1.9.17

Memorie d'autore: Pietro Ingrao. «Ai littoriali incontrai l'antifascismo» (Paolo Di Stefano)

La luna. È curioso che in questa serata romana piovosa e fredda si parta dalla luna e si arrivi alla luna. Era quella che il bambino testardo Pietro pretese in regalo dai suoi genitori il giorno in cui gli chiesero di fare la pipì nel vasino: «In cambio voglio la luna!». Qui nel salone di casa Ingrao, le finestre sono abbassate e si sente l'acqua scrosciare. E la luna chissà dove si nasconde. Ma dalle parole scolpite di Pietro Ingrao, del poeta prima che del politico comunista che ha attraversato decenni di storia nazionale, la sfera lontana sembra avvicinarsi e accendersi luminosa, quando ricordano il suo paese, Lenola, situato tra i Monti Aurunci e la piana di Fondi: «Provo una sensazione fisica molto precisa, pensando a certe serate dell'infanzia. Il mio era un paese contadino, con ceppi patronali e gruppi di artigianato. Fu mio nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, a costruire quella casa a metà strada tra il paese e il colle. Lenola era allora sul confine tra il Regno dei Borbone e lo Stato pontificio. Dalla casa che saliva verso il colle del santuario c'erano balconi che si affacciavano sull'orizzonte e io provavo un'emozione molto forte quando riuscivo a cogliere, stavo per dire acciuffare, il sorgere della luna dietro le spalle montuose. Specie nelle notti d'estate, guardavo la corona di montagne, con cieli gremitissimi di stelle: quello spettacolo che inondava il cielo del suo chiarore è diventato per me il simbolo di un oltre che alludeva ad altri mondi».
Recita «L'infinito», Ingrao: «Nella poesia italiana Leopardi mi sembra l'evento più alto. Ho studiato Giurisprudenza per un ordine prestabilito della famiglia, poi Lettere, amavo soprattutto la letteratura, e in modo caldo, appassionato, la poesia. Le due pagine di invenzione artistica che apprezzo di più sono di Leopardi: "L'infinito" e "Le ricordanze". La cima sono quei versi di grande splendore e scuotimento».
Seduto sul suo divano chiaro, il viso immobile, rari sorrisi, aiutando la parola con il lento movimento di una mano, Ingrao non abbandona la ben nota espressione severa, come eternamente imbronciata, che fu del politico e poi del Presidente della Camera. Anche quando ricorda i suoi genitori pesando ogni parola: «Ho avuto relazioni familiari molto intense. Non solo con mio padre, anche di più con mia madre, che era una donna tenera e dolce, legata a quelle terre. La famiglia era anche il vincolo alla casa e al mio paese: mi piacevano molto quei piccoli aggregati, erano lì le mie passioni, i sentimenti, gli affetti, gli scatti di evasione legati al paesaggio, agli amici, alle ragazze».
Nel suo antifascismo, che arriva con la Guerra di Spagna, c'è l'educazione familiare, c'è la poesia, ci sono i coetanei del tempo e, paradossalmente, ci sono anche i Littoriali della cultura e dell'arte: «Partecipai con una poesia francamente brutta sulla bonifica delle Paludi pontine, scritta con sincerità apologetica, e Dio me lo perdoni. Sembrerà curiosa questa combinazione, ma ai Littoriali di Firenze incontrai l'antifascismo. Non racconto frottole! Gli amici con cui avrei fatto la cospirazione e la battaglia antifascista erano tutti lì. Fu una svolta. Mi precipitai al caffè delle Giubbe Rosse, dove conobbi, tra gli altri, Montale e Bertolucci». Antifascismo è anche l'incontro con il cinema e con il Centro sperimentale di cinematografia: «Conobbi Gianni Puccini, che studiava il cinema americano. Guardi quello lì...». Indica il burattino di Charlie Chaplin appeso a una parete: «Ci ha sconvolto e trascinato: l'immagine della macchina e di come l'operaio sta dentro la macchina l'ha rappresentata Chaplin quando si incastra negli ingranaggi tipici del capitalismo che dilaga nel mondo. La passione per il cinema si è mescolata a quella per la poesia. Con l'incontro tra generazioni a Firenze è cominciata la cospirazione».
