22.8.17

“Giallo”. La fascinazione del delitto (Benedetta Bini)

Una bella signora si aggira inquieta per le sale di un museo newyorkese. Si ferma a lungo davanti a un dipinto, si perde in pensieri di banalità domestiche, si guarda intorno mentre i grandi occhi della donna del quadro la scrutano impassibili. Quegli occhi sono anche i nostri, ma lo capiremo dopo. Il tempo dell’azione, rallentatissimo, ci segnala che sta accadendo qualcosa. Un uomo, distratto e assente, le si siede accanto. Ci siamo. La signora si volta di scatto, e lo fissa intensamente... Non dirò di più.
È una lunga sequenza, destinata credo a rimanere famosa, di Vestito per uccidere. Che è un film che noi, con lessico zoppicante e generico, definiamo giallo, e che però gli inglesi chiamano thriller, per distinguerlo a sua volta da detective story, che giustamente è un’altra cosa. In entrambi i generi c’è un mistero, un segreto da identificare — ma soprattutto si impone, magnetica, la presenza di un corpo: immobile e privo di vita, esso produce tutto il senso necessario alla finzione; macchina desiderante, esso riesce a convogliare su di sé ogni sguardo, fuori e dentro l’architettura del testo; al centro di fuoco prospettico geometricamente perfetto, esso si offre, nell’abbandono della morte, come attivo e intenso trait d’union fra le complicità incrociate di protagonisti e lettori. Nel thriller, però, il fascinoso sentimento della paura vince sul perfezionismo dell’inchiesta, il lettore/spettatore non fa più suoi i procedimenti logici dell’investigatore né tenta di anticiparli (anche perché spesso la soluzione dell’enigma ce l’ha proprio sotto gli occhi, e viene rimossa), ma si fa invece possedere, attimo dopo attimo, dai brividi di un dramma incomprensibile, dal piacere di un segreto, è un po’ quello che accade allo spettatore di questa sequenza: deposte le armi, rinuncia a capire, ma non a tremare, e innesta un dispositivo di identificazione/proiezione capace di neutralizzare ogni capacità decifratorie. Sotto i suoi occhi, che a differenza di quelli del ritratto rimarranno impassibili per molto poco, la cerimonia della paura ha già avuto inizio: bastano due persone in una stanza, un’atmosfera inquieta, lo sguardo di oggetti inanimati, ed è il terrore.
Sequenza importante, quella che Brian de Palma ha con grande abilità ambientato in un museo, luogo che permette una lunga citazione all’incontrario: incrociando l’anonimato dei due personaggi con la riconoscibilità immediata degli oggetti. Importante anche perché tutta giocata su uno degli archetipi narrativi più efficaci e sperimentati, e quindi anche più inconsciamente — e immediatamente — assorbiti dal nostro immaginario. Quello cioè che da Poe in avanti ci parla dei misteri e dei turbamenti di un luogo chiuso; in cui l’Inseguimento — tema centrale dell’Avventura classica, alibi per un viaggio e per un ritorno — si accorcia, si coagula per così dire, nella dimensione del duello faccia a faccia. in un preliminare rituale fatto di sguardi, di brevissimi percorsi, di tracce, di impronte.
La dimensione dell’interieur è indissolubilmente legata, come Benjamin aveva capito molto bene, alla nascita della storia poliziesca: ma è anche spazio del desiderio, in cui la vittima e carnefice (perché nel nostro immaginario solo tali possono essere all'interno di un luogo chiuso), «finalmente soli» come due amanti clandestini, chiudono fuori il mondo e celebrano il rito che li fa esistere: l’assassinio. In altre parole, quelli che Alberto Abruzzese ha definito gli «attrezzi del fantasticare» (La grande scimmia, Napoleone, 1979), sembrano essere una sorta di congegno che, a nostra totale insaputa ma certo con nostro grande piacere, ci guida a leggere in maniera del tutto univoca le pagine di un libro o i fotogrammi di un film, insomma di tutto ciò che definiamo una storia. E allora, naturalmente, gli effetti si moltiplicano, le trappole narrative scattano con grande precisione. Non si tratta qui di falsi indizi, ma di veri e propri lapsus; - come quello di prendere, ad esempio, per carnefice — o vittima — chi non lo è. Succede...
Deformazioni del nostro immaginario, programmato ormai in modo molto preciso.
Che a partire dalla grande tradizione del racconto fantastico ottocentesco le forme letterarie di massa si prestino meglio di altre a svelare i segreti dell'immaginario occidentale, è un dato ormai acquisito. Che le avanguardie abbiano coltivato fin dall’inizio liaisons pericolose ma ineliminabili con la cultura di massa ce lo ha detto, a chiare lettere Edgar Allan Poe.
Eppure fino a qualche tempo fa indagare sui molteplici messaggi segreti nascosti fra le pieghe dell’apparente leggibilità della Paura, dell’apparente decifrabilità sociologica del giallo, dell’apparente logicità della detection sembrava ai più operazione disdicevole e superflua — ai meno, e più onestamente, lavoro affascinante ma complesso e difficile, da intraprendere con cautela, intelligenza e buone letture.
Come hanno dimostrato, ad esempio. Franco Moretti e Guido Carboni, nei due bei saggi di introduzione, rispettivamente, alla raccolta Polizieschi classici e Polizieschi americani (Savelli, 1978). O come ha dimostrato Renée Reggiani nel suo intelligente e documentatissimo Poliziesco ai microscopio (Eri, 1981).
Questo oggi. Ma nel passato, chi si è occupato di poliziesco, e come? Che cosa si è riusciti a intravedere, o a progettare, in questa forma letteraria che da più di cento anni si costruisce sulla fascinazione di un corpo senza vita, di un omicidio senza volto? Ne La trama del delitto, prima antologia italiana di scritti sul poliziesco (Pratiche, 1980), Renzo Cremante e Loris Rambelli hanno rintracciato alcuni momenti di questa genealogia sommersa. Risultato: il Grande Luogo Maligno, come , lo definì Auden, è stato visitato — seguendo diversi e spesso accidentati percorsi — da un gruppo alquanto eterogeneo di personaggi: da Savinio a Edmund Wilson, da Eisenstein a Mary McCarthy. Più, naturalmente, gli addetti ai lavori. Due sole riflessioni. Gli scrittori di gialli sono come gli artisti: guai a interrogarli sulla loro opera. Mentono, mentono spudoratamente. E ancora: che strano contrasto fra la grazia elegante con cui Auden parla di letteratura poliziesca e l’orrore quasi isterico di Edmund Wilson. E quindi come deve essere stato difficile, per un’intera generazione di intellettuali americani, fare i conti con lo spettro minaccioso di una letteratura commerciale.
Eppure, come diceva Chesterton e come Wilson sapeva bene, «Literature is a luxury, fiction a necessity».


“il manifesto”, 26 aprile 1981

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