il nome ironico che si dava al pane duro dei marinai, richiamando la prelibata carne del cappone, appannaggio solo delle mense dei nobili genovesi. La carta d’identità della capponadda è incerta anche alla voce “luogo di nascita”: vari paesi della riviera di Levante se ne contendono la cittadinanza, neanche si trattasse di Cristoforo Colombo. È possibile che la sua prima apparizione sia avvenuta sui leudi, le imbarcazioni a vela con le quali i pescatori di Camogli andavano a pescare le acciughe in mare aperto. Proprio a San Rocco di Camogli (come a Chiavari del resto) hanno avuto l’idea di allestire una sagra della capponadda.
Nonostante il nome, la capponadda non c’entra niente con la caponata di melanzane tipica della Sicilia. Di dubbia legittimità anche la parentela con il cappon magro, piatto tradizionale ligure a base di pesce e verdure con cui condivide l’origine del nome ma, a quanto pare, non della ricetta. Piuttosto, è ravvisabile un legame con la panzanella toscana, un classico “piatto di riciclo”, ideato per non buttare il pane raffermo”.
Vincenzo Genovese lo ripete due volte: nessun rapporto con caponate e
caponatine siciliane, cosa che anch'io ho sempre pensato.
Ma è davvero così? Due piccole scoperte mi hanno inoculato il
dubbio.
La
prima: in un servizio giornalistico sulla Valsesia trovo notizia
delle capuneit o
caponeit,
preparazioni che non sembrano avere rapporti né con la specialità
siciliana né con quella ligure, ma che hanno quasi lo stesso nome.
Si tratta di involtini di foglie di verza o di bieta a foglie larghe
o di romice, che ricordano quelli preparati con le foglie di vite in
Grecia o in Turchia. Dentro le foglie di verdura che poi richiudono
quelli della Valsesia mettono impasti di carne e salame macinati,
formaggio e aromi; poi le friggono per servirle caldissime con o
senza salse.
La
seconda è la traduzione-definizione di capunata
sul
vocabolario siciliano-italiano del Traina, che risale agli anni 70
dell'Ottocento: “Manicaretto ov'entra del pesce, petronciani (sic!)
o carciofi ed altri condimenti, e si mangia per lo più freddo”. Ho
trovato in rete l'ipotesi che la melanzana (o petronciana) abbia
sostituito l'originario pesce, il pesce capuni, ma
la definizione sottolinea una compresenza di pesce e
verdura più che una alternatività.
La distanza tra l'originaria capunata
sicula
(senza
le evoluzioni degli ultimi 150 anni) e la caponnadda
ligure
sembra così ridursi notevolmente. Il pesce (e probabilmente l'aceto) c'è
nell'una e nell'altra preparazione, che sono entrambe piatti freddi, di
facile somministrazione. Resta, a complicare le cose, la Valsesia,
ove il piatto è caldo e gli ingredienti sono molto diversi, ma è
possibile che gli involtini si preparassero (e si preparino) prima, per friggerli
rapidamente al momento del consumo.
L'unica spiegazione
congetturabile e plausibile del nome comune la intravedo nella
caupona, peraltro
citata
da Genovese, la taverna dove si mangiava e si beveva e dove i caupones,
gli osti della malora (la parola contiene un non so che di
spregiativo: caupones
sapientiae
scrive Tertulliano per indicare coloro che vendono sapere dopo averlo
adulterato) maneggiavano il cibo per spingere al consumo del vino. I
vocabolari latini attestano anche un verbo, cauponari,
usato
metaforicamente per indicare ogni tipo di manipolazione, non solo quella che si fa in cucina. Non sarà
che termini come capunata,
capponada,
caponeit
in origine indicassero tutti un generico “intruglio da taverna”?
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