Il 17 luglio 1936 è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. «Antonio Amendola cominciò a farmi ragionare sulla lotta antifascista, non tornai più al Centro sperimentale e il mio amore per il cinema restò in ombra. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni. Un dovere che condividemmo, oltre che con Amendola, con Bruno Sanguinetti, Paolo Bufalini, Aldo Natoli, Antonello Trombadori e altri. Quel 17 luglio fu il punto di rottura. Dissi no, non ci sto».
La nuova epoca si porta dietro anche una serie di errori che Ingrao oggi, all'alba dei suoi 96 anni, non esita a riconoscere. Il più grave, da direttore dell'Unità: «Nel '56 scrissi un editoriale contro la rivolta ungherese. Poco dopo capii che avevo sbagliato e che invece bisognava lavorare contro gli errori dei sovietici: tutti i miei rapporti con i sovietici hanno vissuto momenti di ambiguità». Il giorno dell'invasione di Budapest, il 4 novembre, letta la notizia, Ingrao non ha voglia di parlarne neanche con sua moglie Laura, cammina per ore da solo per le vie di Roma sotto un cielo nuvoloso, il suo girovagare finisce a casa di Togliatti, al quale dice il suo sgomento, sentendosi rispondere: «Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più».
La repressione della primavera di Praga ha un effetto diverso, ma è passato più di un decennio: «Ero a Lenola, mi avvisarono in serata, piantai la cena e andai al giornale: Longo era in Unione Sovietica e senza sentire i dirigenti uscimmo la mattina dopo con la nostra condanna». Altri errori: la radiazione dal Pci del gruppo del “manifesto” («Bisognava affrontare la differenza, guardarla in faccia») e la più recente adesione al partito di Bertinotti: «Non è stata una scelta felice, ritengo sia necessario costruire un soggetto collettivo e Rifondazione non ha trovato la via per questo approdo».
Ne ha vissuta di storia, Ingrao: «Tra un po' faccio i cento, speriamo, insomma...». Le corna che mostra con una mano sono inevitabili. Tanta storia e tanti suoi protagonisti. Mao: «A Mosca, lo stavamo ad ascoltare a bocca aperta, con entusiasmo, era il vincitore della rivoluzione asiatica». Togliatti: «Intervenne qualche volta nel lavoro al giornale, anche sbagliando. In tutta la vicenda Vittorini, mostrò di non capire». Berlinguer: «Ne ho un ricordo affettuoso, cordiale, però appartiene a un'altra generazione». I dissensi con Pajetta: «Era molto vivace, ma anche fazioso e cattivo. Quando nella segreteria prendevo la parola, entrava in agitazione, si alzava e ritornava per potere materialmente scocciarmi. Bisognava avere l'abilità di lasciarlo sfogare».
Ha inciso la dura obbedienza imposta dal partito nella vita privata? «Beh, sì, come no. C'era una specie di conformismo. Togliatti presto ha rotto con sua moglie e ha trovato un amore con Nilde Iotti, che era una giovinetta. Beh, questa cosa qui il partito l'ha digerita molto male, perché bisognava rispettare le regole del buon costume. Anche alla Iotti la vicenda costò molte noie». La vita sentimentale di Ingrao ebbe la sua svolta durante la guerra, quando conobbe Laura Lombardo Radice, figlia dell'antifascista Giuseppe e sorella di Lucio: «Durante la lotta clandestina, faceva la staffetta: ci serviva per evitare i segugi della polizia. Per tutelarci, spesso ci incontravamo ai concerti che si tenevano nella Basilica di Massenzio: un alibi buono per passarci i messaggi clandestini». Presto nasce qualcosa che va oltre la politica e il giovane Pietro si lascia prendere dallo slancio. Sorride: «Avevo degli aspetti un po' rozzi, lenolesi diciamo così, campagnoli, avevo un'idea un po' volgare, e quindi è successo che in uno di questi incontri a Massenzio, in modo un po' sgarbato e sbagliato ho tentato di darle un bacio, e mi son preso un ceffone solenne. Come a dire: siamo qui per lavorare, queste cose levatele dalla mente e non rompere le scatole».
Quella prima reazione non avrebbe impedito a Laura e a Pietro di avviare una lunga vita insieme, di sposarsi e di avere cinque figli. Laura morì nel 2003. «Abbiamo avuto una vita di grande comunicazione, anche se, senza dire bugie, io non è che fossi uno stinco di santo. Provai un dolore assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò». Forse la stessa la luminosità della luna che vedeva, molto tempo prima, dal balcone di casa.


Corriere della Sera, 21 marzo 2011

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