Una bella signora si
aggira inquieta per le sale di un museo newyorkese. Si ferma a lungo
davanti a un dipinto, si perde in pensieri di banalità domestiche,
si guarda intorno mentre i grandi occhi della donna del quadro la
scrutano impassibili. Quegli occhi sono anche i nostri, ma lo
capiremo dopo. Il tempo dell’azione, rallentatissimo, ci segnala
che sta accadendo qualcosa. Un uomo, distratto e assente, le si siede
accanto. Ci siamo. La signora si volta di scatto, e lo fissa
intensamente... Non dirò di più.
È una lunga sequenza,
destinata credo a rimanere famosa, di Vestito per uccidere.
Che è un film che noi, con lessico zoppicante e generico, definiamo
giallo, e che però gli inglesi chiamano thriller, per
distinguerlo a sua volta da detective story, che giustamente è
un’altra cosa. In entrambi i generi c’è un mistero, un segreto
da identificare — ma soprattutto si impone, magnetica, la presenza
di un corpo: immobile e privo di vita, esso produce tutto il senso
necessario alla finzione; macchina desiderante, esso riesce a
convogliare su di sé ogni sguardo, fuori e dentro l’architettura
del testo; al centro di fuoco prospettico geometricamente perfetto,
esso si offre, nell’abbandono della morte, come attivo e intenso
trait d’union fra le complicità incrociate di protagonisti
e lettori. Nel thriller, però, il fascinoso sentimento della paura
vince sul perfezionismo dell’inchiesta, il lettore/spettatore non
fa più suoi i procedimenti logici dell’investigatore né tenta di
anticiparli (anche perché spesso la soluzione dell’enigma ce l’ha
proprio sotto gli occhi, e viene rimossa), ma si fa invece possedere,
attimo dopo attimo, dai brividi di un dramma incomprensibile, dal
piacere di un segreto, è un po’ quello che accade allo spettatore
di questa sequenza: deposte le armi, rinuncia a capire, ma non a
tremare, e innesta un dispositivo di identificazione/proiezione
capace di neutralizzare ogni capacità decifratorie. Sotto i suoi
occhi, che a differenza di quelli del ritratto rimarranno impassibili
per molto poco, la cerimonia della paura ha già avuto inizio:
bastano due persone in una stanza, un’atmosfera inquieta, lo
sguardo di oggetti inanimati, ed è il terrore.
Sequenza importante,
quella che Brian de Palma ha con grande abilità ambientato in un
museo, luogo che permette una lunga citazione all’incontrario:
incrociando l’anonimato dei due personaggi con la riconoscibilità
immediata degli oggetti. Importante anche perché tutta giocata su
uno degli archetipi narrativi più efficaci e sperimentati, e quindi
anche più inconsciamente — e immediatamente — assorbiti dal
nostro immaginario. Quello cioè che da Poe in avanti ci parla dei
misteri e dei turbamenti di un luogo chiuso; in cui l’Inseguimento
— tema centrale dell’Avventura classica, alibi per un viaggio e
per un ritorno — si accorcia, si coagula per così dire, nella
dimensione del duello faccia a faccia. in un preliminare rituale
fatto di sguardi, di brevissimi percorsi, di tracce, di impronte.
La dimensione
dell’interieur è indissolubilmente legata, come Benjamin
aveva capito molto bene, alla nascita della storia poliziesca: ma è
anche spazio del desiderio, in cui la vittima e carnefice (perché
nel nostro immaginario solo tali possono essere all'interno di un
luogo chiuso), «finalmente soli» come due amanti clandestini,
chiudono fuori il mondo e celebrano il rito che li fa esistere:
l’assassinio. In altre parole, quelli che Alberto Abruzzese ha
definito gli «attrezzi del fantasticare» (La grande scimmia,
Napoleone, 1979), sembrano essere una sorta di congegno che, a nostra
totale insaputa ma certo con nostro grande piacere, ci guida a
leggere in maniera del tutto univoca le pagine di un libro o i
fotogrammi di un film, insomma di tutto ciò che definiamo una
storia. E allora, naturalmente, gli effetti si moltiplicano, le
trappole narrative scattano con grande precisione. Non si tratta qui
di falsi indizi, ma di veri e propri lapsus; - come quello di
prendere, ad esempio, per carnefice — o vittima — chi non lo è.
Succede...
Deformazioni del nostro
immaginario, programmato ormai in modo molto preciso.
Che a partire dalla
grande tradizione del racconto fantastico ottocentesco le forme
letterarie di massa si prestino meglio di altre a svelare i segreti
dell'immaginario occidentale, è un dato ormai acquisito. Che le
avanguardie abbiano coltivato fin dall’inizio liaisons pericolose
ma ineliminabili con la cultura di massa ce lo ha detto, a chiare
lettere Edgar Allan Poe.
Eppure fino a qualche
tempo fa indagare sui molteplici messaggi segreti nascosti fra le
pieghe dell’apparente leggibilità della Paura, dell’apparente
decifrabilità sociologica del giallo, dell’apparente logicità
della detection sembrava ai più operazione disdicevole e
superflua — ai meno, e più onestamente, lavoro affascinante ma
complesso e difficile, da intraprendere con cautela, intelligenza e
buone letture.
Come hanno dimostrato, ad
esempio. Franco Moretti e Guido Carboni, nei due bei saggi di
introduzione, rispettivamente, alla raccolta Polizieschi classici
e Polizieschi americani (Savelli, 1978). O come ha dimostrato
Renée Reggiani nel suo intelligente e documentatissimo Poliziesco
ai microscopio (Eri, 1981).
Questo oggi. Ma nel
passato, chi si è occupato di poliziesco, e come? Che cosa si è
riusciti a intravedere, o a progettare, in questa forma letteraria
che da più di cento anni si costruisce sulla fascinazione di un
corpo senza vita, di un omicidio senza volto? Ne La trama del
delitto, prima antologia italiana di scritti sul poliziesco
(Pratiche, 1980), Renzo Cremante e Loris Rambelli hanno rintracciato
alcuni momenti di questa genealogia sommersa. Risultato: il Grande
Luogo Maligno, come , lo definì Auden, è stato visitato —
seguendo diversi e spesso accidentati percorsi — da un gruppo
alquanto eterogeneo di personaggi: da Savinio a Edmund Wilson, da
Eisenstein a Mary McCarthy. Più, naturalmente, gli addetti ai
lavori. Due sole riflessioni. Gli scrittori di gialli sono come gli
artisti: guai a interrogarli sulla loro opera. Mentono, mentono
spudoratamente. E ancora: che strano contrasto fra la grazia elegante
con cui Auden parla di letteratura poliziesca e l’orrore quasi
isterico di Edmund Wilson. E quindi come deve essere stato difficile,
per un’intera generazione di intellettuali americani, fare i conti
con lo spettro minaccioso di una letteratura commerciale.
Eppure, come diceva
Chesterton e come Wilson sapeva bene, «Literature is a luxury,
fiction a necessity».
“il manifesto”, 26
aprile 1981
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