13.8.17

“Sono pazzi questi inglesi”. La folle epopea delle esplorazioni britanniche (Paolo Bertinetti)

Sir John Barrow ,Primo Baronetto (1764 – 1848), alto funzionario di Stato e scrittore inglese 
«Sono pazzi questi inglesi!», esclamava Asterix nell’album a fumetti ambientato nell’Inghilterra di venti secoli fa; pazzi e fieri dei loro curiosi costumi della loro insularità. La fierezza non è mai mancata ed è quella che almeno in parte sta alla base della vittoria della Brexit. In quanto alla pazzia, a volte c’è stata davvero, magari nascosta dovi meno te l’aspetti. Ad esempio nella sede dell’Ammiragliato, come racconta Fergus Fleming nel bel libro intitolato I ragazzi di Barrow (Adelphi).
Barrow, a partire dal 1804 fu il secondo Segretario dell’Ammiragliato. Nelle carte geografiche spiccavano ancora diverse zone bianche, a indicare le terre inesplorate; e l’impegno fondamentale di Barrow per i quarant’anni in cui restò in carica fu quello di promuovere le spedizioni che consentissero di colorarle. Il materiale umano non mancava. Alla fine delle guerre napoleoniche la Royal Navy aveva nei suoi ranghi più di 6000 ufficiali, molti dei quali desiderosi di fare carriera ad ogni costo. Anche a costo della vita: la loro e quella dei loro uomini, lanciandosi spesso in imprese in cui il coraggio e la passione per l’esplorazione non erano minori della follia. Quelle imprese furono presentate allora e tramandate poi con i toni dell’epopea, grazie a un’operazione retorica di ingannevole esaltazione della gloria britannica non dissimile da quella messa in atto dai fautori della Brexit. In realtà, spiega Fleming, le missioni promosse da Barrow, che era animato dalla convinzione assoluta che le sue fantasiose intuizioni fossero nel giusto, erano spesso insensate, sia per i mezzi, sia per i metodi usati.
La fine della spedizione
guidata da John Franklin
per la ricerca del passaggio a Nord-Ovest
in un dipinto di fine Ottocento
Barrow giurava sull’esistenza di un passaggio a Nord-Ovest, una rotta dall’Atlantico al Pacifico lungo le estreme coste settentrionali canadesi. Quella diventò la sua ossessione. Forse nessuno, dice Fleming, fece perdere così tanto denaro e vite umane per realizzare un’impresa così grottescamente inutile. Il capitano Parry, a cui il poeta Thomas Hood dedicò un’ode, guidò quattro spedizioni nell’arco di otto anni; ma tornò a casa sano e salvo. Il capitano Franklin e quasi tutti i suoi marinai non tornarono più. Dalla carte in seguito ritrovate si direbbe che fosse giunto assai vicino al punto da cui procedere verso il Pacifico. Ma per seguire «l’intuizione» di Barrow proseguì nella direzione sbagliata.
Le successive missioni di soccorso alla ricerca prima di lui e poi dei suoi resti costarono un patrimonio e molte altre vite umane. Il risultato positivo fu che nei dieci anni di quelle ricerche l’Artide «subì un assalto cartografico forse decisivo»; ma della fine di Franklin nulla fu scoperto.
L’altra ossessione di Barrow era quella di mappare l’intero corso del Niger, che secondo lui confluiva nel fiume Congo. Quindi promosse una prima spedizione via acqua, che si concluse con la morte del suo responsabile, James Tuckey, e di quasi tutti i suoi uomini, che erano riusciti a risalire il Congo per 300 chilometri. Barrow rimaneggiò pesantemente in chiave ottimistica il diario di Tuckey e promosse poi una folle spedizione verso il Niger via terra, attraverso il Sahara. Ad arrivare alla mitizzata Timbuctù fu più tardi un ufficiale dell’Esercito, Gordon Laing, quasi impazzito a conclusione di un viaggio «impossibile» per un europeo: scoprì che la città era «una fetida distesa di casupole in fango e mattoni», protetta da sei chilometri di mura, Fleming riporta una massa impressionante di affermazioni insensate e crudeli di Barrow, che non aveva nessuna considerazione per le sofferenze dei suoi esploratori; anzi, quasi le considerava doverose. Al tempo stesso, però, riferisce accuratamente le circostanze di quelle folli imprese, che, al di là delle fantasticherie di Barrow, in effetti portarono a risultati scientifici importanti. La sua ricostruzione, priva di retorica (e forse proprio per questa ragione), ci dà comunque l’idea del coraggio, della determinazione, dell’eroismo di quei «pazzi di inglesi», animati da uno spirito intrepido che merita tutto il nostro rispetto.


“La Stampa”, 20 novembre 2016

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